SmaniaRock by Roberto

La discoteca di cineSmania

2021

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Have a good trip, have Rock!
rubrica a cura di Roberto Gaudenzi

 

𝐖𝐇𝐀𝐓𝐄𝐕𝐄𝐑𝐒𝐇𝐄𝐁𝐑𝐈𝐍𝐆𝐒𝐖𝐄𝐒𝐈𝐍𝐆

𝐊𝐞𝐯𝐢𝐧 𝐀𝐲𝐞𝐫𝐬 - 𝟏𝟗𝟕𝟏


𝐵𝑢𝑡 𝑦𝑜𝑢 𝑤𝑜𝑛'𝑡 𝑓𝑖𝑛𝑑 𝑡ℎ𝑒 𝑎𝑛𝑠𝑤𝑒𝑟 
𝐸𝑣𝑒𝑛 𝑤ℎ𝑒𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑤𝑖𝑛𝑑 𝑏𝑙𝑜𝑤𝑠; 
'𝐶𝑎𝑢𝑠𝑒 𝑡ℎ𝑒 𝑎𝑛𝑠𝑤𝑒𝑟, 𝑚𝑦 𝑓𝑟𝑖𝑒𝑛𝑑 𝑖𝑠 𝑖𝑛 𝑓𝑟𝑜𝑛𝑡.. 
𝑅𝑖𝑔ℎ𝑡 𝑡ℎ𝑒𝑟𝑒 𝑖𝑛 𝑓𝑟𝑜𝑛𝑡 𝑜𝑓 𝑦𝑜𝑢𝑟 𝑛𝑜𝑠𝑒 
𝐸𝑣𝑒𝑟𝑦𝑏𝑜𝑑𝑦 𝑘𝑛𝑜𝑤𝑠, 𝑖𝑡'𝑠 𝑡ℎ𝑒𝑖𝑟 𝑛𝑜𝑠𝑒. 
(𝑊ℎ𝑎𝑡𝑒𝑣𝑒𝑟𝑠ℎ𝑒𝑏𝑟𝑖𝑛𝑔𝑠𝑤𝑒𝑠𝑖𝑛𝑔)


Esistono gemme nascoste che è necessario estrarre dalle miniere in cui rimangono sepolte. Nella musica che qui si tratta non sono poche queste gemme, il loro unico difetto, se così è necessario esprimersi (in termini di imperfezione, scarto, deviazione dall’estetica che il rock ha creduto di incarnare nella vulgata) è appunto che per loro natura non seguono la corrente, sono opere di outsider, coraggiosi inventori di forme, solitari vagabondi che tracciano sentieri nei boschi delle sette note. A volte capita che questi percorsi tornino a ricoprirsi di sterpaglie tanto sono lontani dalle strade a grande traffico.

Allora noi sfoltiamo le erbacce che le soffocano e le riportiamo alla luce. 𝐖𝐚𝐭𝐞𝐯𝐞𝐫𝐬𝐡𝐞𝐛𝐫𝐢𝐧𝐠𝐬𝐰𝐞𝐬𝐢𝐧𝐠 è quasi uno scioglilingua, una frase senza spazi, un’aggregazione poco dopo un big bang quando le lettere-atomi iniziano ad avere una struttura ma necessitano di una separazione di significati, siamo poco oltre il caos primordiale quando già forme elementari si aggregano.

𝐊𝐞𝐯𝐢𝐧 𝐀𝐲𝐞𝐫𝐬 è genitore di quel Suono di Canterbury che già agli albori del Rock mostrava una certa irrequietezza, fremeva di brividi Jazz, agognava spazi sperimentali, vibrazioni elettriche, malinconie di ballate, improvvisazioni ubriache. Fondatore della “𝑀𝑜𝑟𝑏𝑖𝑑𝑎 𝑀𝑎𝑐𝑐ℎ𝑖𝑛𝑎”, Kevin Ayers gestisce poi uno spazio solista con voce bassa e suadente, malinconicamente ironica.
Rallegrandosi per un giocattolo, spara alla luna, parafrasando i suoi due album precedenti: “𝐽𝑜𝑦 𝑜𝑓 𝑎 𝑇𝑜𝑦” E “𝑆ℎ𝑜𝑜𝑡𝑖𝑛𝑔 𝑎𝑡 𝑡ℎ𝑒 𝑀𝑜𝑜𝑛.” 𝑇𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑐𝑖𝑜̀ 𝑐ℎ𝑒 𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎 𝑛𝑜𝑖 𝑐𝑎𝑛𝑡𝑖𝑎𝑚𝑜: recita il titolo di questo album: chi è questa “𝑒𝑙𝑙𝑎” se non la musica che qui porta se stessa in braccio all’ispirazione? 

È il relativismo che già dal primo brano, 𝐓𝐡𝐞𝐫𝐞 𝐈𝐬 𝐋𝐨𝐯𝐢𝐧𝐠/𝐀𝐦𝐨𝐧𝐠 𝐔𝐬/𝐓𝐡𝐞𝐫𝐞 𝐈𝐬 𝐋𝐨𝐯𝐢𝐧𝐠, quasi un medley dai toni magniloquenti, pomposo di ottoni, che ricorda il tema di 𝐴𝑡𝑜𝑚 𝐻𝑒𝑎𝑟𝑡 𝑀𝑜𝑡ℎ𝑒𝑟 𝑑𝑒𝑖 𝑃𝑖𝑛𝑘 𝐹𝑙𝑜𝑦𝑑, ci introduce i“𝑇𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑓𝑎𝑖 𝑒̀ 𝑣𝑒𝑟𝑜 𝑓𝑖𝑛𝑐ℎ𝑒́ 𝑐𝑖 𝑐𝑟𝑒𝑑𝑖./ 𝑇𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑑𝑖𝑐𝑖 𝑒̀ 𝑢𝑛 𝑔𝑖𝑜𝑐𝑜 𝑒 𝑐𝑜𝑠𝑖̀ 𝑑𝑜𝑣𝑟𝑒𝑠𝑡𝑖 𝑡𝑟𝑎𝑡𝑡𝑎𝑟𝑙𝑜./ 𝑇𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑎𝑙𝑡𝑖/𝑓𝑖𝑛𝑐ℎ𝑒́ 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑐𝑢𝑛𝑜 𝑙𝑖 𝑎𝑏𝑏𝑎𝑠𝑠𝑎.” Un’incertezza in mano alla sorte che si colora con il tema di una fanfara.

𝐌𝐚𝐫𝐠𝐚𝐫𝐞𝐭 è una canzone d’amore in un giorno di pioggia gentile, è un incanto che meraviglia e che riporta all’infanzia, potrebbe essere un amore senza oggetto, idealizzato, o più semplicemente verso una figlia: tastiere arpeggiare con effetti dischiudono un bucolico scenario:“𝐶𝑎𝑛𝑡𝑜 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑔𝑟𝑎𝑡𝑎 𝑐𝑎𝑛𝑧𝑜𝑛𝑒 𝑑’𝑎𝑚𝑜𝑟𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑢𝑛 𝑓𝑖𝑜𝑟𝑒 𝑎 𝑢𝑛𝑎 𝑓𝑎𝑟𝑓𝑎𝑙𝑙𝑎”. L’artista qui si offre come attrazione colorata, richiamo di leggerezza.

Il contrappunto festoso del Dixieland accompagna 𝐎𝐡 𝐦𝐲! a riprova della pluralità di toni e di umori che fanno di questo disco, a mio avviso, un gioiello da lustrare. Oh my! è un lamento sorretto da una dose di pacifica rassegnazione, come tutto l’album del resto. “𝐶𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑣𝑜 𝑑𝑎𝑣𝑣𝑒𝑟𝑜, 𝑚𝑎 𝑛𝑜𝑛 𝑣𝑎𝑑𝑜 𝑑𝑎 𝑛𝑒𝑠𝑠𝑢𝑛𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑒”, e ancora: ”𝐵𝑒𝑣𝑜 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑣𝑖𝑛𝑜 𝑠𝑜𝑡𝑡𝑜 𝑢𝑛 𝑠𝑜𝑙𝑒 𝑠𝑝𝑙𝑒𝑛𝑑𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑎𝑠𝑝𝑒𝑡𝑡𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑡𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑐𝑎𝑑𝑎”. Qualcosa che deve succedere ma che l’inerzia non riesce a realizzare. 

Unico brano cupo e poco rassicurante è 𝐒𝐨𝐧𝐠 𝐟𝐫𝐨𝐦 𝐭𝐡𝐞 𝐛𝐨𝐭𝐭𝐨𝐦 𝐨𝐟 𝐚 𝐰𝐞𝐥𝐥. Canzone dal fondo di un pozzo, che gioca sul termine well che in inglese è soprattutto la parola “bene”, slitta il significato tra un sostantivo che evoca buia profondità e un altro sostantivo che all’occorrenza diventa aggettivo, cioè qualità. Tutto il testo è giocato in queste ambiguità: una luce che è anche buio, l’acqua che sembra vino, una differenza tra le cose che succedono, semplicemente si verificano, fino alla fine dove il nostro afferma di non lamentarsi della sua condizione “𝑝𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́ 𝑠𝑒 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑞𝑢𝑖, 𝑣𝑢𝑜𝑙𝑒 𝑑𝑖𝑟𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑙𝑎̀”. Un’ovvietà, presa per sé, ma significativa se nella negazione, in fondo, dell’ubiquità si afferma l’impossibilità di essere ciò che non si è. Diventa quindi un ulteriore affermazione di malinconica rassegnazione. La veste sonora qui è informale, echeggiante, destrutturata, tanto quanto è soave il pezzo che intitola l’album, un diamante incastonato nel gioiello. 

Il titolo scioglilingua diviso nei suoi termini si può tradurre in: “𝑄𝑢𝑎𝑙𝑢𝑛𝑞𝑢𝑒 𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑙𝑒𝑖 𝑝𝑜𝑟𝑡𝑖, 𝑛𝑜𝑖 𝑐𝑎𝑛𝑡𝑖𝑎𝑚𝑜”, e qui ci si domanda chi impersona questa lei? Abbiamo detto la musica, ma questa questa "𝑠ℎ𝑒", pronome personale femminile, si può anche personificare con la sorte, la fortuna. Una sorte che sembra vestire gli abiti di una femmina “𝑔𝑟𝑎𝑠𝑠𝑎 𝑒 𝑏𝑒𝑛 𝑛𝑢𝑡𝑟𝑖𝑡𝑎” ma che non viene mai a trovarci, così: “𝑆𝑡𝑜 𝑝𝑎𝑟𝑙𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑐𝑜𝑛 𝑡𝑒/𝑠𝑜𝑙𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑓𝑎𝑟𝑒 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑐ℎ𝑒 𝑐𝑜𝑠𝑎./ 𝑃𝑟𝑒𝑓𝑒𝑟𝑖𝑟𝑒𝑖 𝑑𝑖 𝑔𝑟𝑎𝑛 𝑙𝑢𝑛𝑔𝑎 𝑏𝑎𝑐𝑖𝑎𝑟𝑡𝑖/𝑚𝑎 𝑚𝑖 𝑚𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒𝑟𝑎𝑖 𝑎𝑛𝑐𝑜𝑟𝑎 𝑒 𝑎𝑛𝑐𝑜𝑟𝑎”. A questa fortuna assente il Chorus risponde con un abbandono al divertimento e con un’esortazione: “𝑆𝑒 𝑣𝑢𝑜𝑖 𝑑𝑎𝑣𝑣𝑒𝑟𝑜 𝑓𝑎𝑟𝑐𝑒𝑙𝑎/ 𝐷𝑖𝑣𝑒𝑟𝑡𝑖𝑡𝑖!/ 𝐵𝑒𝑣𝑖 𝑢𝑛 𝑝𝑜’ 𝑑𝑖 𝑣𝑖𝑛𝑜/ 𝐸 𝑏𝑢𝑜𝑛 𝑑𝑖𝑣𝑒𝑟𝑡𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜”. Con un’introduzione di basso, un coretto in apertura è il preludio a un pezzo soavissimo punteggiato dalla chitarra di 𝐌𝐢𝐤𝐞 𝐎𝐥𝐝𝐟𝐢𝐞𝐥𝐝 che dà vita anche all’interludio strumentale; nella voce malinconica e dalle note profonde di Ayers troviamo quell’aria di, oso dire, divertita tristezza; e quando, nel chorus si affianca la voce di 𝐑𝐨𝐛𝐞𝐫𝐭 𝐖𝐲𝐚𝐭𝐭, un angelico colore pennella i versi e allora capiamo che l’atteggiamento migliore è proprio quello suggerito dal titolo scioglilingua: qualsiasi sia la nostra sorte, noi cantiamo. 

Una leggerezza che fa sembrare stranieri nelle “𝑆𝑐𝑎𝑟𝑝𝑒 𝑑𝑖 𝑐𝑎𝑚𝑜𝑠𝑐𝑖𝑜 𝑏𝑙𝑢”, 𝐒𝐭𝐫𝐚𝐧𝐠𝐞𝐫 𝐢𝐧 𝐁𝐥𝐮𝐞 𝐒𝐮𝐞𝐝𝐞 𝐒𝐡𝐨𝐞𝐬, facile accostamento alla più celebre Blue Suede Shoes di Carl Perkins del 1955 interpretata da Elvis Presley, ma qui siamo in un bar dove non vengono serviti estranei con quel tipo di scarpe e il barista che non stabilisce regole vorrebbe solo infrangerle e una sigaretta offerta sembra essere la spinta per andarsene per la propria strada.

𝐂𝐡𝐚𝐦𝐩𝐚𝐠𝐧𝐞 𝐂𝐨𝐰𝐛𝐨𝐲 𝐁𝐥𝐮𝐞𝐬 ci porta in un saloon con un Ayers cowboy ubriaco, che ringrazia il proprio cavallo per l’uso che ha fatto del suo corpo, un addio, una speranza di avere ricavato divertimento anche dal proprio. Un violino country and western, una musica che scivola letteralmente sulle note di una slide suonata da Oldfield come su una giostra sgangherata di un luna park dismesso. 

Rumore d’acqua ci porta alla strumentale 𝐋𝐮𝐥𝐥𝐚𝐛𝐲 finale, breve e bucolica, una ninna nanna, appunto, che sembra invitarci in quel paese di fiabe già suggerito dalla copertina dove da un cesto rovesciato si spargono uova rotte da cui fuoriescono bambini. 

articolo e foto di 2021 © Roberto Gaudenzi - 14 maggio 2021

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𝐓𝐇𝐄 𝐍𝐈𝐆𝐇𝐓𝐅𝐋𝐘

𝐃𝐨𝐧𝐚𝐥𝐝 𝐅𝐚𝐠𝐞𝐧 - 𝟏𝟗𝟖𝟐


𝐿𝑒𝑡'𝑠 𝑝𝑟𝑒𝑡𝑒𝑛𝑑 𝑡ℎ𝑎𝑡 𝑖𝑡'𝑠 𝑡ℎ𝑒 𝑟𝑒𝑎𝑙 𝑡ℎ𝑖𝑛𝑔 
𝐴𝑛𝑑 𝑠𝑡𝑎𝑦 𝑡𝑜𝑔𝑒𝑡ℎ𝑒𝑟 𝑎𝑙𝑙 𝑛𝑖𝑔ℎ𝑡 𝑙𝑜𝑛𝑔 
𝐴𝑛𝑑 𝑤ℎ𝑒𝑛 𝐼 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑙𝑦 𝑔𝑒𝑡 𝑡𝑜 𝑘𝑛𝑜𝑤 𝑦𝑜𝑢 
𝑊𝑒'𝑙𝑙 𝑜𝑝𝑒𝑛 𝑢𝑝 𝑡ℎ𝑒 𝑑𝑜𝑜𝑟𝑠 𝑎𝑛𝑑 𝑐𝑙𝑖𝑚𝑏 𝑖𝑛𝑡𝑜 𝑡ℎ𝑒 𝑑𝑎𝑤𝑛 
𝐶𝑜𝑛𝑓𝑒𝑠𝑠 𝑦𝑜𝑢𝑟 𝑝𝑎𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛 𝑦𝑜𝑢𝑟 𝑠𝑒𝑐𝑟𝑒𝑡 𝑓𝑒𝑎𝑟 
𝑃𝑟𝑒𝑝𝑎𝑟𝑒 𝑡𝑜 𝑚𝑒𝑒𝑡 𝑡ℎ𝑒 𝑐ℎ𝑎𝑙𝑙𝑒𝑛𝑔𝑒 𝑜𝑓 𝑡ℎ𝑒 𝑛𝑒𝑤 𝑓𝑟𝑜𝑛𝑡𝑖𝑒𝑟 
(𝑁𝑒𝑤 𝐹𝑟𝑜𝑛𝑡𝑖𝑒𝑟) 

Prendete pomeriggi chiari e assolati, quando qualche nuvola solitaria vaga nell’azzurro, in un parco cittadino, con panchine qua e là occupate, vialetti di ghiaia. Un sentimento leggero e frizzante percorre la pelle. Udite qualche richiamo, mamme o coppie con il passeggino e forse potete vedere qualche palloncino colorato.
La tinta che pervade il tutto è una dominante rosa pastello e tinte pastello colorano ogni cosa. In un perfetto equilibrio tra easy-listening, funk, interventi orchestrali che alleggeriscono ulteriormente, accenni jazz, tastiere che suggeriscono, che fanno del silenzio tra un accordo e il successivo lo spazio per introdurre fraseggi in punta di dita da sei corde gentili, fiati che respirano e la ritmica precisa e senza fronzoli. 

Con intro di pianoforte che odorano di standard jazz e il rock in punta di dita, un occhio puntato ad atmosfere Tamla Motown, qui si respira un approccio alla vita disincantato, fluido, non incosciente né menefreghista, scorrevole. 

Pervade in tutto il disco la consapevolezza che solo con il distacco si può continuare a sopravvivere. “𝐴𝑏𝑏𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑝𝑟𝑜𝑣𝑣𝑖𝑠𝑡𝑒 𝑒 𝑚𝑜𝑙𝑡𝑎 𝑏𝑖𝑟𝑟𝑎 𝑖𝑛 𝑐𝑎𝑠𝑜 𝑖 𝑟𝑜𝑠𝑠𝑖 𝑑𝑒𝑐𝑖𝑑𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑠𝑐ℎ𝑖𝑎𝑐𝑐𝑖𝑎𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑏𝑜𝑡𝑡𝑜𝑛𝑒”, si canta in 𝐍𝐞𝐰 𝐅𝐫𝐨𝐧𝐭𝐢𝐞𝐫, la nuova frontiera kennediana dei primi anni sessanta, un’atmosfera densa di ottimismo malgrado la guerra fredda al culmine; si canta di una “𝑔𝑟𝑜𝑠𝑠𝑎 𝑏𝑖𝑜𝑛𝑑𝑎” che “ℎ𝑎 𝑙𝑒 𝑔𝑖𝑢𝑠𝑡𝑒 𝑑𝑖𝑛𝑎𝑚𝑖𝑐ℎ𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑙𝑎 𝑛𝑢𝑜𝑣𝑎 𝑓𝑟𝑜𝑛𝑡𝑖𝑒𝑟𝑎” , che sono poi dinamiche leggere, incentrate su ciò che indossa e come si pettina. 

“𝑆𝑢𝑙𝑙’𝑎𝑡𝑡𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑠𝑜𝑡𝑡𝑜 𝑙𝑎 𝑏𝑎𝑛𝑑𝑖𝑒𝑟𝑎 𝑎 𝑠𝑡𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑒 𝑠𝑡𝑟𝑖𝑠𝑐𝑒/𝑝𝑜𝑠𝑠𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑑𝑖𝑟𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑠𝑜𝑔𝑛𝑜 𝑒̀ 𝑣𝑖𝑐𝑖𝑛𝑜/…𝑖𝑙 𝑓𝑢𝑡𝑢𝑟𝑜 𝑒̀ 𝑟𝑎𝑑𝑖𝑜𝑠𝑜”, (𝐈.𝐆.𝐘. 𝐈𝐧𝐭𝐞𝐫𝐧𝐚𝐭𝐢𝐨𝐧𝐚𝐥 𝐆𝐞𝐨𝐩𝐡𝐲𝐬𝐢𝐜𝐚𝐥 𝐘𝐞𝐚𝐫) l’ottimismo per un futuro prossimo venturo che vede una stazione ruotare nello spazio, alimentata dal sole, un gioco d’azzardo nello spazio da vincere. 
Si rileva una certa dose di ironia in questo sorridente avvenire, dove ci saranno “𝑔𝑖𝑎𝑐𝑐ℎ𝑒 𝑒𝑙𝑎𝑠𝑡𝑖𝑐𝑖𝑧𝑧𝑎𝑡𝑒” per tutti. Con un leggero sorriso di incoraggiamento si accendono i riflettori su un mondo prossimo venturo leggero e dinamico come la musica che veste tutto il disco. 

Ecco, mi accorgo ora di non aver detto di chi si tratta, chi c’è dietro a questa lieve ironia: la stessa persona che potete vedere sulla copertina del disco, un DJ radiofonico vecchia maniera che parla con una sigaretta tra le dita e un giradischi e un vinile sopra, confinato in un angolo in un angusto locale. Un DJ solitario che diffonde nell’etere quella leggerezza che forse lui non possiede, un orologio segna le 4:10 che immaginiamo essere notturne non certo del pomeriggio, la foto in bianco e nero. The Nightfly è un DJ realmente esistito…e ancora non ho detto chi è l’autore del disco, forse perché la musica che si sprigiona è così internazionale che potrebbe essere nata senza l’intervento umano. 

E’ 𝐃𝐨𝐧𝐚𝐥𝐝 𝐅𝐚𝐠𝐞𝐧 che qui esprime le sue impressioni di ragazzo adolescente ai tempi della “𝑁𝑢𝑜𝑣𝑎 𝐹𝑟𝑜𝑛𝑡𝑖𝑒𝑟𝑎” come il presidente Kennedy aveva battezzato l’epoca densa di speranze e ingenuità, tanto che agli occhi di un adolescente in 𝐆𝐫𝐞𝐞𝐧 𝐅𝐥𝐨𝐰𝐞𝐫 𝐒𝐭𝐫𝐞𝐞𝐭 “𝑢𝑛 𝑜𝑚𝑖𝑐𝑖𝑑𝑖𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑠𝑡𝑟𝑎𝑑𝑎” si alleggerisce della sua portata tragica e “𝑙𝑒 𝑛𝑜𝑡𝑡𝑖 𝑑𝑖𝑣𝑒𝑛𝑡𝑎𝑛𝑜 𝑙𝑢𝑚𝑖𝑛𝑜𝑠𝑒, 𝑒 𝑙𝑎 𝑔𝑖𝑜𝑖𝑎 𝑒̀ 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑙𝑒𝑡𝑎”. 

Donald Fagen è il cofondatore con Walter Becker degli 𝐒𝐭𝐞𝐞𝐥𝐲 𝐃𝐚𝐧. The Nightfly ha tra gli altri pregi quello di essere tutt’ora utilizzato per testare gli impianti Hi-Fi per la qualità digitale (già all’epoca) della registrazione. 

𝐑𝐮𝐛𝐲 𝐁𝐚𝐛𝐲 di 𝐋𝐞𝐢𝐛𝐞𝐫 𝐚𝐧𝐝 𝐒𝐭𝐨𝐥𝐥𝐞𝐫, coppia di storici autori, con un raffinato assolo jazz al pianoforte annuncia un amore non corrisposto; unico brano della raccolta non composto da Fagen ma da lui riarrangiato, presenta un problema adolescenziale con leggerezza e determinazione, con la fiducia nell’avvenire che l’età “verde” può dare: “𝑇𝑖 𝑟𝑢𝑏𝑒𝑟𝑜̀ 𝑑𝑎 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑞𝑢𝑒𝑖 𝑟𝑎𝑔𝑎𝑧𝑧𝑖….𝑅𝑢𝑏𝑦 𝐵𝑎𝑏𝑦, 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑠𝑎𝑟𝑎𝑖 𝑚𝑖𝑎”. 

𝐌𝐚𝐱𝐢𝐧𝐞 profuma dall’intro di piano jazzata di locali notturni, di luci soffuse, guide lungo Avenue newyorkesi: “𝐶𝑖 𝑠𝑝𝑜𝑠𝑡𝑒𝑟𝑒𝑚𝑜 𝑓𝑖𝑛𝑜 𝑎 𝑀𝑎𝑛ℎ𝑎𝑡𝑡𝑎𝑛 𝑒 𝑟𝑖𝑒𝑚𝑝𝑖𝑟𝑒𝑚𝑜 𝑖𝑙 𝑝𝑜𝑠𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑎𝑚𝑖𝑐𝑖”. 

“𝑈𝑛𝑎 𝑠𝑡𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛𝑑𝑖𝑝𝑒𝑛𝑑𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑊𝐽𝐴𝑍” recita il coro femminile che ci accompagna ad ascoltare “𝐽𝑎𝑧𝑧 𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑣𝑒𝑟𝑠𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖” nel brano che intitola l’album e che rivela il DJ dal fondo del Monte Belzoni, località dello stato dell’lbum e che rivela il DJ dal fonl Monte Belzoni, località dello stato del Mississippi, profondo sud USA.

𝐓𝐡𝐞 𝐆𝐨𝐨𝐝𝐛𝐲𝐞 𝐋𝐨𝐨𝐤 accenna alla rivoluzione cubana, una tranquilla isola dove era facile fare surf: non è una presa di posizione politica, è solo la visione di un adolescente che se ne deve andare dall’isola caraibica. 

Così si passeggia tra le gocce di pioggia a Miami, 𝐖𝐚𝐥𝐤 𝐁𝐞𝐭𝐰𝐞𝐞𝐧 𝐑𝐚𝐢𝐧𝐝𝐫𝐨𝐩𝐬, al rumore del tuono e lo scopo delle lotte per cui si è combattuto è stato dimenticato. La Florida, stato a non molte miglia da Cuba diventa il nuovo paradiso raggiunto, non c’è tempo per combattere per un adolescente figlio della “Nuova Frontiera”. 

Questo album, luminoso e frizzante, mi ricorda certi film di 𝐖𝐨𝐨𝐝𝐲 𝐀𝐥𝐥𝐞𝐧 dove vicende individuali sfiorano il tessuto sociale e aleggia un’atmosfera fuori dal tempo dove drammi e turbamenti, crisi esistenziali e di coppia si Raindrops, al rumore del tuono e lo scopo delle lotte per cui si è combattuto. 

articolo e foto di 2021 © Roberto Gaudenzi - 7 maggio 2021

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𝐑𝐎𝐂𝐊 𝐁𝐎𝐓𝐓𝐎𝐌

𝐑𝐨𝐛𝐞𝐫𝐭 𝐖𝐲𝐚𝐭𝐭 (𝟏𝟗𝟕𝟒)


𝑌𝑜𝑢 𝑙𝑜𝑜𝑘 𝑑𝑖𝑓𝑓𝑒𝑟𝑒𝑛𝑡 𝑒𝑣𝑒𝑟𝑦 𝑡𝑖𝑚𝑒 
𝑌𝑜𝑢 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑓𝑟𝑜𝑚 𝑡ℎ𝑒 𝑓𝑜𝑎𝑚-𝑐𝑟𝑒𝑠𝑡𝑒𝑑 𝑏𝑟𝑖𝑛𝑒 
𝐼𝑡'𝑠 𝑦𝑜𝑢𝑟 𝑠𝑘𝑖𝑛, 𝑠ℎ𝑖𝑛𝑖𝑛𝑔 𝑠𝑜𝑓𝑡𝑙𝑦 𝑖𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑚𝑜𝑜𝑛𝑙𝑖𝑔ℎ𝑡 
𝑃𝑎𝑟𝑡𝑙𝑦 𝑓𝑖𝑠ℎ, 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑙𝑦 𝑝𝑜𝑟𝑝𝑜𝑖𝑠𝑒 
𝑃𝑎𝑟𝑡𝑙𝑦 𝑏𝑎𝑏𝑦 𝑠𝑝𝑒𝑟𝑚 𝑤ℎ𝑎𝑙𝑒 
𝐴𝑚 𝐼 𝑦𝑜𝑢𝑟𝑠? 𝐴𝑟𝑒 𝑦𝑜𝑢 𝑚𝑖𝑛𝑒 𝑡𝑜 𝑝𝑙𝑎𝑦 𝑤𝑖𝑡ℎ? 
𝐽𝑜𝑘𝑖𝑛𝑔 𝑎𝑝𝑎𝑟𝑡 
𝑊ℎ𝑒𝑛 𝑦𝑜𝑢'𝑟𝑒 𝑑𝑟𝑢𝑛𝑘 𝑦𝑜𝑢'𝑟𝑒 𝑡𝑒𝑟𝑟𝑖𝑓𝑖𝑐 
𝑊ℎ𝑒𝑛 𝑦𝑜𝑢'𝑟𝑒 𝑑𝑟𝑢𝑛𝑘 
𝐼 𝑙𝑖𝑘𝑒 𝑦𝑜𝑢 𝑚𝑜𝑠𝑡𝑙𝑦 𝑙𝑎𝑡𝑒 𝑎𝑡 𝑛𝑖𝑔ℎ𝑡 
𝑌𝑜𝑢'𝑟𝑒 𝑞𝑢𝑖𝑡𝑒 𝑎𝑙𝑟𝑖𝑔ℎ𝑡 
𝐵𝑢𝑡 𝐼 𝑐𝑎𝑛'𝑡 𝑢𝑛𝑑𝑒𝑟𝑠𝑡𝑎𝑛𝑑 𝑡ℎ𝑒 𝑑𝑖𝑓𝑓𝑒𝑟𝑒𝑛𝑡 𝑦𝑜𝑢 
𝐼𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑚𝑜𝑟𝑛𝑖𝑛𝑔, 𝑤ℎ𝑒𝑛 𝑖𝑡'𝑠 𝑡𝑖𝑚𝑒 
𝑇𝑜 𝑝𝑙𝑎𝑦 𝑎𝑡 𝑏𝑒𝑖𝑛𝑔 ℎ𝑢𝑚𝑎𝑛 𝑓𝑜𝑟 𝑎 𝑤ℎ𝑖𝑙𝑒 
𝑃𝑙𝑒𝑎𝑠𝑒 𝑠𝑚𝑖𝑙𝑒! 
𝑌𝑜𝑢'𝑙𝑙 𝑏𝑒 𝑑𝑖𝑓𝑓𝑒𝑟𝑒𝑛𝑡 𝑖𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑠𝑝𝑟𝑖𝑛𝑔 
𝐼 𝑘𝑛𝑜𝑤, 𝑦𝑜𝑢'𝑟𝑒 𝑎 𝑠𝑒𝑎𝑠𝑜𝑛𝑎𝑙 𝑏𝑒𝑎𝑠𝑡 
𝐿𝑖𝑘𝑒 𝑡ℎ𝑒 𝑠𝑡𝑎𝑟𝑓𝑖𝑠ℎ 𝑡ℎ𝑎𝑡 𝑑𝑟𝑖𝑓𝑡 𝑖𝑛 𝑤𝑖𝑡ℎ 𝑡ℎ𝑒 𝑡𝑖𝑑𝑒 
𝑊𝑖𝑡ℎ 𝑡ℎ𝑒 𝑡𝑖𝑑𝑒 
𝑆𝑜 𝑢𝑛𝑡𝑖𝑙 𝑦𝑜𝑢𝑟 𝑏𝑙𝑜𝑜𝑑 𝑟𝑢𝑛𝑠 
𝑇𝑜 𝑚𝑒𝑒𝑡 𝑡ℎ𝑒 𝑛𝑒𝑥𝑡 𝑓𝑢𝑙𝑙 𝑚𝑜𝑜𝑛 
𝑌𝑜𝑢𝑟 𝑚𝑎𝑑𝑛𝑒𝑠𝑠 𝑓𝑖𝑡𝑠 𝑖𝑛 𝑛𝑖𝑐𝑒𝑙𝑦 𝑤𝑖𝑡ℎ 𝑚𝑦 𝑜𝑤𝑛 
𝑊𝑖𝑡ℎ 𝑚𝑦 𝑜𝑤𝑛 
𝑌𝑜𝑢𝑟 𝑙𝑢𝑛𝑎𝑐𝑦 𝑓𝑖𝑡𝑠 𝑛𝑒𝑎𝑡𝑙𝑦 𝑤𝑖𝑡ℎ 𝑚𝑦 𝑜𝑤𝑛 
𝑀𝑦 𝑣𝑒𝑟𝑦 𝑜𝑤𝑛 
𝑊𝑒'𝑟𝑒 𝑛𝑜𝑡 𝑎𝑙𝑜𝑛𝑒 
(𝑆𝑒𝑎 𝑆𝑜𝑛𝑔) 

“𝐶𝑟𝑒𝑑𝑜 𝑑𝑖 𝑛𝑜𝑛 𝑎𝑣𝑒𝑟𝑒 𝑚𝑎𝑖 𝑓𝑎𝑡𝑡𝑜 𝑢𝑛 𝑑𝑖𝑠𝑐𝑜 𝑅𝑜𝑐𝑘”. Cito a memoria una dichiarazione di 𝐑𝐨𝐛𝐞𝐫𝐭 𝐖𝐲𝐚𝐭𝐭 e non si può dissentire. Robert Wyatt, all’anagrafe 𝐑𝐨𝐛𝐞𝐫𝐭 𝐖𝐲𝐚𝐭𝐭-𝐄𝐥𝐥𝐢𝐝𝐠𝐞, già membro fondatore e batterista dei 𝑆𝑜𝑓𝑡 𝑀𝑎𝑐ℎ𝑖𝑛𝑒 fino al loro quarto album; fondatore dei 𝑀𝑎𝑡𝑐ℎ𝑖𝑛𝑔 𝑀𝑜𝑙𝑒 poi solista, collaboratore in decine di dischi altrui, non è classificabile. 
Wyatt è un insieme di tante cose: uno spirito improvvisativo con il Jazz nelle membra, uno sperimentatore sul confine dell’avanguardia, un cesellatore di melodie sublimi. Dotato di qualità canore che fanno del vocalizzo una cifra unica e inconfondibile, polistrumentista dopo essere stato prevalentemente “𝑏𝑎𝑡𝑡𝑒𝑟𝑖𝑠𝑡𝑎 𝑏𝑖𝑝𝑒𝑑𝑒”, secondo una sua personale definizione che traccia un confine tra prima e dopo l’incidente che lo ha legato per la vita su una sedia a rotelle, esce nel 1974, dopo una lunga convalescenza, con 𝐑𝐨𝐜𝐤 𝐁𝐨𝐭𝐭𝐨𝐦 che già nel titolo rimanda all’affermazione che ho posto come incipit a queste righe: il fondo del rock, la sua parte più bassa, ma forse anche il suo ombelico, il punto centrale.

Inciso con musiche composte in gran parte in precedenza, a Venezia per la precisione, in trasferta al seguito della compagna di una vita 𝐴𝑙𝑓𝑟𝑒𝑑𝑎 𝐵𝑒𝑛𝑔𝑒, 𝐑𝐨𝐜𝐤 𝐁𝐨𝐭𝐭𝐨𝐦 è un dolente canto alla rassegnazione, una discesa all’infanzia. 

𝐀𝐥𝐢𝐟𝐢𝐛 /𝐀𝐥𝐢𝐟𝐞, i due brani senza soluzione di continuità che recano il nome della moglie Alfreda. Il primo storpiato in Alifib, ritmato vocalizzando il titolo su un tappeto di tastiere e fraseggi di chitarra non citata nelle note di copertina, forse suonata dallo stesso bassista 𝐇𝐮𝐠𝐡 𝐇𝐨𝐩𝐩𝐞𝐫 anche se lo stile sembra far propendere per 𝐌𝐢𝐤𝐞 𝐎𝐥𝐝𝐟𝐢𝐞𝐥𝐝, accreditato solo nell’ultimo pezzo del disco, i due brani dicevo si sciolgono in onomatopee che riportano a una regressione infantile: “𝑁𝑜𝑡 𝑛𝑖𝑡 𝑛𝑜𝑡/𝑛𝑖𝑡 𝑛𝑖𝑡 𝑓𝑜𝑙𝑙𝑦 𝑏𝑜𝑙𝑜𝑙𝑒𝑦” con i fiati di 𝐆𝐚𝐫𝐲 𝐖𝐢𝐧𝐝𝐨, ad armonizzare in modo informale, molto free, sporco, a sciogliersi in una sorta di balbettio senza grammatica. Il Wyatt reduce da una tragedia non piange né si dispera, cerca di ricostruirsi e il modo migliore per lui sembra essere un ritorno nell’abbraccio della madre impersonata dalla moglie: “𝐴𝑙𝑖𝑓𝑒 𝑚𝑦 𝑙𝑎𝑟𝑑𝑒𝑟” Alfie, (ma si noti che il nomignolo è storpiato con un semplice anagramma in 𝐀𝐥𝐢𝐟𝐞, “una vita”), è definita “𝑢𝑛𝑎 𝑑𝑖𝑠𝑝𝑒𝑛𝑠𝑎”, una fonte di nutrimento. La moglie interviene a fine brano, mentre la musica sfuma, a precisare: “𝑁𝑜𝑛 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑢𝑛𝑎 𝑑𝑖𝑠𝑝𝑒𝑛𝑠𝑎/𝑆𝑜𝑛𝑜 𝐴𝑙𝑖𝑓𝑒 𝑙𝑎 𝑡𝑢𝑎 𝑔𝑢𝑎𝑟𝑑𝑖𝑎𝑛𝑎”. 

𝐒𝐞𝐚 𝐒𝐨𝐧𝐠, Il pezzo che apre l’album, è una delle più belle canzoni mai scritte, con 𝐑𝐢𝐜𝐡𝐚𝐫𝐝 𝐒𝐢𝐧𝐜𝐥𝐚𝐢𝐫 al basso e Wyatt ovviamente alla voce, tastiere e parte ritmica. Una canzone in terza persona, tre strofe scritte a se stesso: “𝑆𝑒𝑖 𝑑𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑜 𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑣𝑜𝑙𝑡𝑎”, una metamorfosi, una rinascita dalla spuma del mare; un inno all’alcolismo che gli ha consentito di essere ciò che è: “𝑆𝑒𝑖 𝑚𝑎𝑔𝑛𝑖𝑓𝑖𝑐𝑜 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑠𝑒𝑖 𝑢𝑏𝑟𝑖𝑎𝑐𝑜”, dipendenza che gli ha dato la forza di esibirsi in pubblico e di comporre, ma che nello stesso tempo lo ha reso paraplegico. Tre strofe separate da un sempre informale, atonale assolo di pianoforte. Al termine della terza strofa una sorta di disperazione rassegnata scaturisce da vocalizzi che sfumano perdendosi tra le onde di quel mare che il titolo richiama. 

Mare che ritorna nella successiva 𝐀 𝐋𝐚𝐬𝐭 𝐒𝐭𝐫𝐚𝐰 evocato da alghe e da un “Fondale roccioso” la musica liquida, fluida, i vocalizzi di Wyatt che accompagnano come una navigazione su un mare divenuto calmo, “Nell’acqua proseguiremo a testa alta”, rimarco ancora l’elemento acquoreo che riporta ad uno stadio fetale e che sembra prefigurare una rinascita, un risvegliarsi a nuova vita: A last straw, “un’ultima goccia”, appunto un estremo appiglio. Il fluttuare marino sembra proseguire sulle note squillanti della tromba di 𝐌𝐨𝐧𝐠𝐞𝐳𝐢 𝐅𝐞𝐳𝐚 in 𝐋𝐢𝐭𝐭𝐥𝐞 𝐑𝐞𝐝 𝐑𝐢𝐝𝐢𝐧𝐠 𝐇𝐨𝐨𝐝 𝐇𝐢𝐭 𝐭𝐡𝐞 𝐑𝐨𝐚𝐝,, titolo che pare un nagramma, uno scioglilingua, e tale è il brano perché speculare, registrato per metà in reverse, su nastro lo si può ascoltare nei due sensi. Una richiesta di perdono che naviga su onde che fanno oscillare lo scafo.

𝐋𝐢𝐭𝐭𝐥𝐞 𝐑𝐞𝐝 𝐑𝐨𝐛𝐢𝐧 𝐇𝐨𝐨𝐝 𝐇𝐢𝐭 𝐭𝐡𝐞 𝐑𝐨𝐚𝐝, (non è lo stesso titolo riding viene sostituito da Robin), il “𝑃𝑖𝑐𝑐𝑜𝑙𝑜 𝑅𝑜𝑠𝑠𝑜 𝑅𝑜𝑏𝑖𝑛 𝐻𝑜𝑜𝑑 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑖 𝑚𝑒𝑡𝑡𝑒 𝑖𝑛 𝑣𝑖𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜” è una sorta di ironica, in questo caso, allusione a se stesso: la militanza comunista di Wyatt è parte della sua biografia e senza dubbio il Rosso Robin Hood è l’artista stesso. “𝑁𝑒𝑙 𝑔𝑖𝑎𝑟𝑑𝑖𝑛𝑜 𝑖𝑛𝑔𝑙𝑒𝑠𝑒/𝑇𝑎𝑙𝑝𝑒 𝑚𝑜𝑟𝑡𝑒 𝑔𝑖𝑎𝑐𝑐𝑖𝑜𝑛𝑜 𝑛𝑒𝑖 𝑙𝑜𝑟𝑜 𝑏𝑢𝑐ℎ𝑖”, è l’inizio del cantato con un accompagnamento solenne come se ci si incamminasse dietro ad un feretro. Con le 𝑇𝑎𝑙𝑝𝑒 𝑚𝑜𝑟𝑡𝑒" si allude certamente alla fine definitiva dei 𝐌𝐚𝐭𝐜𝐡𝐢𝐧𝐠 𝐌𝐨𝐥𝐞 (mole è la talpa) band fondata da Wyatt dopo la fuoriuscita dai Soft Machine e la cui avventura ha termine con il suo incidente. “𝑁𝑜𝑛 𝑙𝑒 𝑠𝑒𝑛𝑡𝑖?” canta fino alla fine del brano, inframmezzato da un intervento di chitarra di 𝐌𝐢𝐤𝐞 𝐎𝐥𝐝𝐟𝐢𝐞𝐥𝐝 (ora sì, è lui) che sfuma per lasciare spazio ad una recitazione del poeta, cantautore, scrittore per l’infanzia, 𝐈𝐯𝐨𝐫 𝐂𝐮𝐭𝐥𝐞𝐫: accompagnato da una sorta di organetto recita una poesia non-sense con un accento spiccatamente scandito dalle erre arrotondate e conclude il disco con una risata sarcastica, simile ad un singhiozzo, che forse vorrebbe seppellire o salvare il mondo.

La copertina dell’album riproduce un disegno a matita della moglie Alfreda Benge: un disegno dal tratto delicato, infantile, surreale, strani fiori in primo piano un mare e al centro una bambina di spalle semi immersa con dei palloncini, una nave sullo sfondo e gabbiani; un’isola con una bambina che salta, un mondo dei balocchi: acqua, infanzia e leggerezza. 
Art-rock, Avanguardia, Progressive, Fusion, Rock sperimentale…e chi vuole inventi delle etichette che noi preferiamo non aggiungere. Il termine Rock che titola questa rubrica è indicativo e in effetti ci sta un poco stretto, perché in sostanza è la libertà espressiva quella che andiamo cercando di musicisti anche di non immediata assimilazione ma creativi e coraggiosi. 
Wyatt è uno di loro, dobbiamo solo trovare le parole per raccontarlo. 

articolo e foto di 2021 © Roberto Gaudenzi - 30 aprile 2021

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𝐇𝐀𝐑𝐕𝐄𝐒𝐓

𝐍𝐞𝐢𝐥 𝐘𝐨𝐮𝐧𝐠 (𝟏𝟗𝟕𝟐)


𝑆𝑒𝑒 𝑡ℎ𝑒 𝑙𝑜𝑛𝑒𝑙𝑦 𝑏𝑜𝑦, 𝑜𝑢𝑡 𝑜𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑤𝑒𝑒𝑘𝑒𝑛𝑑 
𝑇𝑟𝑦𝑖𝑛𝑔 𝑡𝑜 𝑚𝑎𝑘𝑒 𝑖𝑡 𝑝𝑎𝑦 
𝐶𝑎𝑛'𝑡 𝑟𝑒𝑙𝑎𝑡𝑒 𝑡𝑜 𝑗𝑜𝑦, ℎ𝑒 𝑡𝑟𝑖𝑒𝑠 𝑡𝑜 𝑠𝑝𝑒𝑎𝑘 𝑎𝑛𝑑 
𝐶𝑎𝑛'𝑡 𝑏𝑒𝑔𝑖𝑛 𝑡𝑜 𝑠𝑎𝑦 
(𝑂𝑢𝑡 𝑜𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑊𝑒𝑒𝑘𝑒𝑛𝑑)

𝐍𝐞𝐢𝐥 𝐘𝐨𝐮𝐧𝐠 e l’album sussurrato, il “raccolto” dopo il quale la terra viene resa più fertile ma con il timore che le successive semine non diano più gli stessi frutti. Ci sono dischi che terminato l’ascolto ci si domanda: e dopo?
Perché temiamo che dopo non sia più possibile replicare la stessa felice combinazione di umori. 
È il dramma dei capolavori in ogni campo: lasciano un’incertezza, una specie di timore, un’ansia per ciò che seguirà. Da una vetta si può solo discendere, amenoché la cima non sia tanto larga da consentire di camminarci sopra senza dovere obbligatoriamente venire giù; ma così si rischia a lungo andare di percorrere sentieri già calpestati, di ripetere lo stesso giro.

Se le copertine sono lo specchio degli album, quella di Harvest ne dipinge il contenuto: un marrone chiaro che sa di sabbia, di deserto, ed il titolo con il nome dell’artista in un elegante stampatello svolazzante, al centro un cerchio arancione come un sole stilizzato: un tramonto nel deserto sintetizzato in due tonalità e una grafica essenziale. 
Il retro sembra parlare un linguaggio diverso, con Young riflesso nel pomo della maniglia di una porta, come in attesa che qualcuno venga ad aprire, “𝑡ℎ𝑒 𝑙𝑜𝑛𝑒𝑙𝑦 𝑏𝑜𝑦, 𝑜𝑢𝑡 𝑜𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑤𝑒𝑒𝑘 𝑒𝑛𝑑” a cui è precluso l’ingresso rassicurante di una casa, “𝑡ℎ𝑒 𝑙𝑜𝑛𝑒𝑟” “𝑠𝑒𝑎𝑟𝑐ℎ𝑖𝑛𝑔 𝑓𝑜𝑟 𝑎 ℎ𝑒𝑎𝑟𝑡 𝑜𝑓 𝑔𝑜𝑙𝑑.” 

Neil Young, classe 1945, con questo suo quarto album fa il botto. Melodie delicate, una chitarra, un’armonica a bocca e una ritmica soffuse come un volo di piuma. Un umore “elegiaco”, solitudini di “fine settimana”, ma anche la presenza della 𝐿𝑜𝑛𝑑𝑜𝑛 𝑆𝑦𝑚𝑝ℎ𝑜𝑛𝑦 𝑂𝑟𝑐ℎ𝑒𝑠𝑡𝑟𝑎 in due brani dal magniloquente impatto; il rock acido e tagliente di 𝐀𝐥𝐚𝐛𝐚𝐦𝐚 e di 𝐖𝐨𝐫𝐝𝐬 𝐞 𝐀𝐫𝐞 𝐲𝐨𝐮 𝐫𝐞𝐚𝐝𝐲 𝐟𝐨𝐫 𝐭𝐡𝐞 𝐜𝐨𝐮𝐧𝐭𝐫𝐲 ironico all’apparenza e scanzonato. Registri qui e là disseminati ma sempre intrisi dell’umore del Nostro con la sua voce nasale e in falsetto che non urla ma canta in tono malinconico e suadente.

Le canzoni toccano nel profondo: orecchiabili e mai banali, con quella costruzione semplice e scarna che impegna l’orecchio senza appesantire l’ascolto, che sanno cullare e che trasmettono sincerità. E si perdonano le effusioni sinfoniche che sembrano spezzare l’incanto, anzi a lungo andare si apprezzano perché spingono l’ascolto in una dimensione più complessa che arricchisce una musica popolare e conservatrice come il country di humus colto e quasi aulico, la spingono in territori che ne amplificano il messaggio. 

E’ il ragazzo solo che “𝑛𝑜𝑛 𝑝𝑢𝑜̀ 𝑔𝑖𝑜𝑖𝑟𝑒”, cerca di “𝑝𝑎𝑟𝑙𝑎𝑟𝑒 𝑚𝑎 𝑛𝑜𝑛 𝑟𝑖𝑒𝑠𝑐𝑒 𝑎 𝑑𝑖𝑟𝑒 𝑛𝑢𝑙𝑙𝑎”: c’è una incomunicabilità di fondo che riecheggia nella ritmica scandita e lenta di Out on the weekend, nelle glissature della slide, in note singole che punteggiano come accenni verbali, lamenti isolati. “𝐹𝑎𝑟𝑜̀ 𝑙𝑒 𝑣𝑎𝑙𝑖𝑔𝑖𝑒 𝑒 𝑎𝑛𝑑𝑟𝑜̀ 𝑔𝑖𝑢̀ 𝑎 𝐿𝑜𝑠 𝐴𝑛𝑔𝑒𝑙𝑒𝑠, 𝑡𝑟𝑜𝑣𝑒𝑟𝑜̀ 𝑢𝑛 𝑝𝑜𝑠𝑡𝑜 𝑑𝑜𝑣𝑒 𝑠𝑡𝑎𝑏𝑖𝑙𝑖𝑟𝑚𝑖”. Farò le valigie e andrò giù a Los Angeles, troverò un posto dove stabilirmi”. Sulle ceneri di un amore finito il ragazzo solitario parte. Il fine settimana, lo spazio che ci si concede liberi dagli impegni, diventa metafora di una libertà più ampia.

“𝑉𝑖𝑣𝑖 𝑖𝑛 𝑢𝑛 𝑚𝑜𝑛𝑑𝑜 𝑖𝑛 𝑐𝑢𝑖 𝑛𝑒𝑠𝑠𝑢𝑛𝑜 𝑔𝑖𝑜𝑐𝑎 𝑖𝑙 𝑡𝑢𝑜 𝑟𝑢𝑜𝑙𝑜”recita 𝐓𝐡𝐞𝐫𝐞’𝐬 𝐚 𝐰𝐨𝐫𝐝. 
Il caso vuole che tu viva ciò che ti è dato. Annunciato dai timpani il brano prende corpo su tre note orchestrali, una canzone che nell’atmosfera sinfonica sembra raggruppare il senso dell’intero disco. Quei “𝐺𝑜𝑑’𝑠 𝑐ℎ𝑖𝑙𝑑𝑟𝑒𝑛”, che riecheggia il “𝐶ℎ𝑖𝑙𝑑 𝑜𝑓 𝐺𝑜𝑑” del 𝐖𝐨𝐨𝐝𝐬𝐭𝐨𝐜𝐤 di 𝐉𝐨𝐧𝐢 𝐌𝐢𝐭𝐜𝐡𝐞𝐥𝐥, “𝑠𝑜𝑓𝑓𝑖𝑎𝑛𝑜 𝑓𝑜𝑟𝑡𝑒 𝑛𝑒𝑙 𝑣𝑒𝑛𝑡𝑜”. qui forse torniamo ai prati di Woodstock, appunto, dove il vento soffiava forte. L’intervento di un’arpa apre le porte di un sogno e porta all’inciso del brano: “…𝑝𝑜𝑡𝑟𝑒𝑏𝑏𝑒𝑟𝑜 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑐𝑖 𝑏𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑠𝑒 𝑛𝑒𝑙𝑙’𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑝𝑒𝑟 𝑡𝑒…”.

Dall’umore pomposo e sinfonico 𝐀𝐥𝐚𝐛𝐚𝐦𝐚 ci porta a una musica tagliente e acida, il country introspettivo si irrigidisce in lame di note che incidono nella carne viva: “𝐴𝑙𝑎𝑏𝑎𝑚𝑎, 𝑣𝑒𝑛𝑔𝑜 𝑞𝑢𝑖 𝑒 𝑡𝑟𝑜𝑣𝑜 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑎 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑟𝑜𝑣𝑖𝑛𝑎…/𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑐’𝑒̀ 𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑣𝑎?”. Una situazione sociale problematica è l’eco di uno stato psicologico incerto e disordinato.

Ma “𝐿’𝑎𝑔𝑜 𝑒 𝑖𝑙 𝑑𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑖𝑢𝑡𝑜” non sono la soluzione perché “𝐼𝑛 𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑑𝑟𝑜𝑔𝑎𝑡𝑜 𝑐’𝑒̀ 𝑢𝑛 𝑠𝑜𝑙𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑡𝑟𝑎𝑚𝑜𝑛𝑡𝑎”. In 𝐓𝐡𝐞 𝐍𝐞𝐞𝐝𝐥𝐞 𝐚𝐧𝐝 𝐭𝐡𝐞 𝐃𝐚𝐦𝐚𝐠𝐞 𝐃𝐨𝐧𝐞 nel più puro e scarno modo cantautoriale, ci suggerisce Young dal vivo al Royce Hall nell’UCLA, l’università della California.

Ogni sforzo deve tendere a raggiungere quella 𝐇𝐞𝐚𝐫𝐭 𝐨𝐟 𝐆𝐨𝐥𝐝, la “vena d’oro” dove la ricerca si fa profonda, il Neil Young minatore che scava e invecchia scavando. 𝐎𝐥𝐝 𝐌𝐚𝐧, “𝑉𝑒𝑐𝑐ℎ𝑖𝑜, 𝑔𝑢𝑎𝑟𝑑𝑎 𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑣𝑖𝑡𝑎, 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑚𝑜𝑙𝑡𝑜 𝑠𝑖𝑚𝑖𝑙𝑒 𝑎 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑒𝑟𝑖 𝑡𝑢” È un equilibrio tra speranza e abbandono, tra prese di posizione e disillusioni: “𝑙𝑎𝑠𝑐𝑖𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑡𝑖 𝑟𝑖𝑒𝑚𝑝𝑖𝑎 𝑖𝑙 𝑐𝑎𝑙𝑖𝑐𝑒 𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑜𝑚𝑒𝑠𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑢𝑜𝑚𝑜”, dice 𝐇𝐚𝐫𝐯𝐞𝐬𝐭. 

Disilluso nell’amore Young si innamora di un’attrice guardando un suo film, 𝐀 𝐌𝐚𝐧 𝐍𝐞𝐞𝐝𝐬 𝐚 𝐌𝐚𝐢𝐝, “𝑢𝑛 𝑢𝑜𝑚𝑜 ℎ𝑎 𝑏𝑖𝑠𝑜𝑔𝑛𝑜 𝑑𝑖 𝑢𝑛𝑎 𝑐𝑎𝑚𝑒𝑟𝑖𝑒𝑟𝑎”: giocando sull’ambiguità del termine “Maid” i piatti della bilancia sembrano pendere tra amore romantico e amore mercenario. 

Come la libertà di scegliere o di non scegliere. 𝐀𝐫𝐞 𝐘𝐨𝐮 𝐑𝐞𝐚𝐝𝐲 𝐟𝐨𝐫 𝐭𝐡𝐞 𝐂𝐨𝐮𝐧𝐭𝐫𝐲? 𝑆𝑒𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑛𝑡𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑖𝑙 𝑃𝑎𝑒𝑠𝑒? Andare a destra o a sinistra, non ha importanza, devi però narrare la tua storia perché è tempo di andare. 

𝐖𝐨𝐫𝐝𝐬 che chiude l’album in maniera incisiva, elettrica, mostra l’uomo immobile che osserva il lavoro nei campi, che oppone al rigattiere, al lava vetri se stesso immobile che scrive parole tra le rughe del tempo. La figura sfocata riflessa dalla maniglia della porta rimane lì sulla soglia, al limitare di un’incertezza.


articolo e foto di 2021 © Roberto Gaudenzi - 23 aprile 2021

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𝐋𝐀 𝐕𝐎𝐂𝐄 𝐃𝐄𝐋 𝐏𝐀𝐃𝐑𝐎𝐍𝐄

𝐅𝐫𝐚𝐧𝐜𝐨 𝐁𝐚𝐭𝐭𝐢𝐚𝐭𝐨 (𝟏𝟗𝟖𝟏)


𝐶𝑒𝑟𝑐𝑜 𝑢𝑛 𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑔𝑟𝑎𝑣𝑖𝑡𝑎̀ 𝑝𝑒𝑟𝑚𝑎𝑛𝑒𝑛𝑡𝑒 
𝐶ℎ𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑚𝑖 𝑓𝑎𝑐𝑐𝑖𝑎 𝑚𝑎𝑖 𝑐𝑎𝑚𝑏𝑖𝑎𝑟𝑒 𝑖𝑑𝑒𝑎 𝑠𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑠𝑒 𝑠𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑔𝑒𝑛𝑡𝑒 
𝑂𝑣𝑒𝑟 𝑎𝑛𝑑 𝑜𝑣𝑒𝑟 𝑎𝑔𝑎𝑖𝑛 
(𝐶𝑒𝑛𝑡𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝐺𝑟𝑎𝑣𝑖𝑡𝑎̀ 𝑃𝑒𝑟𝑚𝑎𝑛𝑒𝑛𝑡𝑒)

Noi un po’ alternativi negli ascolti, che ci intrigavano suoni, armonie strane, melodie sgangherate, che volevamo distinguerci dalla “massa” che si beava di melodie emesi,” che cercavamo il “non-commerciale”: noi di fronte a 𝐋𝐚 𝐕𝐨𝐜𝐞 𝐝𝐞𝐥 𝐏𝐚𝐝𝐫𝐨𝐧𝐞, ammutolimmo. 
Noi che 𝐅𝐫𝐚𝐧𝐜𝐨 𝐁𝐚𝐭𝐭𝐢𝐚𝐭𝐨 era la sperimentazione italiana per eccellenza, l’elettronica con un occhio a 𝑆𝑡𝑜𝑐𝑘ℎ𝑎𝑢𝑠𝑒𝑛 anziché al pop più commerciale. 

Noi con La Voce del Padrone rivedemmo un po’ i nostri criteri. 

Battiato se ne sta seduto in copertina come un vacanziero, Battiato se ne è andato in ferie, si è lasciato andare a suoni leggeri, Battiato ci ha tradito! 

Noi ascoltavamo guardando stupefatti gli altoparlanti come se nella musica che ne usciva ci fosse qualcosa di visibile. Noi come il cane del logo della storica casa discografica da cui l’album prende il nome che guarda nella tromba di un grammofono come a dire: “ma da dove viene tutto ciò?” Ma poi non ricordo con precisione: un amico aveva la cassetta, o forse la radio, non importa era 𝐂𝐮𝐜𝐜𝐮𝐫𝐮𝐜𝐮𝐜𝐮̀,, un’onomatopea, il verso di una paloma, una colomba, iniziava con quel coretto con voci da soprano poi un ritmo serrato e la voce di Battiato. Una canzone struggente come Cuccurucucù diventa una macchina lanciata a tutta velocità. E poi quelle citazioni di canzoni: ci sono i Beatles, i Rolling Stones e c’è Bob Dylan, Mina. 
Una storia d’amore viene qui stravolta accostando ricordi adolescenziali a fatti di storia recente (i profughi afghani che si spostano nell’Iran durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan protrattasi dal 1979 per 10 anni)… 

𝐒𝐮𝐦𝐦𝐞𝐫 𝐨𝐧 𝐚 𝐒𝐨𝐥𝐢𝐭𝐚𝐫𝐲 𝐁𝐞𝐚𝐜𝐡 con quel tema che ci entra nelle orecchie e non se ne vuole andare. Ma qui c’è più profumo di estate e di mare di mille tormentoni estivi! Allora aspetta un po’, rimettiamo dall’inizio, “𝑅𝑖𝑚𝑒𝑡𝑡𝑖𝑎𝑚𝑜𝑐𝑖 𝑙𝑎 𝑚𝑎𝑔𝑙𝑖𝑎, 𝑖 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑖 𝑠𝑡𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑐𝑎𝑚𝑏𝑖𝑎𝑟𝑒”. 

𝐁𝐚𝐧𝐝𝐢𝐞𝐫𝐚 𝐁𝐢𝐚𝐧𝐜𝐚 che inizia al volo con una citazione di 𝐷𝑦𝑙𝑎𝑛: “𝑀𝑖𝑠𝑡𝑒𝑟 𝑇𝑎𝑚𝑏𝑢𝑟𝑖𝑛𝑜 𝑛𝑜𝑛 ℎ𝑜 𝑣𝑜𝑔𝑙𝑖𝑎 𝑑𝑖 𝑠𝑐ℎ𝑒𝑟𝑧𝑎𝑟𝑒…” Bandiera Bianca è un segno di resa e qui Battiato tira in ballo 𝐴𝑟𝑛𝑎𝑙𝑑𝑜 𝐹𝑢𝑠𝑖𝑛𝑎𝑡𝑜, poeta che scrisse “𝐿𝑒 𝑢𝑙𝑡𝑖𝑚𝑒 𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑉𝑒𝑛𝑒𝑧𝑖𝑎” una poesia che narra della resa di Venezia agli austriaci nel 1849 e dove nella chiusa di tre strofe si trovano i versi cantati da Battiato. La resa è verso una società di “𝑝𝑟𝑜𝑓𝑢𝑚𝑖 𝑒 𝑑𝑒𝑜𝑑𝑜𝑟𝑎𝑛𝑡𝑖”, di “𝑠𝑡𝑢𝑝𝑖𝑑𝑒 𝑔𝑎𝑙𝑙𝑖𝑛𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑖 𝑎𝑧𝑧𝑢𝑓𝑓𝑎𝑛𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑛𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒”, una resa che nasconde dietro il sarcasmo una vena di pessimismo che non risparmia nessun aspetto della società, che travolge persino mostri sacri della musica: 𝐵𝑒𝑒𝑡ℎ𝑜𝑣𝑒𝑛, 𝑉𝑖𝑣𝑎𝑙𝑑𝑖, 𝑆𝑖𝑛𝑎𝑡𝑟𝑎. Un testo del 1951 del filosofo tedesco 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑑𝑜𝑟 𝐴𝑑𝑜𝑟𝑛𝑜: 𝑀𝑖𝑛𝑖𝑚𝑎 𝑀𝑜𝑟𝑎𝑙𝑖𝑎 - 𝑀𝑒𝑑𝑖𝑡𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑣𝑖𝑡𝑎 𝑜𝑓𝑓𝑒𝑠𝑎, in coda al brano diventa 𝑀𝑖𝑛𝑖𝑚𝑎 𝐼𝑚𝑚𝑜𝑟𝑎𝑙𝑖𝑎 e si intreccia in un sovrapporsi di voci a 𝑎 𝑇ℎ𝑒 𝐸𝑛𝑑 𝑑𝑒𝑖 𝐷𝑜𝑜𝑟𝑠. 

Allora, no, fermi! Battiato non ci ha tradito! Vestite di semplicità musicale, di ritmi accentati, melodie che sanno conquistare palati sonori di ogni orientamento, ci sono rimandi e riferimenti che nella apparente mancanza di senso in realtà scavano a fondo e restituiscono nello stesso tempo la confusione e il disorientamento dei tempi, ed è un album che non risente dei suoi 40 anni. 
Lui che ha attraversato il decennio ‘70 tra dischi sperimentali, suoni extra musicali, voli arabescati come 𝐆𝐥𝐢 𝐔𝐜𝐜𝐞𝐥𝐥𝐢 che “𝑐𝑎𝑚𝑏𝑖𝑎𝑛𝑜 𝑙𝑒 𝑝𝑟𝑜𝑠𝑝𝑒𝑡𝑡𝑖𝑣𝑒 𝑎𝑙 𝑚𝑜𝑛𝑑𝑜” nei loro “𝑣𝑜𝑙𝑖 𝑖𝑚𝑝𝑟𝑒𝑣𝑒𝑑𝑖𝑏𝑖𝑙𝑖 𝑒𝑑 𝑎𝑠𝑐𝑒𝑠𝑒 𝑣𝑒𝑙𝑜𝑐𝑖𝑠𝑠𝑖𝑚𝑒,” orchestrati nel loro fluttuare libero. Una melodia ampia richiama immediatamente la leggerezza del volo dopo l’incalzare ironico-sarcastico dei brani precedenti. 
Disegnando voli nel cielo Battiato ci comunica una filosofia leggera che compendia tutto il disco: basta con ricerche astruse e al limite della commerciabilità, tutto quanto fatto in precedenza viene qui frullato, mixato nella mente del nostro e si trasforma in melodie che coniugano leggerezza e intensità. Battiato seduto in copertina guarda un orizzonte a noi ignoto, ce lo indica nella sua posa rilassata e indifferente, prova che a lui è riuscito a “𝑟𝑒𝑠𝑡𝑎𝑟𝑒 𝑐𝑎𝑙𝑚𝑜 𝑒 𝑖𝑛𝑑𝑖𝑓𝑓𝑒𝑟𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑚𝑒𝑛𝑡𝑟𝑒 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑖𝑛𝑡𝑜𝑟𝑛𝑜 𝑓𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑟𝑢𝑚𝑜𝑟𝑒”. 

Ha trovato il suo 𝐂𝐞𝐧𝐭𝐫𝐨 𝐝𝐢 𝐆𝐫𝐚𝐯𝐢𝐭𝐚̀ 𝐏𝐞𝐫𝐦𝐚𝐧𝐞𝐧𝐭𝐞 dalla frequentazione letteraria del mistico armeno 𝐺𝑒𝑜𝑟𝑔𝑒𝑠 𝐺𝑢𝑟𝑑𝑗𝑖𝑒𝑓 (anche Robert Fripp ha tratto spunto dallo stesso autore). Con 𝐒𝐞𝐧𝐭𝐢𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐍𝐮𝐞𝐯𝐨 ha riportato l’amore fisico al suo spirito Pre-Alessandrino, frase la cui interpretazione più attendibile è di chi ha attribuito al termine “alessandrino” la forma metrica per la poesia medievale di scuola francese che idealizzava la donna, quindi Battiato riporta qui il sesso ad uno stato più fisico e libero di gusto ellenistico. 

Profondità vestita di semplicità, spiagge metafisiche, 𝐒𝐞𝐠𝐧𝐚𝐥𝐢 𝐝𝐢 𝐕𝐢𝐭𝐚 che forse riassume la filosofia che sta alla base della scelta stilistica: “𝐼𝑙 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜 𝑐𝑎𝑚𝑏𝑖𝑎 𝑚𝑜𝑙𝑡𝑒 𝑐𝑜𝑠𝑒 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑣𝑖𝑡𝑎…/𝑐ℎ𝑒 𝑣𝑜𝑔𝑙𝑖𝑎 𝑑𝑖 𝑐𝑎𝑚𝑏𝑖𝑎𝑟𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑐’𝑒̀ 𝑖𝑛 𝑚𝑒”. E poco oltre: “𝑆𝑖 𝑠𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑖𝑙 𝑏𝑖𝑠𝑜𝑔𝑛𝑜 𝑑𝑖 𝑢𝑛𝑎 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑎 𝑒𝑣𝑜𝑙𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒/𝑆𝑔𝑎𝑛𝑐𝑖𝑎𝑡𝑖 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑒 𝑟𝑒𝑔𝑜𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑢𝑛𝑖.” Paradossalmente Battiato sembra qui riagganciarsi alle “regole comuni”, ovviamente a modo suo, ovviamente facendoci capire che si può essere orecchiabili senza mancare di significato. 


articolo e foto di 2021 © Roberto Gaudenzi - 16 aprile 2021

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𝐔𝐍𝐊𝐍𝐎𝐖𝐍 𝐏𝐋𝐄𝐀𝐔𝐒𝐔𝐑𝐄

𝐉𝐨𝐲 𝐃𝐢𝐯𝐢𝐬𝐢𝐨𝐧 (𝟏𝟗𝟕𝟗)


𝐴 𝑐ℎ𝑎𝑛𝑔𝑒 𝑜𝑓 𝑠𝑝𝑒𝑒𝑑, 𝑎 𝑐ℎ𝑎𝑛𝑔𝑒 𝑜𝑓 𝑠𝑡𝑦𝑙𝑒 
𝐴 𝑐ℎ𝑎𝑛𝑔𝑒 𝑜𝑓 𝑠𝑐𝑒𝑛𝑒, 𝑤𝑖𝑡ℎ 𝑛𝑜 𝑟𝑒𝑔𝑟𝑒𝑡𝑠 
𝐴 𝑐ℎ𝑎𝑛𝑐𝑒 𝑡𝑜 𝑤𝑎𝑡𝑐ℎ, 𝑎𝑑𝑚𝑖𝑟𝑒 𝑡ℎ𝑒 𝑑𝑖𝑠𝑡𝑎𝑛𝑐𝑒 
𝑆𝑡𝑖𝑙𝑙 𝑜𝑐𝑐𝑢𝑝𝑖𝑒𝑑, 𝑡ℎ𝑜𝑢𝑔ℎ 𝑦𝑜𝑢 𝑓𝑜𝑟𝑔𝑒𝑡 
𝐷𝑖𝑓𝑓𝑒𝑟𝑒𝑛𝑡 𝑐𝑜𝑙𝑜𝑟𝑠, 𝑑𝑖𝑓𝑓𝑒𝑟𝑒𝑛𝑡 𝑠ℎ𝑎𝑑𝑒𝑠 
𝑂𝑣𝑒𝑟 𝑒𝑎𝑐ℎ 𝑚𝑖𝑠𝑡𝑎𝑘𝑒𝑠 𝑤𝑒𝑟𝑒 𝑚𝑎𝑑𝑒
 𝐼 𝑡𝑜𝑜𝑘 𝑡ℎ𝑒 𝑏𝑙𝑎𝑚𝑒 
𝐷𝑖𝑟𝑒𝑐𝑡𝑖𝑜𝑛𝑙𝑒𝑠𝑠 𝑠𝑜 𝑝𝑙𝑎𝑖𝑛 𝑡𝑜 𝑠𝑒𝑒 
𝐴 𝑙𝑜𝑎𝑑𝑒𝑑 𝑔𝑢𝑛 𝑤𝑜𝑛'𝑡 𝑠𝑒𝑡 𝑦𝑜𝑢 𝑓𝑟𝑒𝑒 
𝑆𝑜 𝑦𝑜𝑢 𝑠𝑎𝑦 
𝑊𝑒'𝑙𝑙 𝑠ℎ𝑎𝑟𝑒 𝑎 𝑑𝑟𝑖𝑛𝑘 𝑎𝑛𝑑 𝑠𝑡𝑒𝑝 𝑜𝑢𝑡𝑠𝑖𝑑𝑒 
𝐴𝑛 𝑎𝑛𝑔𝑟𝑦 𝑣𝑜𝑖𝑐𝑒 𝑎𝑛𝑑 𝑜𝑛𝑒 𝑤ℎ𝑜 𝑐𝑟𝑖𝑒𝑑 
'𝑊𝑒'𝑙𝑙 𝑔𝑖𝑣𝑒 𝑦𝑜𝑢 𝑒𝑣𝑒𝑟𝑦𝑡ℎ𝑖𝑛𝑔 𝑎𝑛𝑑 𝑚𝑜𝑟𝑒 
𝑇ℎ𝑒 𝑠𝑡𝑟𝑎𝑖𝑛 𝑖𝑠 𝑡𝑜𝑜 𝑚𝑢𝑐ℎ, 𝑐𝑎𝑛'𝑡 𝑡𝑎𝑘𝑒 𝑚𝑢𝑐ℎ 𝑚𝑜𝑟𝑒
 𝑂ℎ, 𝐼'𝑣𝑒 𝑤𝑎𝑙𝑘𝑒𝑑 𝑜𝑛 𝑤𝑎𝑡𝑒𝑟, 𝑟𝑢𝑛 𝑡ℎ𝑟𝑜𝑢𝑔ℎ 𝑓𝑖𝑟𝑒 
𝐶𝑎𝑛'𝑡 𝑠𝑒𝑒𝑚 𝑡𝑜 𝑓𝑒𝑒𝑙 𝑖𝑡 𝑎𝑛𝑦𝑚𝑜𝑟𝑒 
𝐼𝑡 𝑤𝑎𝑠 𝑚𝑒, 𝑤𝑎𝑖𝑡𝑖𝑛𝑔 𝑓𝑜𝑟 𝑚𝑒 
𝐻𝑜𝑝𝑖𝑛𝑔 𝑓𝑜𝑟 𝑠𝑜𝑚𝑒𝑡ℎ𝑖𝑛𝑔 𝑚𝑜𝑟𝑒 
𝑀𝑒, 𝑠𝑒𝑒𝑖𝑛𝑔 𝑚𝑒 𝑡ℎ𝑖𝑠 𝑡𝑖𝑚𝑒 
𝐻𝑜𝑝𝑖𝑛𝑔 𝑓𝑜𝑟 𝑠𝑜𝑚𝑒𝑡ℎ𝑖𝑛𝑔 𝑒𝑙𝑠𝑒 
(𝑁𝑒𝑤 𝐷𝑜𝑤𝑛 𝐹𝑎𝑑𝑒𝑠)

Ci sono gruppi che lasciano il segno, la loro ombra scura li accompagna e li segue, una scia tragica seguendo la quale si giunge ad un limite e poi niente è più come prima. 
Quando li ho ascoltati per la prima volta mi immaginavo che ad emettere quella voce profonda e tragica, baritonale, fosse un cantante cupo, nascosto da una chioma nera, forse barbuto, ciglioso. Invece 𝐈𝐚𝐧 𝐂𝐮𝐫𝐭𝐢𝐬 era un ragazzo alto e magro, un aspetto da studente modello, bravo ragazzo, nulla che potesse attirare l’attenzione se non quel suo agitarsi sul palco come una marionetta rotta, quella mimica scomposta che strideva con il suo stare al microfono con espressione impassibile. 
Ho scoperto i 𝐉𝐨𝐲 𝐃𝐢𝐯𝐢𝐬𝐢𝐨𝐧 quando ormai la loro parabola era terminata, mi correggo, non una parabola, che sottintende una salita e una discesa, ma una scia, un tracciato netto finché il 18 maggio del 1980, a ventitré anni, Ian si impiccò ponendo fine alla breve storia della band. 

I Joy Division inscenano un dramma, direi una tragedia: il loro breve percorso prefigura e conduce verso l’epilogo tragico del loro frontman, anima e ispiratore del senso di catastrofe che si respira nelle loro note buie, scarne, che evocano il senso incombente della fine di qualcosa.
La musica è completamente asservita al testo, nelle esibizioni live non c’è molta accuratezza esecutiva, il senso estetico fine a se stesso non ha luogo, i Joy Division figli del punk disordinato eseguono i loro pezzi consapevoli di propinarci oscuri accordi di morte. 

In tutto questo penso si percepisca la regia di 𝐈𝐚𝐧 𝐂𝐮𝐫𝐭𝐢𝐬, tanto è vero che dopo la sua tragica fine gli altri tre componenti la band che sono: 𝐁𝐞𝐫𝐧𝐚𝐫𝐝 𝐒𝐮𝐦𝐧𝐞𝐫 chitarra e tastiere, 𝐏𝐞𝐭𝐞𝐫 𝐇𝐨𝐨𝐤 al basso e 𝐒𝐭𝐞𝐩𝐡𝐞𝐧 𝐌𝐨𝐫𝐫𝐢𝐬 alla batteria, diventeranno i 𝐍𝐞𝐰 𝐎𝐫𝐝𝐞𝐫 creatori di un eletto pop niente male ma non certo da affiancare alla band con Curtis.

“𝐻𝑜 𝑎𝑠𝑝𝑒𝑡𝑡𝑎𝑡𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑣𝑒𝑛𝑖𝑠𝑠𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑔𝑢𝑖𝑑𝑎 𝑒 𝑚𝑖 𝑝𝑟𝑒𝑛𝑑𝑒𝑠𝑠𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑚𝑎𝑛𝑜/𝑝𝑜𝑡𝑟𝑒𝑏𝑏𝑒𝑟𝑜 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑠𝑒𝑛𝑠𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑓𝑎𝑟𝑚𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑣𝑎𝑟𝑒 𝑖 𝑝𝑖𝑎𝑐𝑒𝑟𝑖 𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑢𝑜𝑚𝑜 𝑛𝑜𝑟𝑚𝑎𝑙𝑒? È 𝐃𝐢𝐬𝐨𝐫𝐝𝐞𝐫 , l’inizio di 𝐔𝐧𝐤𝐧𝐨𝐰𝐧 𝐏𝐥𝐞𝐚𝐬𝐮𝐫𝐞, loro primo album a cui seguirà 𝐂𝐥𝐨𝐬𝐞𝐫 che uscirà a tragedia avvenuta, dove già si intravede il bisogno di essere condotti da qualche parte, non si sa dove. Si deve sapere che Ian Curtis soffriva di epilessia e di questa malattia ne faceva un dramma e già in questo pezzo se ne possono vedere gli esiti poetici: “𝑃𝑜𝑠𝑠𝑖𝑒𝑑𝑜 𝑙’𝑎𝑛𝑖𝑚𝑎, 𝑝𝑒𝑟𝑑𝑜 𝑖𝑙 𝑠𝑒𝑛𝑡𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜...”, la malattia lascia intatta quella facoltà che ci rende umani, che con termine impalpabile viene chiamata anima, ma viene perso il “feeling”, termine che viene reso come sentimento ma che in inglese può assumere sfumature diverse: comunque viene denunciato qui uno stato indotto dalle crisi della malattia, un disordine, appunto, dove tutto si muove più in fretta, sempre più fuori controllo, le macchine si scontrano, le luci lampeggiano, rendendo così con concrete sensazioni visive e uditive, il percepito dell’anima, e la perdita di ordine, sentimento, controllo.

In 𝐒𝐡𝐞’𝐬 𝐋𝐨𝐬𝐭 𝐂𝐨𝐧𝐭𝐫𝐨𝐥 la narrazione affida ad uno sguardo distaccato la condizione di disordine e confusione attribuendola oltretutto ad una figura femminile. Lo smarrimento e l’angoscia della perdita di consapevolezza, il feeling, è ciò che crea la maggiore condizione di disagio, il tutto qui è visto dall’esterno, una necessità di distacco, allontanamento dal male. Sempre con una figura ritmica seguita da un giro di basso, il brano ruota su pochi scarni accordi, temi esili, cupi, ci si chiude in una claustrofobia senza scampo.

E in una stanza ci introduce 𝐃𝐚𝐲 𝐨𝐟 𝐭𝐡𝐞 𝐋𝐨𝐫𝐝𝐬 con un lento arpeggio di chitarra entriamo dove è avvenuto l’inizio di tutto. Troviamo un ambiente spoglio, con lenzuola sui muri, veniamo introdotti in un sudario “𝐷𝑜𝑣𝑒 𝑓𝑖𝑛𝑖𝑟𝑎̀?”. Ci chiede al termine di ogni strofa, più volte. “𝑁𝑜𝑛 𝑐’𝑒̀ 𝑟𝑖𝑓𝑢𝑔𝑖𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑖𝑙 𝑑𝑒𝑏𝑜𝑙𝑒” tra giochi di sangue è come se vivessimo una sorta di sala di tortura dove “𝐻𝑜 𝑣𝑖𝑠𝑡𝑜 𝑛𝑜𝑡𝑡𝑖 𝑝𝑖𝑒𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑔𝑖𝑜𝑐ℎ𝑖 𝑐𝑟𝑢𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑒 𝑑𝑜𝑙𝑜𝑟𝑒”.

𝐂𝐚𝐧𝐝𝐢𝐝𝐚𝐭𝐞 sembra già una resa totale, su un ritmo funereo, la musica dissolta in rumori che provengono da chissà quali abissi. “𝑂𝑝𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑎𝑔𝑙𝑖 𝑎𝑠𝑠𝑖𝑙𝑙𝑖…/𝑛𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑔𝑖𝑜𝑖𝑎./𝑂ℎ, 𝑑𝑎 𝑎𝑙𝑙𝑜𝑟𝑎 𝑛𝑜𝑛 ℎ𝑜 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑐𝑢𝑜𝑟𝑒”. Il “candidato” sembra avviarsi al patibolo che lui stesso ha innalzato condannandosi a finire: “𝑎𝑣𝑎𝑛𝑧𝑎 𝑙𝑒𝑛𝑡𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒/𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙’𝑢𝑙𝑡𝑖𝑚𝑎 𝑜𝑟𝑎 𝑓𝑎𝑡𝑎𝑙𝑒”.

Per chi come me è attratto dal fascino terribile di chi mette fine ai propri giorni, questa avventura dei Joy Division è l’esempio tragico di una condizione di disagio irrimediabile ed uno spiraglio che lascia intravedere una spiegazione per un atto così estremo. 𝐍𝐞𝐰 𝐃𝐚𝐰𝐧 𝐅𝐚𝐝𝐞𝐬 in questo senso sembra un pezzo emblematico, anche se i suggerimenti, le motivazioni del suicidio sembrano disseminate qua e là nei brani, in questo che a mio avviso è il capolavoro del disco, nella presa in carico di responsabilità sembra di vedere un senso di colpa irredimibile. Sempre una linea di basso ci introduce nel dramma. Il tema di chitarra è dolente, tende a scemare, il cambio di tonalità non lo ravviva. Curtis canta quasi sotto tono, come in confidenza la prima strofa. Nella successiva la rabbia monta, il tono si fa duro, disperato, la chitarra conduce scarna finché tutto si spegne sulla batteria lasciata sola a concludere. “𝐶’𝑒̀ 𝑡𝑟𝑜𝑝𝑝𝑎 𝑡𝑒𝑛𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒,/𝑛𝑜𝑛 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑜 𝑠𝑜𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑟𝑒 𝑚𝑜𝑙𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑝𝑖𝑢̀.” Il limite è stato raggiunto, come una corda troppo tesa, al limite della lacerazione. Fin qui è una affermazione generica che può intendere condizioni diverse, ma subito dopo si afferma: “𝐻𝑜 𝑐𝑎𝑚𝑚𝑖𝑛𝑎𝑡𝑜 𝑠𝑢𝑙𝑙’𝑎𝑐𝑞𝑢𝑎/𝑎𝑡𝑡𝑟𝑎𝑣𝑒𝑟𝑠𝑎𝑡𝑜 𝑙𝑒 𝑓𝑖𝑎𝑚𝑚𝑒.” Sembra esserci una dimensione messianica, un sacrificio atteso, “𝑆𝑢 𝑐𝑖𝑎𝑠𝑐𝑢𝑛 𝑒𝑟𝑟𝑜𝑟𝑒 c𝑜𝑚𝑚𝑒𝑠𝑠𝑜/ 𝑚𝑒 𝑛𝑒 𝑎𝑠𝑠𝑢𝑚𝑜 𝑙𝑎 𝑟𝑒𝑠𝑝𝑜𝑛𝑠𝑎𝑏𝑖𝑙𝑖𝑡𝑎̀.” E più avanti: “ 𝐸𝑟𝑜 𝑖𝑜, 𝑎𝑠𝑝𝑒𝑡𝑡𝑎𝑣𝑜 𝑚𝑒 𝑠𝑡𝑒𝑠𝑠𝑜,/ 𝑠𝑝𝑒𝑟𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑖𝑛 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑐ℎ𝑒 𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝑝𝑖𝑢̀.” Un’attesa andata delusa, forse un’ambizione troppo alta. “𝐼𝑜, 𝑐ℎ𝑒 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑣𝑜𝑙𝑡𝑎 𝑣𝑒𝑑𝑜 𝑚𝑒,/𝑠𝑝𝑒𝑟𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑖𝑛 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑐𝑜𝑠’𝑎𝑙𝑡𝑟𝑜.” Un distacco da se stessi, uno sdoppiamento. Se la “nuova alba svanisce” tanto vale dividersi dal proprio io, tentare un’uscita dal proprio essere, distaccarsi anche se l’unico distacco possibile, l’unica via d’uscita da ciò che si è, è la morte.

Un “gioco d’ombre” 𝐒𝐡𝐚𝐝𝐨𝐰𝐩𝐥𝐚𝐲, “𝑛𝑒𝑙 𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑐𝑖𝑡𝑡𝑎̀, 𝑑𝑜𝑣𝑒 𝑠𝑖 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑠𝑒𝑐𝑎𝑛𝑜 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑒 𝑙𝑒 𝑠𝑡𝑟𝑎𝑑𝑒” diventa il crocevia dove si aspetta qualcosa o qualcuno, o probabilmente il sopraggiungere di una nuova crisi che porta confusione e smarrimento. Il basso introduce e fiocamente annuncia gli accordi scarni che prendono corpo in un tema incisivo. Il tempo preciso della batteria sostiene il tutto e accanto alla voce è in parte lo strumento principale.

𝐖𝐢𝐥𝐝𝐞𝐫𝐧𝐞𝐬𝐬 richiama, nella forma a domanda e risposta, “𝐴 𝐻𝑎𝑟𝑑 𝑅𝑎𝑖𝑛 𝑖𝑠 𝐺𝑜𝑛𝑛𝑎 𝐹𝑎𝑙𝑙” di Bob Dylan, un viaggiatore che in questo caso attraversa le epoche per constatare morti e distruzioni. Con un “glissando” il basso, che scivola come uno stupore strumentale, manifesta lo sgomento per quelle “𝐿𝑎𝑐𝑟𝑖𝑚𝑒 𝑛𝑒𝑖 𝑙𝑜𝑟𝑜 𝑜𝑐𝑐ℎ𝑖” che viene reiterato fino alla fine.

Dopo 𝐈𝐧𝐭𝐞𝐫𝐳𝐨𝐧𝐞 che vede una corsa in una città alla ricerca di alcuni amici, costruita su due differenti registri vocali, il pezzo più movimentato e fuori atmosfera col resto dell’album, 𝐈 𝐑𝐞𝐦𝐞𝐦𝐛𝐞𝐫 𝐍𝐨𝐭𝐡𝐢𝐧𝐠 conclude con i suoi sei minuti scarsi in modo cupo e sporco: un battere come di marcia funebre scandisce il tempo tra suoni, vetri rotti, onde sonore dove si consuma una fine nella smemoratezza: un tu ed io che si mettono a confronto, uno sdoppiamento. Il confronto tra un se stesso che non riconosce la seconda parte di sé, uno straniarsi che prelude alla catastrofe imminente.


articolo e foto di 2021 © Roberto Gaudenzi - 9 aprile 2021

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𝐓𝐇𝐄 𝐀𝐆𝐄 𝐎𝐅 𝐂𝐎𝐍𝐒𝐄𝐍𝐓

𝐁𝐫𝐨𝐧𝐬𝐤𝐢 𝐁𝐞𝐚𝐭 - 𝟏𝟗𝟖𝟒


𝐶𝑜𝑛𝑡𝑒𝑚𝑝𝑡 𝑖𝑛 𝑦𝑜𝑢𝑟 𝑒𝑦𝑒𝑠 
𝐴𝑠 𝐼 𝑡𝑢𝑟𝑛 𝑡𝑜 𝑘𝑖𝑠𝑠 ℎ𝑖𝑠 𝑙𝑖𝑝𝑠 
𝐵𝑟𝑜𝑘𝑒𝑛 𝐼 𝑙𝑖𝑒 
𝐴𝑙𝑙 𝑚𝑦 𝑓𝑒𝑒𝑙𝑖𝑛𝑔𝑠 𝑑𝑒𝑛𝑖𝑒𝑑 
𝐵𝑙𝑜𝑜𝑑 𝑜𝑛 𝑦𝑜𝑢𝑟 𝑓𝑖𝑠𝑡 
𝐶𝑎𝑛 𝑦𝑜𝑢 𝑡𝑒𝑙𝑙 𝑚𝑒 𝑤ℎ𝑦? 
𝑌𝑜𝑢 𝑖𝑛 𝑦𝑜𝑢𝑟 𝑓𝑎𝑙𝑠𝑒 𝑠𝑒𝑐𝑢𝑟𝑖𝑡𝑖𝑒𝑠 
𝑇𝑒𝑎𝑟 𝑢𝑝 𝑚𝑦 𝑙𝑖𝑓𝑒 
𝐶𝑜𝑛𝑑𝑒𝑚𝑛𝑖𝑛𝑔 𝑚𝑒 
𝑁𝑎𝑚𝑒 𝑚𝑒 𝑎𝑛 𝑖𝑙𝑙𝑛𝑒𝑠𝑠 
𝐶𝑎𝑙𝑙 𝑚𝑒 𝑎 𝑠𝑖𝑛 
𝑁𝑒𝑣𝑒𝑟 𝑓𝑒𝑒𝑙 𝑔𝑢𝑖𝑙𝑡𝑦 
𝑁𝑒𝑣𝑒𝑟 𝑔𝑖𝑣𝑒 𝑖𝑛 
𝑇𝑒𝑙𝑙 𝑚𝑒 𝑤ℎ𝑦? 
𝑌𝑜𝑢 𝑎𝑛𝑑 𝑚𝑒 𝑡𝑜𝑔𝑒𝑡ℎ𝑒𝑟 
𝐹𝑖𝑔ℎ𝑡𝑖𝑛𝑔 𝑓𝑜𝑟 𝑜𝑢𝑟 𝑙𝑜𝑣𝑒 
𝐶𝑎𝑛 𝑦𝑜𝑢 𝑡𝑒𝑙𝑙 𝑚𝑒 𝑤ℎ𝑦? 
(𝑊ℎ𝑦?)

I 𝐁𝐫𝐨𝐧𝐬𝐤𝐢 𝐁𝐞𝐚𝐭 riportano la nostra memoria sonora alla disco music e inevitabilmente a 𝐒𝐦𝐚𝐥𝐥 𝐓𝐨𝐰𝐧 𝐁𝐨𝐲 e 𝐖𝐡𝐲? entrambi contenuti in questo loro primo e unico album, per lo meno con la stessa formazione a tre che comprendeva: 𝐉𝐢𝐦𝐦𝐲 𝐒𝐨𝐦𝐞𝐫𝐯𝐢𝐥𝐥𝐞 voce, 𝐒𝐭𝐞𝐯𝐞 𝐁𝐫𝐨𝐧𝐬𝐤𝐢 e 𝐋𝐚𝐫𝐫𝐲 𝐒𝐭𝐞𝐢𝐧𝐛𝐚𝐜𝐡𝐞𝐤 tastiere e percussioni, voci. 
Trio nato per le discoteche, con ritmi ballabili nelle orecchie, che omaggia la Dance con 𝐈 𝐅𝐞𝐞𝐥 𝐋𝐨𝐯𝐞, una cover di 𝐃𝐨𝐧𝐧𝐚 𝐒𝐮𝐦𝐦𝐞𝐫, con un’aggiunta dal tono malinconicamente disperato 𝐉𝐨𝐡𝐧𝐧𝐲 𝐑𝐞𝐦𝐞𝐦𝐛𝐞𝐫 𝐌𝐞 una coda con un grido d’amore.

𝐓𝐡𝐞 𝐀𝐠𝐞 𝐨𝐟 𝐂𝐨𝐧𝐬𝐞𝐧𝐭, l’età del consenso, che in Inghilterra corrispondeva ai 21 anni, età oltre la quale i rapporti intimi tra persone dello stesso sesso cessavano di essere considerati un reato.
Età che in molti paesi a tutt’oggi non è ancora arrivata ed è la motivazione civile e se si vuole politica, oltre che musicale, che mi ha spinto a rinverdire questo disco che mette in piazza problematiche prettamente e schiettamente omosessuali. Tra mille canzoni da discoteca con testi insulsi, qui si porta sulle piste da ballo una triste e tragica realtà: la discriminazione. 

Il falsetto selvaggio, aspro, di Somerville mette in mostra il dolore del “𝑟𝑎𝑔𝑎𝑧𝑧𝑜 𝑑𝑖 𝑝𝑎𝑒𝑠𝑒” costretto ad andarsene per poter vivere una vita affettiva a lui idonea che la piccola città del pettegolezzo e del perbenismo non gli consentivano di realizzare. Nel disimpegno e nell’edonismo che il luogo comune affibbia al decennio degli ’80, un argomento tabù veniva illuminato dalle stroboscopiche delle discoteche, dalle luci colorate delle piste fumose. 𝐖𝐡𝐲? gridato a piena voce, è una domanda che riverberava nella postazione del D.J. e che ancora riecheggia a 40 anni di distanza se in paesi come la Polonia parte della popolazione deve manifestare per avere diritto all’autodeterminazione, per non venire incarcerata o maltrattata.

𝐒𝐜𝐫𝐞𝐚𝐦𝐢𝐧𝐠 è compressa, non c’è più neppure la forza se non per un ultimo spasimo, che avverte “𝑠𝑡𝑜 𝑝𝑒𝑟𝑑𝑒𝑛𝑑𝑜 𝑖𝑙 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑜𝑙𝑙𝑜” come una rabbia trattenuta; un elenco di disappunti, tristezze, contraddizioni; un grido di dolore di chi nella diversità che viene discriminata non trova più se stesso. L’album non è ovviamente solo disco music, non si appiattisce sui ritmi facili da riempi pista, sa districarsi nel blues reinterpretandolo, trasformando le battute di questa musica viscerale ed essenziale in uno spasmo erotico sofferto.

Sa essere anche un accorato appello contro la guerra, forse dai toni ingenui ma espliciti: 𝐍𝐨 𝐌𝐨𝐫𝐞 𝐖𝐚𝐫. Dal movimento di liberazione gay, germogliano le speranze che la generazione di poco precedente aveva espresso con altre modalità: l’appello al pacifismo, il carattere corruttivo del denaro, la liberazione dagli stereotipi. Se allora tutto scendeva in piazza, si riversava nelle strade, si manifestava in stili di vita alternativi, ora non si disdegna uno sguardo più ampio.

La musica accetta l’elettronica “danzante”, entra in un certo modo nelle orecchie di chi è distratto, di chi ricerca il ritmo fisso e sicuro che smuove e ipnotizza.

I Bronski Beat sono in sostanza durati lo spazio di un album e di un paio di singoli il tempo necessario per lanciare un messaggio, un mordi e fuggi come una relazione fugace, lo stretto necessario per un rapporto che spenga la 𝐒𝐮𝐦𝐦𝐞𝐫 𝐇𝐞𝐚𝐭 𝐖𝐚𝐯𝐞, la vampata di calore estivo, pescando anche nel musical 𝐏𝐨𝐫𝐠𝐲 & 𝐁𝐞𝐬𝐬 con 𝐀𝐢𝐧’𝐭 𝐍𝐞𝐜𝐞𝐬𝐬𝐚𝐫𝐢𝐥𝐲 𝐒𝐨 di 𝐆𝐞𝐨𝐫𝐠𝐞 𝐆𝐞𝐫𝐬𝐡𝐰𝐢𝐧 e suggerendoci di non credere a ciò che la Bibbia dice.

Trasgressione agganciata ai tempi che si riteneva fossero “disimpegnati”, e forse è così, forse però l’individualismo fa tesoro delle conquiste precedenti e matura ciò che si è rivendicato. Somerville sembra essere la vera anima e forza trainante della band, lo dimostra il fatto che via lui gli altri non hanno saputo o potuto proseguire con la necessaria originalità.


articolo e foto di 2021 © Roberto Gaudenzi - 2 aprile 2021

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4 WAY STREET

𝐂𝐫𝐨𝐬𝐛𝐲, 𝐒𝐭𝐢𝐥𝐥𝐬, 𝐍𝐚𝐬𝐡 & 𝐘𝐨𝐮𝐧𝐠 - 1971


𝐼𝑓 𝑦𝑜𝑢'𝑟𝑒 𝑑𝑜𝑤𝑛 𝑎𝑛𝑑 𝑐𝑜𝑛𝑓𝑢𝑠𝑒𝑑 
𝐴𝑛𝑑 𝑦𝑜𝑢 𝑑𝑜𝑛'𝑡 𝑟𝑒𝑚𝑒𝑚𝑏𝑒𝑟 𝑤ℎ𝑜 𝑦𝑜𝑢'𝑟𝑒 𝑡𝑎𝑙𝑘𝑖𝑛𝑔 𝑡𝑜 
𝐶𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛 𝑠𝑙𝑖𝑝𝑠 𝑎𝑤𝑎𝑦 
𝐵𝑒𝑐𝑎𝑢𝑠𝑒 𝑦𝑜𝑢𝑟 𝑏𝑎𝑏𝑦 𝑖𝑠 𝑠𝑜 𝑓𝑎𝑟 𝑎𝑤𝑎𝑦 
𝑊𝑒𝑙𝑙 𝑡ℎ𝑒𝑟𝑒'𝑠 𝑎 𝑟𝑜𝑠𝑒 𝑖𝑛 𝑎 𝑓𝑖𝑠𝑡𝑒𝑑 𝑔𝑙𝑜𝑣𝑒 
𝐴𝑛𝑑 𝑡ℎ𝑒 𝑒𝑎𝑔𝑙𝑒 𝑓𝑙𝑖𝑒𝑠 𝑤𝑖𝑡ℎ 𝑡ℎ𝑒 𝑑𝑜𝑣𝑒
 𝐴𝑛𝑑 𝑖𝑓 𝑦𝑜𝑢 𝑐𝑎𝑛'𝑡 𝑏𝑒 𝑤𝑖𝑡ℎ 𝑡ℎ𝑒 𝑜𝑛𝑒 𝑦𝑜𝑢 𝑙𝑜𝑣𝑒, ℎ𝑜𝑛𝑒𝑦 
𝐿𝑜𝑣𝑒 𝑡ℎ𝑒 𝑜𝑛𝑒 𝑦𝑜𝑢'𝑟𝑒 𝑤𝑖𝑡ℎ 
(𝐿𝑜𝑣𝑒 𝑡ℎ𝑒 𝑂𝑛𝑒 𝑌𝑜𝑢’𝑟𝑒 𝑊𝑖𝑡ℎ)

Se qualcuno mi chiede quale secondo me è il miglior album dal vivo che ho ascoltato, risponderei senza esitare 𝟒 𝐖𝐚𝐲 𝐒𝐭𝐫𝐞𝐞𝐭. E se mi chiedesse il perché della preferenza, risponderei che è per il clima che immediatamente si percepisce appena si avvia l’ascolto: quella 𝐒𝐮𝐢𝐭𝐞: 𝐉𝐮𝐝𝐲 𝐛𝐥𝐮𝐞 𝐞𝐲𝐞𝐬 di cui è inciso solo il finale, trenta secondi che diffondono l’atmosfera di collaborazione, di gioia di suonare, una vena comunicativa senza diaframmi, diretta, che si coglie anche attraverso l’intermediazione del disco. Il supporto vinile diventa un feticcio, un disco nero solcato di anima da cui si sprigionano note allo stato essenziale, ti viene da immaginare che questi quattro amici siano saliti su un palco perché acclamati da una folla entusiasta, che hanno iniziato a suonare senza prove, d’istinto, per divertimento coinvolgendo anche te come se fossi lì tra gli spettatori. Album doppio, un disco acustico e un disco “elettrico”, anche nella versione CD dove sono stati aggiunti, nella parte acustica, quattro brani in più: tre canzoni e un medley, 23 minuti abbondanti assenti sul vinile.
Una strada con quattro corsie, un’unica direzione percorsa da quattro personalità spiccate, quattro solisti che per magia danno vita a un’alchimia pur restando sé stessi, riconoscibili singolarmente. La magia non durò molto, lo spazio di due dischi, questo e il precedente 𝐃𝐞𝐣𝐚̀ 𝐕𝐮, forse un anno o poco più. 
𝐃𝐚𝐯𝐢𝐝 𝐂𝐫𝐨𝐬𝐛𝐲, 𝐒𝐭𝐞𝐩𝐡𝐞𝐧 𝐒𝐭𝐢𝐥𝐥𝐬, 𝐆𝐫𝐚𝐡𝐚𝐦 𝐍𝐚𝐬𝐡 & 𝐍𝐞𝐢𝐥 𝐘𝐨𝐮𝐧𝐠, le quattro corsie sull’unica strada, mettono insieme in questa raccolta live quattro diversi umori, il clima che chiude una stagione di cambiamento e ne apre una che contrappone la protesta ad oltranza alla chiusura introspettiva.
𝐃𝐚𝐯𝐢𝐝 𝐂𝐫𝐨𝐬𝐛𝐲, 𝐒𝐭𝐞𝐩𝐡𝐞𝐧 𝐒𝐭𝐢𝐥𝐥𝐬, 𝐆𝐫𝐚𝐡𝐚𝐦 𝐍𝐚𝐬𝐡 & 𝐍𝐞𝐢𝐥 𝐘𝐨𝐮𝐧𝐠, le quattro corsie sull’unica strada, mettono insieme in questa raccolta live quattro diversi umori, il clima che chiude una stagione di cambiamento e ne apre una che contrappone la protesta ad oltranza alla chiusura introspettiva.
Così la corsia malinconica che spiega le vele verso isole sconosciute, che naviga come volerebbe un “𝑔𝑎𝑏𝑏𝑖𝑎𝑛𝑜 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑢𝑛 𝑝𝑜𝑠𝑡𝑜 𝑑𝑜𝑣𝑒 𝑛𝑎𝑠𝑐𝑜𝑛𝑑𝑒𝑟𝑠𝑖” il tema della fuga, (si ricordi Wooden Ships) ritorna in 𝐓𝐡𝐞 𝐋𝐞𝐞 𝐒𝐡𝐨𝐫𝐞 su un arpeggio di chitarra che culla come onde marine e una voce che sembra perdersi e rinforzarsi con il soffiare dei venti. Ma forse è tutto un sogno: “𝐼𝑙 𝑡𝑟𝑎𝑚𝑜𝑛𝑡𝑜 𝑝𝑟𝑜𝑓𝑢𝑚𝑎 𝑑𝑖 𝑐𝑒𝑛𝑎/𝑒̀ 𝑜𝑟𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑚𝑒𝑡𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝑛𝑎𝑟𝑟𝑎𝑟𝑒/𝑚𝑎 𝑓𝑜𝑟𝑠𝑒 𝑡𝑖 𝑣𝑒𝑑𝑟𝑜̀ 𝑛𝑒𝑙 𝑝𝑟𝑜𝑠𝑠𝑖𝑚𝑜 𝑝𝑜𝑠𝑡𝑜 𝑡𝑟𝑎𝑛𝑞𝑢𝑖𝑙𝑙𝑜/𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑎𝑚𝑚𝑎𝑖𝑛𝑒𝑟𝑜̀ 𝑙𝑒 𝑣𝑒𝑙𝑒” la fuga, dicevo, si appaia con Crosby alla ribellione verso i rapporti di coppia tradizionali con la presenza di una terza persona. “𝐼𝑙 𝑓𝑎𝑛𝑡𝑎𝑠𝑚𝑎 𝑑𝑖 𝑣𝑜𝑠𝑡𝑟𝑎 𝑚𝑎𝑑𝑟𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑣𝑖 𝑠𝑡𝑎 𝑠𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑠𝑝𝑎𝑙𝑙𝑒”: le istituzioni, i rapporti famigliari vorrebbero essere disgregati per tentare qualcosa di nuovo. Il tutto con un cantato che è quasi una narrazione, con la melodia disciolta tra poche pennate di chitarra. 
Album che riporta il Rock (ma è riduttivo il termine) all’essenziale, alla sua anima acustica, cantautorale, scarna ma densa di significati, priva di orpelli. Infusa di uno spirito americano che richiama grandi spazi. E’ stato 𝐖𝐢𝐦 𝐖𝐞𝐧𝐝𝐞𝐫𝐬, il regista di “𝑃𝑎𝑟𝑖𝑠, 𝑇𝑒𝑥𝑎𝑠” 𝑑𝑖 “𝐹𝑖𝑛𝑜 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑓𝑖𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑚𝑜𝑛𝑑𝑜”, ad affermare in una occasione che “𝐿’𝐴𝑚𝑒𝑟𝑖𝑐𝑎 𝑒̀ 𝑙𝑎 𝑛𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑐ℎ𝑒 ℎ𝑎 𝑐𝑜𝑙𝑜𝑛𝑖𝑧𝑧𝑎𝑡𝑜 𝑖 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑖 𝑠𝑜𝑔𝑛𝑖”, intendendo quanto l’America faccia parte del nostro immaginario collettivo, anche se non vogliamo ammetterlo. Questo disco per chi scrive ha rappresentato un poco questo mito, gli ha idealmente dato corpo. Le registrazioni sono del giugno 1970 al Fillmore East di New York, all’Auditorium di Chicago e al Forum di Los Angeles: toccano le due opposte sponde passando per Chicago nel Midwest. 

Un album plurivocale, quattro voci distinte, quattro discorsi che senza integrarsi, senza fondersi in un quinto soggetto si appoggiano, vivono in un medesimo clima, condividono gusti e tendenze. Anche se le registrazioni appartengono a concerti diversi, l’assemblaggio del doppio album mostra una unità nella diversità. Sembra uno slogan contemporaneo ma si adatta molto bene al quartetto. 

Una band “normale” diventa di solito un elemento altro rispetto ai suoi componenti singoli, per 𝐂.𝐒.𝐍.&𝐘. non è così perché incredibilmente il loro viaggio sulla strada a quattro corsie prosegue con i mezzi affiancati, occasionalmente qualcuno sorpassa, taglia il percorso, ma è perché gli altri si fanno indietro: la corsia intimista e ribelle di Crosby viaggia assieme ai dubbi e crucci esistenziali di Neil Young, armonicamente più ricco e variegato, alla sua vena politica; si affianca alla visceralità di Stills che incita a proseguire, che chiama all’happening, esorta il pubblico ad applaudire e perciò sembra rubare la scena. 

Nash è il più leggero, scanzonato, nel senso nobile del termine. Le sue 𝐂𝐡𝐢𝐜𝐚𝐠𝐨 𝐞 𝐓𝐞𝐚𝐜𝐡 𝐘𝐨𝐮𝐫 𝐂𝐡𝐢𝐥𝐝𝐫𝐞𝐧 vanno dalla esortazione politica al suggerimento pedagogico; in punta di lingua i suoi pezzi volano leggeri ma incisivi soprattutto in Chicago o Right Between The Eyes: “𝑈𝑛 𝑢𝑜𝑚𝑜 𝑒̀ 𝑡𝑎𝑙𝑒 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑔𝑢𝑎𝑟𝑑𝑎 𝑢𝑛 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑜 𝑢𝑜𝑚𝑜 𝑑𝑟𝑖𝑡𝑡𝑜 𝑛𝑒𝑔𝑙𝑖 𝑜𝑐𝑐ℎ𝑖”. 

Nel disco elettrico troviamo forse un amalgama maggiore anche se ognuno dei quattro è sempre riconoscibile. Coadiuvati da 𝐂𝐚𝐥𝐯𝐢𝐧 𝐒𝐚𝐦𝐮𝐞𝐥 al basso e da 𝐉𝐨𝐡𝐧 𝐁𝐚𝐫𝐛𝐚𝐭𝐚 alla batteria, 𝐒𝐨𝐮𝐭𝐡𝐞𝐫𝐧 𝐌𝐚𝐧 di Young e 𝐂𝐚𝐫𝐫𝐲 𝐎𝐧di Stills si sviluppano per circa 15 minuti ciascuna, con impasti di chitarre, un’improvvisazione che si tramuta in jam, in happening. Il Neil Young più politico e lo Stephen Stills con lo sguardo puntato in avanti, che ci esorta a buttarci alle spalle il passato e a proseguire, sembrano suggerire anche ai giorni nostri che il razzismo è una piaga e che comunque si deve guardare avanti. 

Ci rimane nelle orecchie il riff elettrico di 𝐎𝐡𝐢𝐨 “𝐼 𝑠𝑜𝑙𝑑𝑎𝑡𝑖 𝑑𝑖 𝑠𝑡𝑎𝑔𝑛𝑜 𝑒 𝑁𝑖𝑥𝑜𝑛 𝑐ℎ𝑒 𝑎𝑣𝑎𝑛𝑧𝑎𝑛𝑜”, una manifestazione pacifista che si trasforma in una strage di quattro studenti per l’intervento della polizia. “𝐹𝑜𝑢𝑟 𝑑𝑒𝑎𝑑 𝑖𝑛 𝑂ℎ𝑖𝑜” viene ripetuto più volte al termine del pezzo a ribadire la rabbia per la violenza gratuita. 

Dall’anno di pubblicazione di 4 Way Street sono trascorsi 50 anni, mezzo secolo, una cifra tonda che sprofonda agli albori di un’adolescenza non solo personale ma di questa musica. Erano note di maturità incipiente, che colpivano dirette, quasi assolute, la strada a quattro corsie correva dritta e libera.

Faccio un gioco quando mi rendo conto che, pur restando freschi a tutt’oggi, certi ascolti risalgono a mezzo secolo fa o poco meno: penso ai 50 anni che hanno preceduto quel 1971 e si torna al 1921: si è visto il fascismo e una guerra mondiale, la guerra fredda, il boom economico; venendo in qua la caduta del muro di Berlino, il terrorismo islamico e l’11 settembre, la rivoluzione digitale...non sto andando fuori dal seminato, ritorno a 4 Way Street perché è come se questo disco percorresse il mezzo secolo che lo ha preceduto e anticipasse i 50 anni che lo hanno seguito. Ma forse si potrebbe andare ancora più a ritroso nel tempo e spingerci in un futuro anteriore sconosciuto perché questo disco tocca una varietà di temi, molti sempre validi, altri più strettamente politici ma con problematiche ancora purtroppo attuali: 𝐒𝐨𝐮𝐭𝐡𝐞𝐫𝐧 𝐌𝐚𝐧, l’uomo nero del sud che non è solo il sud degli States e il 𝐵𝑙𝑎𝑐𝑘 𝐿𝑖𝑣𝑒𝑠 𝑀𝑎𝑡𝑡𝑒𝑟, il desiderio di fuga, la necessità di rompere gli schemi; il non cedere allo sconforto certi che “𝑆𝑜𝑛𝑜 𝑠𝑜𝑙𝑜 𝑐𝑎𝑠𝑡𝑒𝑙𝑙𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑏𝑟𝑢𝑐𝑖𝑎𝑛𝑜”. 

La chiusa del disco è affidata alle note in acustico di un brano di Stills, il breve testo lo metto qui in chiusura. Posto come retro a Ohio su 45 giri:

𝐹𝑖𝑛𝑑 𝑡ℎ𝑒 𝑐𝑜𝑠𝑡 𝑜𝑓 𝑓𝑟𝑒𝑒𝑑𝑜𝑚, 𝑏𝑢𝑟𝑖𝑒𝑑 𝑖𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑔𝑟𝑜𝑢𝑛𝑑, 
𝑀𝑜𝑡ℎ𝑒𝑟 𝐸𝑎𝑟𝑡ℎ 𝑤𝑖𝑙𝑙 𝑠𝑤𝑎𝑙𝑙𝑜𝑤 𝑦𝑜𝑢, 
𝐿𝑎𝑦 𝑦𝑜𝑢𝑟 𝑏𝑜𝑑𝑦 𝑑𝑜𝑤𝑛.

Il prezzo della libertà è sepolto, inghiottito dalla Terra: un testo senza speranza? Direi un monito, la consapevolezza che il prezzo da pagare sovente è la morte o la prigione, e quanto questo sia stato e sia tutt’ora vero lo vediamo tutti i giorni.


articolo e foto di 2021 © Roberto Gaudenzi - 26 marzo 2021

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𝐒𝐈𝐆𝐍𝐈𝐅𝐘

𝐏𝐨𝐫𝐜𝐮𝐩𝐢𝐧𝐞 𝐓𝐫𝐞𝐞 (1996)


𝑌𝑜𝑢'𝑣𝑒 𝑗𝑢𝑠𝑡 ℎ𝑎𝑑 𝑎 ℎ𝑒𝑎𝑣𝑦 𝑠𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛 𝑜𝑓 𝑒𝑙𝑒𝑐𝑡𝑟𝑜𝑠ℎ𝑜𝑐𝑘 𝑡ℎ𝑒𝑟𝑎𝑝𝑦, 
𝑎𝑛𝑑 𝑦𝑜𝑢'𝑟𝑒 𝑚𝑜𝑟𝑒 𝑟𝑒𝑙𝑎𝑥𝑒𝑑 𝑡ℎ𝑎𝑛 𝑦𝑜𝑢'𝑣𝑒 𝑏𝑒𝑒𝑛 𝑖𝑛 𝑤𝑒𝑒𝑘𝑠. 
𝐴𝑙𝑙 𝑡ℎ𝑜𝑠𝑒 𝑐ℎ𝑖𝑙𝑑ℎ𝑜𝑜𝑑 𝑡𝑟𝑎𝑢𝑚𝑎𝑠 𝑚𝑎𝑔𝑖𝑐𝑎𝑙𝑙𝑦 𝑤𝑖𝑝𝑒𝑑 𝑎𝑤𝑎𝑦, 
𝑎𝑙𝑜𝑛𝑔 𝑤𝑖𝑡ℎ 𝑚𝑜𝑠𝑡 𝑜𝑓 𝑦𝑜𝑢𝑟 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎𝑙𝑖𝑡𝑦.

Dice che si tende a preferire le musiche e i suoni che si sono ascoltati in gioventù. I 𝐏𝐨𝐫𝐜𝐮𝐩𝐢𝐧𝐞 𝐓𝐫𝐞𝐞 hanno lanciato aculei che mi hanno colpito ai primi ascolti forse anche per questa ragione: principalmente per gli echi pinkfloydiani e per un certo uso dell’elettronica figlia della “spazialità” che si respirava in terra tedesca, il tutto però condito con ingredienti mai assaporati: un gusto melodico originale, sonorità nuove, un approccio ritmico solido, in definitiva una dinamica diversa e moderna. 

Nati come gruppo fantasma dalla mente di 𝐒𝐭𝐞𝐯𝐞𝐧 𝐖𝐢𝐥𝐬𝐨𝐧 nel 1987, l’” Albero del Porcospino” divenne una band vera e propria a partire dal terzo album, essendo stato il primo, .𝐎𝐧 𝐭𝐡𝐞 𝐒𝐮𝐧𝐝𝐚𝐲 𝐨𝐟 𝐋𝐢𝐟𝐞… una sorta di antologia, raccolta di composizioni giovanili di Wilson, e il secondo 𝐔𝐩 𝐭𝐡𝐞 𝐃𝐨𝐰𝐧𝐬𝐭𝐚𝐢𝐫𝐬 del 1993 con un paio dei futuri membri della band in veste di comprimari. Con il terzo 𝐓𝐡𝐞 𝐒𝐤𝐲 𝐌𝐨𝐯𝐞𝐬 𝐒𝐢𝐝𝐞𝐰𝐚𝐲𝐬 del 1995 la band assume i connotati di un gruppo vero e proprio, proseguendo con questo 𝐒𝐢𝐠𝐧𝐢𝐟𝐲 del 1996 con 𝐒𝐭𝐞𝐯𝐞𝐧 𝐖𝐢𝐥𝐬𝐨𝐧 voce, chitarre e tastiere, 𝐂𝐨𝐥𝐢𝐧 𝐄𝐝𝐰𝐢𝐧 basso, 𝐑𝐢𝐜𝐡𝐚𝐫𝐝 𝐁𝐚𝐫𝐛𝐢𝐞𝐫𝐢 tastiere, 𝐂𝐡𝐫𝐢𝐬 𝐌𝐚𝐢𝐭𝐥𝐚𝐧𝐝 batteria, percussioni.

Ho scoperto i Porcupine Tree non da molti anni, quando già il loro progetto stava per concludersi, e forse perché non ancora sedimentati a sufficienza nelle profondità dei miei ascolti, ribollono e fermentano producendo riflessioni un po’ confuse che si riflettono in queste note. 

𝐁𝐨𝐫𝐧𝐥𝐢𝐯𝐞𝐝𝐢𝐞,, Nascivivimuori, un brano d’inizio che sembra voler suggerire un “significato”, data anche la forma grafica del titolo, alla cascata che riassume senza soluzione di continuità la nostra condizione esistenziale: nascere, vivere, morire. Una voce ci invita a rilassarci, bere qualcosa e ascoltare musica per un paio d’ore: niente di più invitante. Ma Signify parte in quarta con un riff pesante che sa di Metal, addolcito da un tappeto di mellotron, va crescendo come la difficoltà di trovarlo, un significato, la ritmica è precisa e la chitarra incalza colorata sempre più dalle tastiere. 

E’ possibile dormire senza sognare e subito ci troviamo in un clima rilassato che sembra accordarsi con quanto suggerisce la voce recitante all’inizio. 𝐓𝐡𝐞 𝐒𝐥𝐞𝐞𝐩 𝐨𝐟 𝐍𝐨 𝐃𝐫𝐞𝐚𝐦𝐢𝐧𝐠, però non offre visioni bucoliche, rassicuranti spiagge caraibiche da cartolina o paci campestri a fare da sfondo:“𝐴𝑙𝑙’𝑒𝑡𝑎̀ 𝑑𝑖 𝑠𝑒𝑑𝑖𝑐𝑖 𝑎𝑛𝑛𝑖 𝑒𝑟𝑜 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑠𝑝𝑒𝑟𝑎𝑛𝑧𝑎/𝑉𝑒𝑑𝑒𝑣𝑜 𝑙’𝑢𝑛𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑜 𝑎𝑡𝑡𝑟𝑎𝑣𝑒𝑟𝑠𝑜 𝑖𝑙 𝑐𝑎𝑝𝑝𝑖𝑜 𝑑𝑖 𝑢𝑛𝑎 𝑓𝑢𝑛𝑒”. Immagine sconcertante, il canto è sussurrato, qualcuno ci sta parlando all’orecchio, in confidenza ci fa sapere che “𝐸’ 𝑐𝑜𝑟𝑠𝑜 𝑎𝑙 𝑣𝑜𝑙𝑎𝑛𝑡𝑒” e, immaginiamo, in una folle corsa ha gettato via tutti i sogni infantili. All’improvviso il sussurro diventa un urlo strozzato, uno sfogo: “𝐷𝑜𝑟𝑚𝑖𝑟𝑒 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑠𝑒𝑛𝑡𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜/𝐷𝑜𝑟𝑚𝑖𝑟𝑒 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒/𝐷𝑜𝑟𝑚𝑖𝑟𝑒 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑠𝑜𝑔𝑛𝑎𝑟𝑒”. Allora siamo nella mancanza di significato e il titolo sembra connotare una condizione negativa. Già non siamo più rilassati perché vediamo un vuoto spalancarsi sotto di noi.

𝐏𝐚𝐠𝐚𝐧, breve e strumentale, ci fa galleggiare con echi e suoni che provengono da inconsci spazi profondi per sfumare e lasciare campo a 𝐖𝐚𝐢𝐭𝐢𝐧𝐠 divisa in due “fasi”. Su accordi di chitarra acustica, leggera, ci dice di chi“𝐴𝑠𝑝𝑒𝑡𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑛𝑎𝑠𝑐𝑒𝑟𝑒 𝑒/𝑉𝑢𝑜𝑙𝑒 𝑙𝑎 𝑝𝑒𝑛𝑎 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑡𝑟𝑖𝑠𝑡𝑒” una volontà di espiazione “𝐴𝑠𝑝𝑒𝑡𝑡𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑖𝑙 𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑜/𝑄𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑝𝑜𝑡𝑟𝑜̀ 𝑠𝑡𝑟𝑖𝑠𝑐𝑖𝑎𝑟𝑒 𝑣𝑖𝑎”. La chitarra si elettrifica e si produce in assolo contorto, strisciante, appunto. La seconda parte, strumentale, dispensa gocce di piano, suoni: è un’introspettiva discesa nella sconosciuta fabbrica delle pulsioni, tra brividi erotici deviati evocati nella prima parte“𝑆𝑜𝑓𝑓𝑟𝑒𝑛𝑑𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑙𝑒 𝑡𝑢𝑒 𝑢𝑛𝑔ℎ𝑖𝑒 𝑠𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑝𝑒𝑙𝑙𝑒”; l’attesa di un vero “sentire” e della “droga” che lo renda reale. Su una ritmica di bonghi, quasi tribale, gli arpeggi di pianoforte conducono ad un nucleo elettrico, solido, l’assolo echeggiante di chitarra che stira il desiderio, sull’orlo del pentimento.

𝐒𝐞𝐯𝐞𝐫: dividere, separare, si apre con una risata sarcastica, un pezzo duro: “𝑁𝑒𝑠𝑠𝑢𝑛𝑎 𝑝𝑒𝑟𝑐𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜/𝐶𝑖 𝑑𝑖𝑣𝑖𝑑𝑒 𝑑𝑎𝑙 𝑑𝑜𝑚𝑎𝑛𝑖”. Si nomina Oprah, citando presumibilmente Oprah Winfrey, conduttrice televisiva influentissima, attiva con un talk show andato in onda dal 1986 al 2011, capace di influenzare l’acquisto di qualunque articolo fosse stato da lei citato (recentemente intervistatrice dei transfughi ex-reali Harry e Megan). La stessa voce che ride in apertura chiuderà con la stessa risata esclamando che“𝐿’𝑢𝑛𝑖𝑐𝑎 𝑚𝑎𝑛𝑖𝑒𝑟𝑎 𝑝𝑒𝑟 𝑠𝑜𝑝𝑟𝑎𝑣𝑣𝑖𝑣𝑒𝑟𝑒 𝑒̀ 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑖𝑛 𝑔𝑖𝑛𝑜𝑐𝑐ℎ𝑖𝑜”. La città, i media ci condizionano a nostra insaputa. Il testo sembra sconnesso, accentato ad ogni verso, addolcito solo nel chorus.

Ma il discorso dell’album è un sali-scendi: 𝐈𝐝𝐢𝐨𝐭 𝐏𝐫𝐚𝐲𝐞𝐫 offre ancora una magnifica pausa di riflessione con una melodia flautata che ritorna a ondate per due minuti e mezzo, poi un ritmo incalzante preannuncia una voce recitante che declama effetti allucinatori:“𝐸’ 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑑𝑜𝑣𝑟𝑒𝑏𝑏𝑒 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑝𝑎𝑟𝑎𝑑𝑖𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝐴𝑙𝑙𝑎ℎ”.

Ma siamo tutti cablati, ci dicono i Porcupine Tree, e questo nel 1996, quando ancora non esisteva l’iper-connessione attuale. Già qualcuno ci suggeriva che, come l’immagine di copertina, saremmo prima o poi stati appesi a fili come in una tela di ragno. Con pennate acustiche una voce trattata ci dice che ogni casa è cablata, 𝐄𝐯𝐞𝐫𝐲 𝐇𝐨𝐦𝐞 𝐢𝐬 𝐖𝐢𝐫𝐞𝐝.. Il brano si scioglie in reti neurali, suoni informali:“𝐷𝑎𝑡𝑖 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑡𝑒𝑠𝑡𝑎/𝑁𝑎𝑣𝑖𝑔𝑎𝑟𝑒 𝑖𝑛 𝑟𝑒𝑡𝑒/𝑈𝑛𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑚𝑒 𝑒̀ 𝑚𝑜𝑟𝑡𝑎.” Esiste già la consapevolezza del disgregarsi, dell’atomizzarsi di parte delle nostre vite. “𝑁𝑢𝑜𝑡𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑛𝑒𝑖 𝑐𝑖𝑟𝑐𝑢𝑖𝑡𝑖…/𝑄𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑠𝑎𝑟𝑎̀ 𝑖𝑙 𝑓𝑢𝑡𝑢𝑟𝑜:/𝑂𝑔𝑛𝑖 𝑐𝑎𝑠𝑎 𝑠𝑎𝑟𝑎̀ 𝑐𝑎𝑏𝑙𝑎𝑡𝑎”. 
Sembra proprio che l’invito che ci rivolge la voce recitante in apertura vada accolto: allucinazioni, atmosfere sognanti, evocative, spengono gli accenti hard dove la musica si fa più incisiva come se ogni tanto ci desse una scossa per farci precipitare dopo poco nelle allucinazioni, nei “𝑃𝑎𝑡𝑡𝑒𝑟𝑛 𝑐𝑜𝑙𝑜𝑟𝑎𝑡𝑖”. La ragazza appesa a delle corde in copertina non è sofferente, anzi la sua è espressione indifferente se non rassegnata. Anche per noi ascoltatori è suggerito lo stesso approccio. Il secolo e addirittura il millennio stanno per finire, siamo all’inizio di un cambio epocale. 
Allora ecco un predicatore, uno dei tanti forse che ci mostra di essere circondati da legioni sataniche e di avere bisogno di Cristo. Anche qui è una recitazione, non esiste melodia, la musica si discioglie in armonie, suoni, tappeti di tastiere, arpeggi di pianoforte, frasi spezzate, colte al volo. 
“𝐋𝐢𝐠𝐡𝐭 𝐌𝐚𝐬𝐬 𝐏𝐫𝐚𝐲𝐞𝐫𝐬” segue 𝐈𝐧𝐭𝐞𝐫𝐦𝐞𝐝𝐢𝐚𝐭𝐞 𝐉𝐞𝐬𝐮𝐬 ed è un momento meditativo ampio come un respiro, largo, da ascoltare ad occhi chiusi. Ci troviamo forse in un tempio buddista, senza soluzione di continuità la batteria, sempre accentata come nello stile tipico della band, ci introduce in 𝐃𝐚𝐫𝐤 𝐌𝐚𝐭𝐭𝐞𝐫, una “𝑚𝑎𝑡𝑒𝑟𝑖𝑎 𝑜𝑠𝑐𝑢𝑟𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑒𝑠𝑐𝑒 𝑑𝑎 𝑢𝑛 𝑛𝑎𝑠𝑡𝑟𝑜” una riflessione sul farsi della musica? Un brano costruito su più registri, intessuto di evocazioni, momenti più duri ed incisivi, arpeggi acustici, che conducono ad un finale elettrico con un riff che lo marchia a fuoco.
Dopo alcuni secondi di silenzio, quando tutto sembra finito ma ancora siamo immersi nella contemplazione di ciò che abbiamo ascoltato, veniamo informati di “𝑎𝑣𝑒𝑟𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑒𝑐𝑖𝑝𝑎𝑡𝑜 𝑎 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑒𝑑𝑢𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝑡𝑒𝑟𝑎𝑝𝑖𝑎 𝑑𝑎 𝑒𝑙𝑒𝑡𝑡𝑟𝑜𝑠ℎ𝑜𝑐𝑘 𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑖 𝑡𝑟𝑎𝑢𝑚𝑖 𝑖𝑛𝑓𝑎𝑛𝑡𝑖𝑙𝑖 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑖 𝑠𝑝𝑎𝑧𝑧𝑎𝑡𝑖 𝑣𝑖𝑎 𝑐𝑜𝑛 𝑏𝑢𝑜𝑛𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑎 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎𝑙𝑖𝑡𝑎̀.”

Questo vuole dire che i Porcupine Tree non si accontentano di immergerci in un fluire di suoni e di melodie, ma pretendono di farci uscire dall’esperienza di ascolto diversi da prima, con una diversa personalità addirittura. C’è l’ambizione di un ascolto immersivo, totale e per quello che mi riguarda ci sono riusciti in pieno. .


articolo e foto di 2021 © Roberto Gaudenzi - 19 marzo 2021

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𝐕𝐄𝐋𝐕𝐄𝐓 𝐔𝐍𝐃𝐄𝐑𝐆𝐑𝐎𝐔𝐍𝐃 e 𝐍𝐈𝐂𝐎

Velvet Underground & Nico (1967)

Nella storia del Rock penso che questo sia l’unico disco che in copertina reca il nome dell’autore della copertina stessa, 𝐀𝐧𝐝𝐲 𝐖𝐚𝐫𝐡𝐨𝐥, maestro della Pop Art, artista poliedrico e eccentrico e tra le altre cose scopritore e produttore dei 𝐕𝐞𝐥𝐯𝐞𝐭 𝐔𝐧𝐝𝐞𝐫𝐠𝐫𝐨𝐮𝐧𝐝. Produttore atipico, forse sarebbe più esatto dire finanziatore, non avendo Warhol nessuna esperienza di studi di registrazione. E’ grazie a lui se i Velvet Underground poterono essere conosciuti dal vasto pubblico e alla sua copertina iconica quante altre mai. Una banana disegnata dall’artista, più probabilmente una foto da lui scattata e poi “trattata” in fase di stampa (siamo nel 1967 e di Photoshop non esisteva neppure il progetto), frutto che sulle copertine dei primi album si poteva sbucciare essendo una copertura adesiva rivelando sotto il frutto ma di un colore rosato (facile capire l’allusione). 
I Velvet Underground il cui nucleo parte nel 1964 da 𝐋𝐨𝐮 𝐑𝐞𝐞𝐝, che penso non abbia bisogno di molte presentazioni, e 𝐉𝐨𝐡𝐧 𝐂𝐚𝐥𝐞 musicista gallese d’avanguardia emigrato negli USA, a cui si aggiunsero 𝐒𝐭𝐞𝐫𝐥𝐢𝐧𝐠 𝐌𝐨𝐫𝐫𝐢𝐬𝐨𝐧 alla chitarra ritmica e basso e 𝐌𝐚𝐮𝐫𝐞𝐞𝐧 “𝐌𝐨𝐞” 𝐓𝐮𝐜𝐤𝐞𝐫 alle percussioni; sì la percussionista era proprio una donna, privo di piatti e rullante il suo percussionismo era atipico tanto che Lou Reed una volta dichiarò che esistevano due tipi di batteristi: Moe Tucker e tutti gli altri. Diventato manager del gruppo, Warhol suggerì di prendere nella formazione la cantante, attrice e modella 𝐍𝐢𝐜𝐨, vero nome 𝐂𝐡𝐫𝐢𝐬𝐭𝐚 𝐏𝐚𝐟𝐟𝐠𝐞𝐧. Apro una parentesi per suggerire il film biografico 𝐍𝐢𝐜𝐨, 𝟏𝟗𝟖𝟖 di 𝐒𝐮𝐬𝐚𝐧𝐧𝐚 𝐍𝐢𝐜𝐜𝐡𝐢𝐚𝐫𝐞𝐥𝐥𝐢, una produzione italo/belga. Parentesi nella parentesi, non si taglino i titoli di coda: la colonna sonora è una versione di 𝐁𝐢𝐠 𝐢𝐧 𝐉𝐚𝐩𝐚𝐧 (proprio quella degli Alphaville) magnificamente lenta e allucinata. 

Registrato nell’aprile del 1966 e uscito nel marzo del 1967, quando la band portava in tour lo show di Warhol 𝐄𝐱𝐩𝐥𝐨𝐝𝐢𝐧𝐠 𝐏𝐥𝐚𝐬𝐭𝐢𝐜 𝐈𝐧𝐞𝐯𝐢𝐭𝐚𝐛𝐥𝐞, l’album si propone con un equilibrio che spazia per metà tra brani con un certo gusto melodico, e l’alta metà più densa di un gusto sperimentale, monocorde, allucinato. Come 𝐕𝐞𝐧𝐮𝐬 𝐢𝐧 𝐅𝐮𝐫𝐬, titolo preso di peso dal romanzo erotico di 𝐿𝑒𝑜𝑝𝑜𝑙𝑑 𝑣𝑜𝑛 𝑆𝑎𝑐ℎ𝑒𝑟-𝑀𝑎𝑠𝑜𝑐ℎ. Su un pezzo cupo e ipnotico con una viola che tira una cortina buia e poche note ripetute di chitarra, la voce stanca di Lou Reed canta con una dolenza irredimibile: “𝑆𝑜𝑛𝑜 𝑠𝑡𝑎𝑛𝑐𝑜, 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑎𝑓𝑓𝑎𝑡𝑖𝑐𝑎𝑡𝑜/ 𝑝𝑜𝑡𝑟𝑒𝑖 𝑑𝑜𝑟𝑚𝑖𝑟𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑚𝑖𝑙𝑙𝑒 𝑎𝑛𝑛𝑖/𝑀𝑖𝑙𝑙𝑒 𝑠𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑝𝑜𝑡𝑟𝑒𝑏𝑏𝑒𝑟𝑜 𝑠𝑣𝑒𝑔𝑙𝑖𝑎𝑟𝑚𝑖/𝑑𝑖𝑓𝑓𝑒𝑟𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑐𝑜𝑙𝑜𝑟𝑖 𝑓𝑎𝑡𝑡𝑖 𝑑𝑖 𝑙𝑎𝑐𝑟𝑖𝑚𝑒”. Questa Venere in Pelliccia, con luccicanti stivali di pelle, armata di frustino, diventa una dea nera: la luminosa e ammiccante dea dell’amore, che per Lucrezio, scrittore latino, è la dispensatrice di vita, qui sembra trasformarsi in seminatrice di dolore e disperazione. Severin, che viene citato nella canzone è lo stesso narratore del romanzo che pur di stare vicino alla sua amata, è disposto a subire umiliazioni e maltrattamenti. 

Venere in pelliccia è la 𝐅𝐞𝐦𝐦𝐞 𝐅𝐚𝐭𝐚𝐥𝐞 che “𝑆𝑡𝑎 𝑎𝑟𝑟𝑖𝑣𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑠𝑝𝑒𝑧𝑧𝑎𝑟𝑡𝑖 𝑖𝑙 𝑐𝑢𝑜𝑟𝑒” canta Nico in un brano suadente, vellutato, ma che la sua voce tinge di nero, sa dare sfumature inquietanti: “𝑇𝑖 𝑠𝑎 𝑖𝑛𝑛𝑎𝑙𝑧𝑎𝑟𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑎𝑏𝑏𝑎𝑡𝑡𝑒𝑟𝑡𝑖... 𝑆𝑜𝑟𝑟𝑖𝑑𝑒𝑟𝑎̀ 𝑝𝑒𝑟 𝑓𝑎𝑟𝑡𝑖 𝑑𝑖𝑣𝑒𝑛𝑡𝑎𝑟𝑒 𝑡𝑟𝑖𝑠𝑡𝑒”. 

Una sorta di Cenerentola sembra di intravedere tra le righe di 𝐀𝐥𝐥 𝐓𝐨𝐦𝐨𝐫𝐫𝐨𝐰’𝐬 𝐏𝐚𝐫𝐭𝐢𝐞𝐬, “𝐶ℎ𝑒 𝑣𝑒𝑠𝑡𝑖𝑡𝑜 𝑖𝑛𝑑𝑜𝑠𝑠𝑒𝑟𝑎̀ 𝑙𝑎 𝑝𝑜𝑣𝑒𝑟𝑎 𝑟𝑎𝑔𝑎𝑧𝑧𝑎/𝑎 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑒 𝑙𝑒 𝑓𝑒𝑠𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑑𝑜𝑚𝑎𝑛𝑖?” Ma è una Cenerentola senza lieto fine, che non trova il principe azzurro “𝑃𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́ 𝑙𝑎 𝑏𝑎𝑚𝑏𝑖𝑛𝑎 𝑑𝑒𝑙 𝑔𝑖𝑜𝑣𝑒𝑑𝑖̀ 𝑒̀ 𝑖𝑙 𝑐𝑙𝑜𝑤𝑛 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑑𝑜𝑚𝑒𝑛𝑖𝑐𝑎”, gli abbellimenti di cui ci adorniamo diventano gli stacci di tutti i giorni. La prima delle tre canzoni cantate da Nico, acquista un tono oserei dire apatico, distante, nelle sue interpretazioni sembra non esserci feeling ma un quieto distacco, una rassegnazione di fondo che solo la musica riesce in parte a mitigare con la chitarra che ricama e una pianola che batte insistentemente su poche note sullo statico drumming della Tucker. 

Anche se il titolo di apertura, 𝐒𝐮𝐧𝐝𝐚𝐲 𝐌𝐨𝐫𝐧𝐢𝐧𝐠, così soffice, diffuso di un suono cristallino di campanellini che lo accompagna fino alla fine, magnificamente cantato (attenzione non ci si faccia ingannare da un primo ascolto come è successo al sottoscritto: la voce suadente e in sordina non è di Nico ma di Lou Reed!), dicevo anche se il disco sembra aprirsi con prospettive suadenti, in realtà dietro si svela una realtà violenta e triste, decadente, la realtà della New York notturna, sfatta di 𝐖𝐚𝐢𝐭𝐢𝐧𝐠 𝐟𝐨𝐫 𝐭𝐡𝐞 𝐌𝐚𝐧 dove a parlare è un drogato “𝐶𝑜𝑛 𝑣𝑒𝑛𝑡𝑖𝑠𝑒𝑖 𝑑𝑜𝑙𝑙𝑎𝑟𝑖 𝑖𝑛 𝑚𝑎𝑛𝑜/ 𝑀𝑖 𝑠𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑠𝑝𝑜𝑟𝑐𝑜, 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑚𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑣𝑖𝑣𝑜”, volto al maschile o al femminile, non esiste indicazione di genere nel testo. “𝑆𝑢 𝑎 𝐿𝑒𝑥𝑖𝑛𝑔𝑡𝑜𝑛, 125”, ultima fermata sulla Lexington Avenue, Harlem, periferia disperata e “bucata”. La musica è un ossessivo reiterarsi ritmico e la voce nasale di Reed, ora sì riconoscibile, senza apparente partecipazione emotiva, canta rassegnato le strofe del pezzo. 

Una caratteristica che mi ha sempre colpito dei Velvet Underground è il loro freddo distacco, quasi al limite dell’ironia (si noti il coretto di Femme Fatale) come se tutto facesse parte di uno stato di cose irrimediabile, anzi, della normalità. L’impassibilità di Venus in Furs sembra il prototipo della freddezza elettronica che sarà dei Kraftwerk. 

𝐇𝐞𝐫𝐨𝐢𝐧 è un tragico inno alla droga che smentisce in parte l’impassibilità esecutiva. L’interpretazione ha alti e bassi, Lou Reed ride, singhiozza. La città diventa una prigione da cui liberarsi: “𝑉𝑜𝑟𝑟𝑒𝑖 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑛𝑎𝑡𝑜 𝑚𝑖𝑙𝑙𝑒 𝑎𝑛𝑛𝑖 𝑓𝑎... 𝑛𝑎𝑣𝑖𝑔𝑎𝑟𝑒 𝑑𝑎 𝑢𝑛𝑎 𝑡𝑒𝑟𝑟𝑎 𝑎𝑙𝑙’𝑎𝑙𝑡𝑟𝑎/𝑣𝑒𝑠𝑡𝑖𝑡𝑜 𝑑𝑎 𝑚𝑎𝑟𝑖𝑛𝑎𝑖𝑜/𝐿𝑜𝑛𝑡𝑎𝑛𝑜 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑔𝑟𝑎𝑛𝑑𝑒 𝑐𝑖𝑡𝑡𝑎̀/ 𝐷𝑜𝑣𝑒 𝑢𝑛 𝑢𝑜𝑚𝑜 𝑛𝑜𝑛 𝑝𝑢𝑜̀ 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑙𝑖𝑏𝑒𝑟𝑜/𝑑𝑎 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑖 𝑚𝑎𝑙𝑖 𝑑𝑖 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑐𝑖𝑡𝑡𝑎̀.” 
Non importa se la direzione è la morte, “𝐿’𝑒𝑟𝑜𝑖𝑛𝑎 𝑒̀ 𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑣𝑖𝑡𝑎 𝑒𝑑 𝑒̀ 𝑚𝑖𝑎 𝑚𝑜𝑔𝑙𝑖𝑒”, un dolente, tragico matrimonio, l’annichilamento evocato, sperato: “𝐸𝑟𝑜𝑖𝑛𝑎, 𝑠𝑖𝑖 𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑚𝑜𝑟𝑡𝑒”. Non credo che altri abbiano dato voce in questa maniera esplicita al potere mortifero della droga. Assistiamo al fluire venefico dell’eroina: ambigua sostanza di morte intesa anche nell’accezione positiva come donna impavida: un’ambiguità difficile da conciliare.

“𝐿’𝑎𝑑𝑜𝑙𝑒𝑠𝑐𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑀𝑎𝑟𝑦 𝑑𝑖𝑠𝑠𝑒 𝑎 𝑧𝑖𝑜 𝐷𝑎𝑣𝑒/ℎ𝑜 𝑣𝑒𝑛𝑑𝑢𝑡𝑜 𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑎𝑛𝑖𝑚𝑎, 𝑑𝑒𝑣𝑜 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑠𝑎𝑙𝑣𝑎𝑡𝑎./𝐹𝑎𝑡𝑡𝑖 𝑢𝑛 𝑔𝑖𝑟𝑜 𝑎 𝑈𝑛𝑖𝑜𝑛 𝑆𝑞𝑢𝑎𝑟𝑒/𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑎𝑖 𝑐ℎ𝑖 𝑡𝑟𝑜𝑣𝑒𝑟𝑎𝑖.” Una serie di personaggi si muovono descritti da termini in slang. 𝐑𝐮𝐧 𝐑𝐮𝐧 𝐑𝐮𝐧 è appunto una corsa di caratteri verso la distruzione: Union Square all’epoca era piazza di spaccio e dell’incontro di drogati di ogni genere.

I Velvet si presentano in questa forma come attori di una interpretazione catatonica del degrado. 𝐓𝐡𝐞 𝐁𝐥𝐚𝐜𝐤 𝐀𝐧𝐠𝐞𝐥’𝐬 𝐃𝐞𝐚𝐭𝐡 𝐒𝐨𝐧𝐠 con un testo criptico che allude alla morte nella sua simbologia più popolare di angelo nero, mostra John Cale che fa piangere la viola su due note reiterate senza speranza.

Come 𝐄𝐮𝐫𝐨𝐩𝐞𝐚𝐧 𝐒𝐨𝐧: un folle pezzo sgangherato dedicato a 𝑫𝒆𝒍𝒎𝒐𝒓𝒆 𝑺𝒄𝒉𝒘𝒂𝒓𝒕𝒛, poeta morto pochi mesi prima la registrazione del disco, morto in un albergo in assoluta solitudine e scoperto due giorni dopo. Un dramma esce da questo pezzo senza armonia, atonale, pennate di chitarra, giri di basso, note trillanti, feedback finali. Il disco termina in una sorta di catastrofe di senso, la città tentacolare uccidendo il poeta nell’indifferenza ha rivelato la sua vocazione al caos, alla distruzione.

Nella loro immobile, sperimentale, monocorde aura maledetta, i Velvet Underground saranno, sono, tra i gruppi più influenti: dal Punk alla New Wave, a un certo rumorismo; per chi sterza verso strade non convenzionali, per chi spinge sul pedale di sonorità diverse.


articolo e foto di 2021 © Roberto Gaudenzi - 12 marzo 2021
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𝐏𝐎𝐑𝐍𝐎𝐆𝐑𝐀𝐏𝐇𝐘

𝐓𝐡𝐞 𝐂𝐮𝐫𝐞 - 𝟏𝟗𝟖𝟐

𝐼 𝑚𝑢𝑠𝑡 𝑓𝑖𝑔ℎ𝑡 𝑡ℎ𝑖𝑠 𝑠𝑖𝑐𝑘𝑛𝑒𝑠𝑠 
𝐹𝑖𝑛𝑑 𝑎 𝑐𝑢𝑟𝑒 
𝐼 𝑚𝑢𝑠𝑡 𝑓𝑖𝑔ℎ𝑡 𝑡ℎ𝑖𝑠 𝑠𝑖𝑐𝑘𝑛𝑒𝑠𝑠 
(𝑃𝑜𝑟𝑛𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑦)

𝐏𝐨𝐫𝐧𝐨𝐠𝐫𝐚𝐩𝐡𝐲 è la catastrofe. Fiamme di fuoco divampano a incendiare i tre musicisti sulla copertina e noi bruciamo allo stesso modo. Se 𝐒𝐞𝐯𝐞𝐧𝐭𝐞𝐞𝐧 𝐒𝐞𝐜𝐨𝐧𝐝𝐬 e 𝐅𝐚𝐢𝐭𝐡, i due album che lo hanno preceduto, si sono mantenuti su un umore di malinconia meditativa, se era macchiato di colori pastello il primo e screziato di grigio il secondo, se le note lontane e il canto sussurrato si riverberavano delle note echeggianti di Faith, lo scarlatto che sfuma nel calor bianco brucia Pornography. Musica elettrica, nervosa, che fa dell’invettiva la propria ragione di essere. 

Una chitarra che grida, graffia tenendosi su poche note, che non ricama ma punge, ferisce. “𝑁𝑜𝑛 𝑖𝑚𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎 𝑠𝑒 𝑚𝑜𝑟𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖/𝐿𝑒 𝑎𝑚𝑏𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑠𝑢𝑙 𝑟𝑒𝑡𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑐𝑎𝑟𝑟𝑜 𝑓𝑢𝑛𝑒𝑏𝑟𝑒”. Dopo questo enunciato, con cui si apre 𝐎𝐧𝐞 𝐇𝐮𝐧𝐝𝐫𝐞𝐝 𝐘𝐞𝐚𝐫𝐬, si potrebbe chiudere tutto scoraggiati da una tale violenza verbale e musicale. E più avanti: "𝑀𝑜𝑟𝑖𝑟𝑒𝑚𝑜 𝑢𝑛𝑜 𝑑𝑜𝑝𝑜 𝑙’𝑎𝑙𝑡𝑟𝑜" , che altro dire? Qui non esiste più nemmeno quella lieve “fiducia” con cui si chiudeva il disco precedente. Qui la frenesia del quotidiano ci fa soccombere, la follia del sangue versato per cento anni non ha remissione. 

Dopo One Hundred Years e la sua mancanza di riscatto, 𝐀 𝐒𝐡𝐨𝐫𝐭 𝐓𝐞𝐫𝐦 𝐄𝐟𝐟𝐞𝐜𝐭 cerca in un effetto di breve durata: “𝑈𝑛 𝑚𝑜𝑣𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜/𝑈𝑛’𝑖𝑚𝑚𝑜𝑏𝑖𝑙𝑖𝑡𝑎̀/𝑈𝑛 𝑢𝑐𝑐𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑐𝑎𝑑𝑒 𝑎𝑙 𝑠𝑢𝑜𝑙𝑜/𝑓𝑟𝑒𝑑𝑑𝑜 𝑒 𝑠𝑎𝑛𝑔𝑢𝑖𝑛𝑎𝑛𝑡𝑒”. Qui l’atmosfera è fornita dall’eco della voce al termine di ogni verso, suoni distorti che sembrano richiamare l’immagine di copertina: forse siamo sotto l’effetto di allucinogeni, specchi deformanti, “𝑐𝑜𝑙𝑜𝑟𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑡𝑟𝑒𝑚𝑜𝑙𝑎𝑛𝑜 𝑛𝑒𝑙𝑙’𝑎𝑐𝑞𝑢𝑎, 𝑢𝑛’𝑎𝑡𝑚𝑜𝑠𝑓𝑒𝑟𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑚𝑎𝑟𝑐𝑖𝑠𝑐𝑒 𝑐𝑜𝑙 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜” morsi di follia, un ballo attraverso il deserto. 

Ma arriviamo a 𝐓𝐡𝐞 𝐇𝐚𝐧𝐠𝐢𝐧𝐠 𝐆𝐚𝐫𝐝𝐞𝐧, Il giardino degli impiccati, già anticipato in One hundred Years: “𝐼𝑙 𝑛𝑎𝑠𝑡𝑟𝑜 𝑠𝑖 𝑠𝑡𝑟𝑖𝑛𝑔𝑒 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑔𝑜𝑙𝑎/𝑎𝑝𝑟𝑜 𝑙𝑎 𝑏𝑜𝑐𝑐𝑎/𝑒 𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑡𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑠𝑖 𝑠𝑝𝑎𝑙𝑎𝑛𝑐𝑎/𝑖𝑙 𝑠𝑢𝑜𝑛𝑜 𝑑𝑖 𝑢𝑛𝑎 𝑡𝑖𝑔𝑟𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑖 𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑎 𝑛𝑒𝑙𝑙’𝑎𝑐𝑞𝑢𝑎”, dove si aggirano figure inquietanti, creature che si baciano nella pioggia protette dal buio, nel giardino degli impiccati si indossano pellicce e maschere, si odono animali urlare. E’ un altrove dove si può saltare fuori dal tempo, cambiare il passato, dove si possono catturare gli aloni lunari e forgiare sembianze angeliche con le mani. Dove si prova pietà mentre gli animali muoiono: “𝐶𝑜𝑣𝑒𝑟 𝑚𝑦 𝑓𝑎𝑐𝑒 𝑎𝑠 𝑡ℎ𝑒 𝑎𝑛𝑖𝑚𝑎𝑙𝑠 𝑑𝑖𝑒”. E’ un universo drogato dove succede di tutto. 

Il senso della fine è presente anche in quello che è un amore mercenario in 𝐒𝐢𝐚𝐦𝐞𝐬𝐞 𝐓𝐰𝐢𝐧𝐬, carne e sangue e il primo bacio, ci siamo contorti sotto una luce rossa. Amore e morte. I gemelli siamesi allacciati per errore dalla nascita diventano la figura dell’atto sessuale. 𝐼 𝑚𝑢𝑟𝑖 𝑒 𝑖𝑙 𝑠𝑜𝑓𝑓𝑖𝑡𝑡𝑜 𝑠𝑖 𝑚𝑢𝑜𝑣𝑜𝑛𝑜 𝑎𝑙𝑙’𝑢𝑛𝑖𝑠𝑜𝑛𝑜, 𝑠𝑝𝑖𝑛𝑔𝑜𝑛𝑜 𝑢𝑛𝑎 𝑙𝑎𝑚𝑎 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑚𝑎𝑛𝑜, 𝑙𝑒𝑛𝑡𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑠𝑢 𝑝𝑒𝑟 𝑙𝑒 𝑠𝑐𝑎𝑙𝑒, 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑐𝑎𝑚𝑒𝑟𝑎: 𝑑𝑒𝑣𝑒 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑜 𝑐𝑜𝑠𝑖̀?” L’organo sessuale maschile diventa una lama che ferisce: deve essere proprio così? 
La domanda che ritorna nella canzone, interroga la coscienza assassina, frena la pulsione di morte, combatte la malattia anche se non trova una cura. C’è una resa: “𝑙𝑎𝑠𝑐𝑖𝑎𝑚𝑖 𝑚𝑜𝑟𝑖𝑟𝑒, 𝑛𝑜𝑛 𝑟𝑖𝑐𝑜𝑟𝑑𝑒𝑟𝑎𝑖 𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑣𝑜𝑐𝑒.” “𝐶𝑎𝑛𝑡𝑎 𝑓𝑜𝑟𝑡𝑒: 𝑚𝑜𝑟𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖!” Ma ancora la domanda frena: deve essere proprio così? La canzone si spegne sull’interrogativo. 

Annunciata da un rullare di tamburo e un basso asciutto e forte 𝐓𝐡𝐞 𝐅𝐢𝐠𝐮𝐫𝐞𝐡𝐞𝐚𝐝, la polena (statua lignea che veniva posta sulla prua delle navi) anticipa la scia, fende le onde a guardia della tempesta. Nel brano precedente c’erano sorrisi Voodoo, qui ci sono “𝑓𝑖𝑔𝑢𝑟𝑖𝑛𝑒 𝑙𝑒𝑔𝑎𝑡𝑒 𝑐𝑜𝑛 𝑟𝑎𝑔𝑛𝑖 𝑎𝑙𝑙’𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑛𝑜 𝑒 𝑝𝑜𝑙𝑣𝑒𝑟𝑒 𝑠𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑙𝑎𝑏𝑏𝑟𝑎 𝑖𝑛 𝑢𝑛𝑎 𝑣𝑖𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛𝑓𝑒𝑟𝑛𝑎𝑙𝑒”, un gusto espressionista, visioni urtanti, con The Figurehead si riduce l’atto amoroso in una discesa negli inferi: “𝑃𝑒𝑟 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑖𝑙 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜 𝑚𝑖 𝑝𝑒𝑟𝑑𝑜 𝑛𝑒𝑙 𝑏𝑢𝑖𝑜/𝑝𝑒𝑟 𝑓𝑎𝑣𝑜𝑟𝑒, 𝑓𝑎𝑙𝑙𝑜 𝑏𝑒𝑛𝑒...𝑇𝑢 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑖𝑔𝑛𝑖𝑓𝑖𝑐ℎ𝑖 𝑛𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒”. Le note di chitarra sono dolenti lacrime elettriche, un tema ciclico con scarse variazioni, come un lamento. 𝑇𝑟𝑜𝑝𝑝𝑖 𝑠𝑒𝑔𝑟𝑒𝑡𝑖/𝑇𝑟𝑜𝑝𝑝𝑒 𝑏𝑢𝑔𝑖𝑒/𝑆𝑖 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑜𝑟𝑐𝑜𝑛𝑜 𝑛𝑒𝑙𝑙’𝑜𝑑𝑖𝑜./𝑇𝑖 𝑝𝑟𝑒𝑔𝑜 𝑓𝑎𝑙𝑙𝑜 𝑏𝑒𝑛𝑒 𝑠𝑡𝑎𝑛𝑜𝑡𝑡𝑒.” 
Una fredda richiesta di performance, niente di più. Alla polena che su una prua affronta gli uragani, sobbalza sui marosi e tuttavia resta immobile e impassibile nella sua fissità di legno, si contrappone la consapevolezza di un cambiamento, della fine dell’innocenza: “𝐼 𝑤𝑖𝑙𝑙 𝑛𝑒𝑣𝑒𝑟 𝑏𝑒 𝑐𝑙𝑒𝑎𝑛 𝑎𝑔𝑎𝑖𝑛”, non sarò più puro. Il verso si ripete, la voce di Robert Smith è come sempre straordinaria: con quelle sue scaglie di dolente rabbia, ora malinconica ora rassegnata e resta un rammarico che si spegne improvviso sul ritmo ciclico della batteria. 

In 𝐀 𝐒𝐭𝐫𝐚𝐧𝐠𝐞 𝐃𝐚𝐲 sembra alleggerirsi il peso delle angosce in un oblio cieco, ci si muove lentamente ad occhi chiusi annegando, si ride alla deriva nel vento finché tutto esplode e non rimane che un’impressione di suono, il ricordo di una canzone, poi tutto se ne va, per sempre. Quel termine finale non sembra lasciare via di scampo. Apparentemente il giorno strano è leggero: il battere ritmico è l’esatto contrario, su un tappeto di tastiere fino all’irrompere del tema affidato a poche note di chitarra. Tutto l’album si muove su questa struttura che non concede tregue all’ossessione ritmica, alle cicliche figure appena alleggerite da melodie minimali. Già cifra dei precedenti dischi, qui ogni nota si fa più cruda e incisiva.

𝐂𝐨𝐥𝐝 sembra fare eccezione. Si annuncia con una cupa introduzione di violoncello, la ritmica sembra frantumarsi come cristalli che si incrinano e uno sfondo di sintetizzatore accompagna il pezzo. Una posizione fetale sembra alludere a una rinascita non fosse che l’embrione è sfregiato. "𝑃𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑜 𝑣𝑜𝑙𝑡𝑜, 𝑠𝑎𝑟𝑎𝑖 𝑎𝑛𝑐𝑜𝑟𝑎 𝑏𝑎𝑐𝑖𝑎𝑡𝑜” se nel brano precedente si chiedevano a prestito gli occhi, qui si assumono sembianze diverse cambiando faccia e lo sguardo ha una fissità di ghiaccio. "𝐼𝑙 𝑡𝑢𝑜 𝑛𝑜𝑚𝑒 𝑒̀ 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑔ℎ𝑖𝑎𝑐𝑐𝑖𝑜” tutto è freddo come la vita, come il silenzio e c’è una domanda: “𝑄𝑢𝑎𝑙𝑐𝑢𝑛𝑜 𝑝𝑢𝑜̀ 𝑠𝑎𝑙𝑣𝑎𝑟𝑡𝑖?” 

𝐏𝐨𝐫𝐧𝐨𝐠𝐫𝐚𝐩𝐡𝐲, e il suo ritmo ancestrale, la cacofonia vocale con cui ci ferisce i timpani, il vociare incessante, strumenti distorti che si fanno spazio, poi la voce di Smith emerge dal caos, ma nella confusione non c’è spazio per il canto, si può solo gridare anche se nessuno probabilmente ascolterà. “𝑆𝑒𝑚𝑏𝑟𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑐𝑜𝑠𝑖̀ 𝑝𝑒𝑟𝑓𝑒𝑡𝑡𝑖/𝑀𝑒𝑛𝑡𝑟𝑒 𝑐𝑎𝑑𝑖𝑎𝑚𝑜....𝑛𝑒𝑖 𝑙𝑖𝑏𝑟𝑖, 𝑛𝑒𝑖 𝑓𝑖𝑙𝑚𝑠, 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑣𝑖𝑡𝑎 𝑒 𝑖𝑛 𝑝𝑎𝑟𝑎𝑑𝑖𝑠𝑜/𝐼𝑙 𝑠𝑢𝑜𝑛𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎𝑐𝑟𝑜.” C’è un orrore diffuso “𝑀𝑒𝑛𝑡𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑡𝑢𝑜 𝑐𝑜𝑟𝑝𝑜 𝑠𝑖 𝑟𝑖𝑏𝑒𝑙𝑙𝑎/𝑀𝑎 𝑒̀ 𝑡𝑟𝑜𝑝𝑝𝑜 𝑡𝑎𝑟𝑑𝑖”. Senza speranza. “𝑈𝑛 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑜 𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑜𝑔𝑔𝑖 𝑒 𝑡𝑖 𝑢𝑐𝑐𝑖𝑑𝑒𝑟𝑜̀/𝑈𝑛 𝑑𝑒𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟𝑖𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑎𝑟𝑛𝑒/𝐸 𝑑𝑖 𝑣𝑒𝑟𝑜 𝑠𝑎𝑛𝑔𝑢𝑒/𝑇𝑖 𝑔𝑢𝑎𝑟𝑑𝑒𝑟𝑜̀ 𝑎𝑛𝑛𝑒𝑔𝑎𝑟𝑒 𝑠𝑜𝑡𝑡𝑜 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑑𝑜𝑐𝑐𝑖𝑎.” Sembrano frasi di un killer sanguinario, una sorta di cannibalismo, violenza repressa. Tuttavia alla fine nel caos permane un barlume di coscienza: ““𝐷𝑒𝑣𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑏𝑎𝑡𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑚𝑎𝑙𝑎𝑡𝑡𝑖𝑎./𝐷𝑒𝑣𝑜 𝑡𝑟𝑜𝑣𝑎𝑟𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑐𝑢𝑟𝑎.” Quindi una consapevolezza rimane ed è quella che è in grado di condurre fuori dal disordine. Allora alla fine capiamo che i Cure non propongono un nichilismo assoluto anche se il disco è disseminato di immagini di morte: nel gelo drogato di rapporti senza amore, nel giardino degli impiccati dove da cento anni l’umanità si affanna: “𝐼𝑛 𝑢𝑛 𝑔𝑟𝑎𝑛𝑑𝑒 𝑝𝑎𝑙𝑎𝑧𝑧𝑜 𝑐’𝑒̀ 𝑚𝑜𝑙𝑡𝑜 𝑑𝑎 𝑓𝑎𝑟𝑒”, la vera pornografia non è nelle immagini esplicite di accoppiamenti ma nel vuoto, nel gelo che blocca, negli effetti di breve durata dell’uso di stupefacenti. 

Gli anni ’80 che stanno nascendo, vedono la furia incendiaria del punk addolcirsi in un meditativo e disperato suono ripetitivo, ossessivo. Atmosfere cupe che rimarcano la fine definitiva del rigurgito rivoluzionario seguito all’epoca dell’utopia. I volti deformati dei Cure sulla copertina sono fuochi fatui che emergono dal nero, spettri che l’ectoplasma a forma di mano che emerge su un lato sembra tendere a riportare nel mondo dei sopravvissuti. Questo disco non vuole piacere, non cerca l’hit, è uniforme, guizza come fiamme di fuoco, potrebbe essere un’unica suite con 8 movimenti, è la fase acuta della malattia. Dopo Pornography ci sarebbe stato il nulla, indietro non era possibile tornare: ma i Cure si addolciranno, apriranno sentieri più fruibili, la cura (mai nome di band è stata più appropriata) è stata trovata ma le cicatrici lasciate da questo, soprattutto, e dai precedenti album, saranno indelebili. 


articolo e foto di 2021 © Roberto Gaudenzi - 5 marzo 2021

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𝐓𝐇𝐄 𝐏𝐈𝐏𝐄𝐑 𝐀𝐓 𝐓𝐇𝐄 𝐆𝐀𝐓𝐄𝐒 𝐎𝐅 𝐃𝐎𝐖𝐍

𝐏𝐢𝐧𝐤 𝐅𝐥𝐨𝐲𝐝 - 𝟏𝟗𝟔𝟕

𝐹𝑜𝑟 𝑎𝑙𝑙 𝑡ℎ𝑒 𝑡𝑖𝑚𝑒 𝑠𝑝𝑒𝑛𝑡 𝑖𝑛 𝑡ℎ𝑎𝑡 𝑟𝑜𝑜𝑚 
𝑇ℎ𝑒 𝑑𝑜𝑙𝑙'𝑠 ℎ𝑜𝑢𝑠𝑒, 𝑑𝑎𝑟𝑘𝑛𝑒𝑠𝑠, 𝑜𝑙𝑑 𝑝𝑒𝑟𝑓𝑢𝑚𝑒 
𝐴𝑛𝑑 𝑓𝑎𝑖𝑟𝑦 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑒𝑠 ℎ𝑒𝑙𝑑 𝑚𝑒 ℎ𝑖𝑔ℎ 𝑜𝑛 
𝐶𝑙𝑜𝑢𝑑𝑠 𝑜𝑓 𝑠𝑢𝑛𝑙𝑖𝑔ℎ𝑡 𝑓𝑙𝑜𝑎𝑡𝑖𝑛𝑔 𝑏𝑦 
𝑂ℎ 𝑚𝑜𝑡ℎ𝑒𝑟, 𝑡𝑒𝑙𝑙 𝑚𝑒 𝑚𝑜𝑟𝑒 
𝑇𝑒𝑙𝑙 𝑚𝑒 𝑚𝑜𝑟𝑒 (
𝑀𝑎𝑡𝑖𝑙𝑑𝑎 𝑀𝑜𝑡ℎ𝑒𝑟)

C’è un fantasma che si aggira tra i quattro 𝐏𝐢𝐧𝐤 𝐅𝐥𝐨𝐲𝐝, un senso di colpa che ha un nome: 𝐒𝐲𝐝 𝐁𝐚𝐫𝐫𝐞𝐭𝐭. Il primo chitarrista della band allontanato per problemi mentali, incapace di tenere insieme il proprio mondo, lontano dalle logiche comuni. Forse 𝐆𝐢𝐥𝐦𝐨𝐮𝐫 che prenderà il suo posto sentirà sempre su di sé il marchio di usurpatore anche se ovviamente di fatto non lo sarà. 
Barrett che timbra col suo marchio il primo disco dei Pink Floyd, con la sua vena favolistica, affolla il disco di creature fiabesche, di gnomi, di gatti inquietanti, spazi dove le stelle incutono timore, re che governano nazioni. 
“𝑀𝑎𝑑𝑟𝑒, 𝑟𝑎𝑐𝑐𝑜𝑛𝑡𝑎𝑚𝑖 𝑑𝑖 𝑝𝑖𝑢̀.”

𝐋𝐮𝐜𝐢𝐟𝐞𝐫 𝐒𝐚𝐦 è un gatto siamese trasformato in Lucifero, “𝑄𝑢𝑒𝑙 𝑔𝑎𝑡𝑡𝑜 ℎ𝑎 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑟𝑖𝑒𝑠𝑐𝑜 𝑎 𝑠𝑝𝑖𝑒𝑔𝑎𝑟𝑒”. Lucifero è la stella del mattino, ma anche il diavolo, ti siede sempre a fianco. Un gatto magico che assomiglia allo “𝑆𝑡𝑟𝑒𝑔𝑎𝑡𝑡𝑜” della favola di "𝐴𝑙𝑖𝑐𝑒 𝑛𝑒𝑙 𝑝𝑎𝑒𝑠𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑚𝑒𝑟𝑎𝑣𝑖𝑔𝑙𝑖𝑒“.

“𝐸 𝑙𝑒 𝑓𝑎𝑣𝑜𝑙𝑒 𝑚𝑖 𝑡𝑒𝑛𝑒𝑣𝑎𝑛𝑜 𝑖𝑛 𝑎𝑙𝑡𝑜”, recita un verso di 𝐌𝐚𝐭𝐢𝐥𝐝𝐚 𝐌𝐨𝐭𝐡𝐞𝐫 che riassume la filosofia sottesa in tutto l’album: “𝑃𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́ 𝑑𝑜𝑣𝑟𝑒𝑠𝑡𝑖 𝑙𝑎𝑠𝑐𝑖𝑎𝑟𝑚𝑖 𝑠𝑜𝑠𝑝𝑒𝑠𝑜 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑖𝑛𝑓𝑎𝑛𝑡𝑖𝑙𝑒 𝑎𝑑 𝑎𝑠𝑝𝑒𝑡𝑡𝑎𝑟𝑒? 𝐷𝑒𝑣𝑖 𝑠𝑜𝑙𝑜 𝑙𝑒𝑔𝑔𝑒𝑟𝑒 𝑙𝑒 𝑟𝑖𝑔ℎ𝑒. 𝑆𝑜𝑛𝑜 𝑠𝑐𝑎𝑟𝑎𝑏𝑜𝑐𝑐ℎ𝑖𝑎𝑡𝑒 𝑒 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑏𝑟𝑖𝑙𝑙𝑎”. L’intervento materno mette ordine al caos, decifra i segni, dà senso agli scarabocchi, consente di “𝑉𝑎𝑔𝑎𝑟𝑒 𝑒 𝑠𝑜𝑔𝑛𝑎𝑟𝑒” perchè “𝐿𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑜𝑙𝑒 ℎ𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑑𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑖 𝑠𝑖𝑔𝑛𝑖𝑓𝑖𝑐𝑎𝑡𝑖”

E’ la doppia anima del disco: rigorosa struttura formale delle canzoni e dissoluzione di strutture. 𝐈𝐧𝐭𝐞𝐫𝐬𝐭𝐞𝐥𝐥𝐚𝐫 𝐎𝐯𝐞𝐫𝐝𝐫𝐢𝐯𝐞 ne è l’esempio nel suo lungo svilupparsi disgregando gli accordi iniziali, un riff ripetuto, per frantumarlo in suoni isolati dove gli unici elementi che conservano una riconoscibilità sono la batteria e il basso. La psichedelia trova qui la sua allucinata manifestazione: il pitagorico suono delle sfere diventa informità spaziale, disarmonia. Accostare questo pezzo ad 𝐀𝐬𝐭𝐫𝐨𝐧𝐨𝐦𝐲 𝐃𝐨𝐦𝐢𝐧𝐞 (di cui abbiamo accennato parlando a proposito di Ummagumma) che apre il disco è facile e naturale. Una voce metallica come proveniente da un megafono, o da un’astronave dagli spazi siderali, un messaggio indecifrabile in codice Morse, apre il pezzo che nel titolo è ambiguo: domine è il verbo dominare e si potrebbe interpretare come dominio astronomico; Domine è anche appellativo di Dio, essere supremo, comunque entità che ci sovrastano.

𝐏𝐨𝐰 𝐑. 𝐓𝐨𝐜. 𝐇, titolo impossibile, vede un assolo soft di pianoforte che alleggerisce voci strane, suoni, accordi di organo, isolate strutture, in mezzo a questo il mondo della fiaba assume una fisionomia certa: “𝑀𝑎𝑑𝑟𝑒, 𝑑𝑖𝑚𝑚𝑖 𝑑𝑖 𝑝𝑖𝑢̀”. Il bambino vorrebbe che la storia non finisse mai: se le stelle fanno paura il racconto materno dà un ordine al mondo e allora “𝐷𝑎 𝑠𝑜𝑙𝑜 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑛𝑢𝑣𝑜𝑙𝑒 𝑏𝑙𝑢/𝑆𝑑𝑟𝑎𝑖𝑎𝑡𝑜 𝑠𝑢 𝑢𝑛 𝑝𝑖𝑢𝑚𝑖𝑛𝑜/𝑇𝑢 𝑛𝑜𝑛 𝑝𝑢𝑜𝑖 𝑣𝑒𝑑𝑒𝑟𝑚𝑖/𝑀𝑎 𝑖𝑜 𝑠𝑖̀.... 𝑆𝑒𝑑𝑢𝑡𝑜 𝑠𝑢 𝑢𝑛 𝑢𝑛𝑖𝑐𝑜𝑟𝑛𝑜/𝑁𝑜𝑛 𝑝𝑢𝑜𝑖 𝑠𝑒𝑛𝑡𝑖𝑟𝑚𝑖/𝑀𝑎 𝑖𝑜 𝑠𝑖̀”. La canzone più onirica dell’album trasforma il protagonista in una sorta di onniveggente, onnipotente: osservare senza essere visti, poter toccare senza essere toccati per la visione occidentale significa porsi sullo stesso piano della divinità: la fiaba in questo senso è la ricostruzione del reale, anche se non aderente alla realtà stessa.

Costruite su pochi accordi che legano composizioni tendenti all’entropia, i Pink Floyd trovano una struttura forte proprio nei brani a sola firma Syd Barrett, 8 su 11, la maggior parte, due sono composizioni a firma di tutti e quattro e sono strumentali, uno a firma 𝐑𝐨𝐠𝐞𝐫 𝐖𝐚𝐭𝐞𝐫𝐬: 𝐓𝐚𝐤𝐞 𝐔𝐩 𝐓𝐡𝐲 𝐒𝐭𝐞𝐭𝐡𝐨𝐬𝐜𝐨𝐩𝐞 𝐚𝐧𝐝 𝐖𝐚𝐥𝐤 un malato che invoca un medico, elenca i propri malanni e infine afferma che la musica sembra avere un effetto terapeutico: tanto sognanti sono in brani di Barrett, quanto concreto e assertivo è questo a firma di Waters.

Il libro dei mutamenti, 𝐈 𝐂𝐡𝐢𝐧𝐠, è la fonte di ispirazione di 𝐂𝐡𝐚𝐩𝐭𝐞𝐫 𝟐𝟒, e si riferisce all’esagramma 24 che significa “Il Ritorno”: “𝐼𝑙 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜 𝑒̀ 𝑐𝑜𝑛 𝑖𝑙 𝑚𝑒𝑠𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑠𝑜𝑙𝑠𝑡𝑖𝑧𝑖𝑜 𝑑’𝑖𝑛𝑣𝑒𝑟𝑛𝑜/𝑄𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑖𝑙 𝑐𝑎𝑚𝑏𝑖𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑠𝑡𝑎 𝑝𝑒𝑟 𝑎𝑟𝑟𝑖𝑣𝑎𝑟𝑒”. Barrett accenna qui al tempo che nell’era cristiana è diventato il Natale che rinverdisce antichi riti di rinascita: i rigori dell’inverno devono ancora arrivare ma il solstizio invernale già allunga le giornate, già la luce sta vincendo la battaglia contro le tenebre. 𝑈𝑛 𝑚𝑜𝑣𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑣𝑖𝑒𝑛𝑒 𝑒𝑠𝑒𝑔𝑢𝑖𝑡𝑜 𝑖𝑛 𝑠𝑒𝑖 𝑓𝑎𝑠𝑖/𝐸 𝑖𝑙 𝑠𝑒𝑡𝑡𝑖𝑚𝑜 𝑟𝑖𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎 𝑖𝑙 𝑟𝑖𝑡𝑜𝑟𝑛𝑜”. La canzone è un elenco di sentenze, divinazioni: sette sono i giorni della settimana e l’ultimo porta con sé la ripetizione del ciclo.

Ciclica è la semina dell’orzo nel cui campo sta lo spaventapasseri, 𝐓𝐡𝐞 𝐒𝐜𝐚𝐫𝐞𝐜𝐫𝐨𝐰, con un inizio di nacchere che sembra il passo di qualche animale dotato di zoccoli, un organo si fa strada, sognante, sapore folk, c’è un gusto per il minimalismo, una condensazione di significati e umori che è comune a tutti i pezzi del disco. “𝐿𝑜 𝑠𝑝𝑎𝑣𝑒𝑛𝑡𝑎𝑝𝑎𝑠𝑠𝑒𝑟𝑖 𝑒̀ 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑡𝑟𝑖𝑠𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑚𝑒/𝑀𝑎 𝑜𝑟𝑎 𝑒̀ 𝑟𝑎𝑠𝑠𝑒𝑔𝑛𝑎𝑡𝑜 𝑎𝑙 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑜 𝑑𝑒𝑠𝑡𝑖𝑛𝑜”. La dichiarazione di uno stato d’animo: Barrett-Scarecrow, immobile in un campo dove solo il vento lo costringe al movimento afferma che “𝐿𝑎 𝑣𝑖𝑡𝑎 𝑛𝑜𝑛 𝑒̀ 𝑝𝑜𝑖 𝑐𝑜𝑠𝑖̀ 𝑚𝑎𝑙𝑒”, in fondo “𝑁𝑜𝑛 𝑖𝑚𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎/ 𝐿𝑢𝑖 𝑒̀ 𝑖𝑚𝑚𝑜𝑏𝑖𝑙𝑒 𝑛𝑒𝑙 𝑐𝑎𝑚𝑝𝑜 𝑑𝑜𝑣𝑒 𝑐𝑟𝑒𝑠𝑐𝑒 𝑙’𝑜𝑟𝑧𝑜”.

Una serie di strane cose vengono offerte a una ragazza in 𝐁𝐢𝐤𝐞: “𝑇𝑢 𝑠𝑒𝑖 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑖 𝑎𝑑𝑎𝑡𝑡𝑎 𝑎𝑙 𝑚𝑖𝑜 𝑚𝑜𝑛𝑑𝑜/ 𝑇𝑖 𝑑𝑎𝑟𝑜̀ 𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑠𝑒 𝑙𝑜 𝑣𝑢𝑜𝑖”. Scanditi ritmicamente una serie di oggetti sfilano lungo le strofe con un carico di ironia infantile: “𝑡𝑖 𝑑𝑎𝑟𝑒𝑖 𝑢𝑛𝑎 𝑏𝑖𝑐𝑖𝑐𝑙𝑒𝑡𝑡𝑎 𝑠𝑒 𝑙𝑎 𝑑𝑒𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟𝑎𝑠𝑠𝑖 𝑚𝑎 𝑙’ℎ𝑜 𝑎𝑣𝑢𝑡𝑎 𝑖𝑛 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑡𝑖𝑡𝑜”; si offre un mantello bucato, un vecchio topo, omini di pan di zenzero, fino all’invito in una stanza di melodie meccaniche, di carillon probabilmente. L’accompagnamento tace, poi inizia il rumore di una serie di meccanismi rotti, giocattoli impazziti, suoni di campanelle, carillon senza melodia; una sorta di sberleffo come potrebbe emettere un joker maligno, uno di quei clown che saltano fuori da una scatola sospinti da una molla, porta a conclusione il brano.

I Pink Floyd chiudono il disco con una sorta di sberleffo, 𝐓𝐡𝐞 𝐆𝐧𝐨𝐦𝐞 Syd Barrett qui inizia e qui finisce la sua avventura su disco con la band che ha contribuito a fondare e a cui ha conferito una forte impronta. La sua salute mentale già precaria ha fatto il salto definitivo con l’uso di allucinogeni e chissà che altro, portandolo poco alla volta in mondi sempre irraggiungibili. “𝐿𝑜 𝑔𝑛𝑜𝑚𝑜 𝐺𝑟𝑖𝑚𝑏𝑙𝑒 𝐺𝑟𝑜𝑚𝑏𝑙𝑒” che veste una una tunica rossa, un cappuccio verde-blu, che beve vino, mangia e attende. Dice in tono sussurrato: “𝐺𝑢𝑎𝑟𝑑𝑎 𝑖𝑙 𝑐𝑖𝑒𝑙𝑜, 𝑔𝑢𝑎𝑟𝑑𝑎 𝑖𝑙 𝑓𝑖𝑢𝑚𝑒/𝑁𝑜𝑛 𝑒̀ 𝑏𝑒𝑙𝑙𝑜?” Un altro giorno, un altro modo per lo gnomo per dire: “𝑂𝑜ℎ 𝑚𝑦, 𝑂𝑜ℎ 𝑚𝑦...” Esclamazione inglese che lascia trasparire umori opposti: forse tristezza forse meraviglia, più probabilmente entrambe le cose.

P.S. Il Pifferaio ai cancelli dell’alba ci ha indotti a seguirlo, come hanno fatto i bambini della fiaba, rapiti dalla sua melodia. 


articolo e foto di 2021 © Roberto Gaudenzi - 26 febbraio 2021

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𝐒𝐏𝐀𝐂𝐄 𝐑𝐎𝐂𝐊


𝐿𝑒𝑓𝑡 𝑡ℎ𝑒 𝑒𝑎𝑟𝑡ℎ 𝑖𝑛 1983,
𝑓𝑖𝑛𝑔𝑒𝑟𝑠 𝑔𝑟𝑜𝑝𝑖𝑛𝑔 𝑓𝑜𝑟 𝑡ℎ𝑒 𝑔𝑎𝑙𝑎𝑥𝑖𝑒𝑠,
𝑟𝑒𝑑𝑑𝑒𝑛𝑒𝑑 𝑒𝑦𝑒𝑠 𝑠𝑡𝑎𝑟𝑒𝑑 𝑢𝑝 𝑖𝑛𝑡𝑜 𝑡ℎ𝑒 𝑣𝑜𝑖𝑑,
1000 𝑠𝑡𝑎𝑟𝑠 𝑡𝑜 𝑏𝑒 𝑒𝑥𝑝𝑙𝑜𝑖𝑡𝑒𝑑
𝑆𝑜𝑚𝑒𝑏𝑜𝑑𝑦 ℎ𝑒𝑙𝑝 𝑚𝑒
𝐼'𝑚 𝑓𝑎𝑙𝑙𝑖𝑛𝑔, 𝑠𝑜𝑚𝑒𝑏𝑜𝑑𝑦 ℎ𝑒𝑙𝑝 𝑚𝑒,
𝐼'𝑚 𝑓𝑎𝑙𝑙𝑖𝑛𝑔 𝑑𝑜𝑤𝑛
(𝑃𝑖𝑜𝑛𝑒𝑒𝑟 𝑂𝑣𝑒𝑟 𝐶)

In questi anni in cui lo spazio sembra essere a portata di mano, in cui miliardari visionari progettano viaggi interplanetari per fondare basi marziane come avamposto pionieristico di futuri insediamenti, ho pensato a chi tra i primi, nell’ ambito della musica che ci interessa, ai viaggi spaziali ha dato voce.

Così penso a 𝐃𝐚𝐯𝐢𝐝 𝐁𝐨𝐰𝐢𝐞 e a 𝐒𝐩𝐚𝐜𝐞 𝐎𝐝𝐝𝐢𝐭𝐲, dove lo spazio è pericolo di abbandono, è una fuga colma di malinconia. “𝑀𝑎𝑗𝑜𝑟 𝑇𝑜𝑚” si perde negli spazi infiniti, vede la Terra allontanarsi e l’ultimo pensiero va alla moglie: uno struggente epilogo per una missione che avrebbe dovuto essere liberatoria, esempio della capacità umana di conquista. Ma la conquista del cosmo è avventura in un mondo alieno, ostile, che ci pone di fronte alla nostra fragilità: nati dal cosmo non possiamo ritornarci senza correre gravi pericoli, senza rischiare di soccombere.
𝐒𝐭𝐚𝐫 𝐌𝐚𝐧 sempre del 𝐃𝐮𝐜𝐚 𝐁𝐢𝐚𝐧𝐜𝐨, dove un alieno ci guarda dall’orbita terrestre restando nascosto ai nostri occhi per non “𝑑𝑖𝑠𝑡𝑟𝑢𝑔𝑔𝑒𝑟𝑒 𝑙𝑒 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑒 𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖” , mostra lo spazio extra atmosfera come qualcosa di pericoloso ed estraneo, che si intromette in una stazione radio che trasmette rock and roll, lo si vuole scorgere come una luce nel cielo ma ha il sopravvento la paura dell’altro da sé, il timore dell’ignoto.

In Germania, all’epoca Germania Ovest, prendeva corpo una corrente musicale che venne definita 𝐊𝐨𝐬𝐦𝐢𝐜𝐡𝐞 𝐌𝐮𝐬𝐢𝐤 , musica cosmica. Non tutti i gruppi e musicisti di questa corrente, meglio conosciuta come 𝐊𝐫𝐚𝐮𝐭𝐫𝐨𝐜𝐤 (termine per altro discutibile ma efficace che si appoggia su un luogo comune che identifica una nazione, un po’ come “Spaghetti Western” che definisce il genere cinematografico omonimo di casa nostra), avevano come tematica lo Spazio. I 𝐓𝐚𝐧𝐠𝐞𝐫𝐢𝐧𝐞 𝐃𝐫𝐞𝐚𝐦 rientravano comunque in questo ambito e penso al loro secondo album 𝐀𝐥𝐩𝐡𝐚 𝐂𝐞𝐧𝐭𝐚𝐮𝐫𝐢 che già nel titolo richiama la stella più prossima a noi, Sole a parte ovviamente, guarda oltre l’atmosfera terrestre con occhio e orecchio rarefatto. L’Universo per la sua estensione è la frontiera irraggiungibile dove la musica si sfalda ed esce dai propri confini melodici. La ricerca di nuove frontiere sonore trova nello spazio intergalattico la ragione del proprio essere, libera dalle costrizioni che ci ancorano alla superficie del pianeta si slancia oltre il conosciuto. 𝐅𝐥𝐲 𝐚𝐧𝐝 𝐂𝐨𝐥𝐥𝐢𝐬𝐢𝐨𝐧 𝐨𝐟 𝐂𝐨𝐦𝐚𝐬 𝐒𝐨𝐥𝐚 deve molto a chi ha aperto questa strada, intendo i 𝐏𝐢𝐧𝐤 𝐅𝐥𝐨𝐲𝐝 più psichedelici, quelli di 𝐀𝐬𝐭𝐫𝐨𝐧𝐨𝐦𝐲 𝐃𝐨𝐦𝐢𝐧𝐞, di 𝐈𝐧𝐭𝐞𝐫𝐬𝐭𝐞𝐥𝐥𝐚𝐫 𝐎𝐯𝐞𝐫𝐝𝐫𝐢𝐯𝐞, di 𝐄𝐜𝐡𝐨𝐞𝐬, di 𝐀 𝐒𝐚𝐮𝐜𝐞𝐫𝐟𝐮𝐥 𝐨𝐟 𝐒𝐞𝐜𝐫𝐞𝐭𝐬 soprattutto.

La psichedelia aveva in fondo come orizzonte un’assenza di limiti e perciò stesso una mancanza di orizzonte, un traguardo da non raggiungere e se l’orizzonte è un limite diventa un limite mobile, che avanza in continuazione, si sposta, cessa di essere quello che è, si dissolve. L’apparente mancanza di struttura denota un’assenza di traguardo. Composizioni che potrebbero proseguire per un tempo indefinito, esaurirsi con l’esaurimento di chi suona. Il limite è quello fisico del supporto-disco, è il limite dell’attenzione.
Se Bowie nei due brani citati all’inizio, strutturati nella forma canzone, esprime l’angoscia e la tristezza del 𝑀𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜𝑟𝑒 𝑇𝑜𝑚 che per un difetto tecnico si perde nello spazio; lo smarrimento e il terrore per la presenza dell’𝑼𝒐𝒎𝒐 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒆 𝑺𝒕𝒆𝒍𝒍𝒆 cerca di mitigarsi in un motivo dai versi zoppicanti e la melodia quasi scanzonata, nei 𝐂𝐨𝐫𝐫𝐢𝐞𝐫𝐢 𝐂𝐨𝐬𝐦𝐢𝐜𝐢 altra definizione di parte del rock teutonico) e prima di loro nei Pink Floyd troviamo lo stupore, il mistero, la fascinazione. In Bowie l’evento è subìto, fino all’ultima tragica 𝐁𝐥𝐚𝐜𝐤𝐬𝐭𝐚𝐫 , negli altri è cercato, voluto, sperato.
Penso anche a 𝐏𝐚𝐮𝐥 𝐊𝐚𝐧𝐭𝐧𝐞𝐫 e al fantascientifico 𝐁𝐥𝐨𝐰𝐬 𝐀𝐠𝐚𝐢𝐧𝐬𝐭 𝐭𝐡𝐞 𝐄𝐦𝐩𝐢𝐫𝐞di cui si è parlato in questa rubrica or non è molto. Anche qui la forma è strutturata melodicamente ma la narrazione si riferisce a uno scopo: la fuga organizzata dalla Terra.
I 𝐕𝐚𝐧 𝐃𝐞𝐫 𝐆𝐫𝐚𝐚𝐟 𝐆𝐞𝐧𝐞𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫 e il genio di 𝐏𝐞𝐭𝐞𝐫 𝐇𝐚𝐦𝐦𝐢𝐥 direi arrivano a compendiare le diverse sfumature di umore che abbiamo qui tracciato. Dal loro terzo album 𝐇 𝐓𝐨 𝐇𝐞 𝐖𝐡𝐨 𝐀𝐦 𝐭𝐡𝐞 𝐎𝐧𝐥𝐲 𝐎𝐧𝐞 titolo che richiama gli elementi più semplici in natura, idrogeno e elio, 𝐏𝐢𝐨𝐧𝐞𝐞𝐫𝐬 𝐎𝐯𝐞𝐫 𝐂, il brano che chiude il disco, è una filosofica saga spaziale. “Lasciammo la Terra nel 1983”, anticipando di un anno il titolo del capolavoro di Orwell, questi pionieri viaggiano nel cosmo oltre la velocità della luce (over c) “𝑑𝑖𝑡𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑏𝑟𝑎𝑛𝑐𝑜𝑙𝑎𝑛𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑙𝑒 𝑔𝑎𝑙𝑎𝑠𝑠𝑖𝑒...𝑚𝑖𝑙𝑙𝑒 𝑠𝑡𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑑𝑎 𝑠𝑓𝑟𝑢𝑡𝑡𝑎𝑟𝑒”. Qui siamo in un futuro tecnologico, si viaggia alla velocità luce ma l’angoscia del vuoto, dello sconfinato rimane. "𝑄𝑢𝑎𝑙𝑐𝑢𝑛𝑜 𝑚𝑖 𝑎𝑖𝑢𝑡𝑖 𝑠𝑡𝑜 𝑐𝑎𝑑𝑒𝑛𝑑𝑜" : non si cade nello spazio, si può solo fluttuare, non esiste un sopra e un sotto, siamo nei meandri della mente: non esiste nessuna sicurezza, anche la dimensione temporale viene perduta, “𝑆𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑖 𝑝𝑒𝑟 𝑐𝑢𝑖 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑟𝑢𝑖𝑟𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑢𝑎 𝑑𝑖𝑒𝑐𝑖 𝑠𝑒𝑐𝑜𝑙𝑖 𝑓𝑎, 𝑜 𝑓𝑜𝑟𝑠𝑒 𝑠𝑎𝑟𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑞𝑢𝑖𝑛𝑑𝑖𝑐𝑖 𝑎𝑣𝑎𝑛𝑡𝑖” declama Hammil senza accompagnamento, una voce solitaria persa nel vuoto. Il computo del tempo è errato e in fondo irrilevante, la musica tace dopo che le tastiere hanno dipinto uno sfondo scuro, “𝑁𝑜𝑛 𝑐’𝑒̀ 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑖𝑏𝑖𝑙𝑖𝑡𝑎̀ 𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑣𝑒𝑑𝑒𝑟𝑒 𝑐𝑎𝑠𝑎. 𝐿’𝑈𝑛𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑜 𝑏𝑟𝑢𝑐𝑖𝑎, 𝑒𝑠𝑝𝑙𝑜𝑑𝑒 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑓𝑖𝑎𝑚𝑚𝑎...𝑆𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑖 𝑝𝑖𝑜𝑛𝑖𝑒𝑟𝑖. 𝑆𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑖 𝑝𝑒𝑟𝑑𝑢𝑡𝑖.”

Attraverso cambi di umore, tono, colore, fughe e silenzi si snoda questo pezzo di dodici minuti abbondanti e pone interrogativi: “𝐵𝑒𝑛𝑒, 𝑑𝑜𝑣’𝑒̀ 𝑖𝑙 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜 𝑒 𝑐ℎ𝑖 𝑑𝑖𝑎𝑣𝑜𝑙𝑜 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑖𝑜? 𝐹𝑙𝑢𝑡𝑡𝑢𝑜 𝑞𝑢𝑖 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑚𝑒𝑡𝑎. 𝑁𝑒𝑠𝑠𝑢𝑛𝑜 𝑠𝑎 𝑑𝑜𝑣𝑒 𝑠𝑖𝑎𝑚𝑜, 𝑝𝑟𝑒𝑐𝑖𝑠𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑠𝑒𝑛𝑡𝑖𝑟𝑐𝑖.” L’uomo estraneo all’universo alieno si domanda “𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑝𝑢𝑜̀ 𝑒𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑢𝑛 𝑙𝑢𝑜𝑔𝑜 𝑑𝑜𝑣𝑒 𝑣𝑖𝑣𝑒𝑟𝑒 𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑜𝑠𝑐𝑒𝑟𝑒 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒, 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑖𝑛𝑎𝑢𝑑𝑖𝑡𝑖?” Si trova ad avere una mente senza limiti “𝑇𝑜𝑢𝑐ℎ 𝑤𝑖𝑡ℎ 𝑚𝑦 𝑚𝑖𝑛𝑑, 𝑖 ℎ𝑎𝑣𝑒 𝑛𝑜 𝑓𝑟𝑎𝑚𝑒” la ragione fondamentale dello smarrimento è in ultima analisi la mancanza di confini. L’accenno ai sensi: l’udito, il tocco, la vista è un recupero disperato della dimensione umana che si annulla nella presa d’atto di essere “𝑐𝑜𝑛𝑑𝑎𝑛𝑛𝑎𝑡𝑜 𝑎 𝑠𝑣𝑎𝑛𝑖𝑟𝑒 𝑖𝑛 𝑢𝑛𝑎 𝑚𝑜𝑟𝑡𝑒 𝑣𝑖𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒, 𝑎𝑛𝑡𝑖𝑚𝑎𝑡𝑒𝑟𝑖𝑎 𝑣𝑖𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑎𝑛𝑡𝑖-𝑟𝑒𝑠𝑝𝑖𝑟𝑜”, ossimori che azzerano ogni possibilità di essere.
Diverse parti del brano fanno riferimento al tempo, alla misura umana per eccellenza e quindi laddove il tempo non è più computabile, dove l’essere si confonde nel suo contrario, viene meno la stessa dimensione umana e infatti tutto conduce alla dissoluzione: “𝑆𝑜𝑛𝑜 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑒̀ 𝑎𝑛𝑑𝑎𝑡𝑜 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑠𝑝𝑎𝑧𝑖𝑜, 𝑜 𝑓𝑜𝑟𝑠𝑒 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑟𝑖𝑚𝑎𝑠𝑡𝑜 𝑑𝑜𝑣’𝑒𝑟𝑜 𝑜 𝑛𝑜𝑛 𝑒𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑣𝑜 𝑑𝑎𝑙𝑙’𝑖𝑛𝑖𝑧𝑖𝑜...” La chiusa è affidata ai puntini di sospensione, lascia l’interrogativo in espansione come l’universo stesso, diventa un confine-non confine che si allontana indefinitamente.

𝐓𝐡𝐢𝐫𝐝 𝐒𝐭𝐨𝐧𝐞 𝐅𝐫𝐨𝐦 𝐭𝐡𝐞 𝐒𝐮𝐧 di 𝐉𝐢𝐦𝐢 𝐇𝐞𝐧𝐝𝐫𝐢𝐱: su un giro di basso ostinato e un convulso lavoro di batteria si sovrappone un recitato a basso regime di giri. La Terra, la terza pietra dal Sole, è osservata da esseri alieni in orbita e in comunicazione con una flotta extraterrestre. Il cupo incedere del basso si addolcisce nel tema che anticipa la meraviglia che pervade l’occhio alieno: "𝑆𝑡𝑟𝑎𝑛𝑎 𝑏𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑒𝑟𝑏𝑎 𝑣𝑒𝑟𝑑𝑒. 𝐶𝑜𝑛 𝑖 𝑡𝑢𝑜𝑖 𝑚𝑎𝑒𝑠𝑡𝑜𝑠𝑖 𝑚𝑎𝑟𝑖 𝑑’𝑎𝑟𝑔𝑒𝑛𝑡𝑜. 𝐷𝑒𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟𝑜 𝑣𝑒𝑑𝑒𝑟𝑒 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑑𝑎 𝑣𝑖𝑐𝑖𝑛𝑜 𝑙𝑒 𝑡𝑢𝑒 𝑚𝑜𝑛𝑡𝑎𝑔𝑛𝑒 𝑚𝑖𝑠𝑡𝑒𝑟𝑖𝑜𝑠𝑒". Ma subito dopo la meraviglia per questo mondo si guasta, torna l’ostinato giro di basso, la chitarra lancia suoni stridenti, al suono “𝑑𝑒𝑔𝑙𝑖 𝑖𝑛𝑢𝑡𝑖𝑙𝑖, 𝑖𝑛𝑐𝑜𝑚𝑝𝑟𝑒𝑛𝑠𝑖𝑏𝑖𝑙𝑖 𝑠𝑐ℎ𝑖𝑎𝑚𝑎𝑧𝑧𝑖 𝑢𝑚𝑎𝑛𝑖” e l’alieno decidere di mettervi fine. Torna il tema denso di vibrazioni e si spegne in suoni cupi, sibili, rumori come di esplosioni lontane che sembrano imitare lo sferragliare di un treno. Il terzo pianeta dal Sole viene annientato da un invasore venuto da chissà dove e noi conosciamo solo il suo punto di vista, siamo forse noi stessi alieni capaci di distruzione.


articolo e foto di 2021 © Roberto Gaudenzi - 19 febbraio 2021

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𝐒𝐓𝐑𝐀𝐍𝐆𝐄 𝐃𝐀𝐘𝐒
𝐓𝐡𝐞 𝐃𝐨𝐨𝐫𝐬 - (𝟏𝟗𝟔𝟕)


𝑆𝑡𝑟𝑎𝑛𝑔𝑒 𝑑𝑎𝑦𝑠 ℎ𝑎𝑣𝑒 𝑓𝑜𝑢𝑛𝑑 𝑢𝑠
𝐴𝑛𝑑 𝑡ℎ𝑟𝑜𝑢𝑔ℎ 𝑡ℎ𝑒𝑖𝑟 𝑠𝑡𝑟𝑎𝑛𝑔𝑒 ℎ𝑜𝑢𝑟𝑠
𝑊𝑒 𝑙𝑖𝑛𝑔𝑒𝑟 𝑎𝑙𝑜𝑛𝑒
𝐵𝑜𝑑𝑖𝑒𝑠 𝑐𝑜𝑛𝑓𝑢𝑠𝑒𝑑
𝑀𝑒𝑚𝑜𝑟𝑖𝑒𝑠 𝑚𝑖𝑠𝑢𝑠𝑒𝑑
𝐴𝑠 𝑤𝑒 𝑟𝑢𝑛 𝑓𝑟𝑜𝑚 𝑡ℎ𝑒 𝑑𝑎𝑦
𝑇𝑜 𝑎 𝑠𝑡𝑟𝑎𝑛𝑔𝑒 𝑛𝑖𝑔ℎ𝑡 𝑜𝑓 𝑠𝑡𝑜𝑛𝑒
(𝑆𝑡𝑟𝑎𝑛𝑔𝑒 𝐷𝑎𝑦𝑠)

A non molti mesi dall’uscita del primo album, 𝐉𝐢𝐦 𝐌𝐨𝐫𝐫𝐢𝐬𝐨𝐧, voce; 𝐑𝐚𝐲 𝐌𝐚𝐧𝐳𝐚𝐫𝐞𝐤 , tastiere; 𝐑𝐨𝐛𝐛𝐲 𝐊𝐫𝐢𝐞𝐠𝐞𝐫, chitarra; 𝐉𝐨𝐡𝐧 𝐃𝐞𝐧𝐬𝐦𝐨𝐫𝐞 , batteria, 𝐭𝐡𝐞 𝐃𝐨𝐨𝐫𝐬, 𝐨𝐩𝐞𝐧 𝐚𝐧𝐝 𝐜𝐥𝐨𝐬𝐞𝐝, come avrebbero dovuto inizialmente chiamarsi, riferendosi ad un arco di possibilità dovute alla volontà di chi era disposto a varcarle, uscirono con il loro secondo album il cui titolo bene si adatta a questi nostri tempi tribolati 𝐒𝐭𝐫𝐚𝐧𝐠𝐞 𝐃𝐚𝐲𝐬.

𝐺𝑖𝑜𝑟𝑛𝑖 𝑠𝑡𝑟𝑎𝑛𝑖 𝑐𝑖 ℎ𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑟𝑖𝑛𝑡𝑟𝑎𝑐𝑐𝑖𝑎𝑡𝑜...𝑐𝑒𝑟𝑐𝑎𝑛𝑜 𝑑𝑖 𝑑𝑖𝑠𝑡𝑟𝑢𝑔𝑔𝑒𝑟𝑒 𝑙𝑒 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑒 𝑐𝑎𝑠𝑢𝑎𝑙𝑖 𝑓𝑒𝑙𝑖𝑐𝑖𝑡𝑎̀: 𝑑𝑜𝑣𝑟𝑒𝑚𝑜 𝑠𝑡𝑎𝑟𝑒 𝑎𝑙 𝑔𝑖𝑜𝑐𝑜 𝑜𝑝𝑝𝑢𝑟𝑒 𝑐𝑎𝑚𝑏𝑖𝑎𝑟𝑒 𝑐𝑖𝑡𝑡𝑎̀.” Certo non ad una pandemia pensavano i Doors all’epoca, siamo nel ’67 e nei loro pensieri c’era un’epoca di festa e di libertà nuova. Ma come tutti i classici anche un classico del Rock va oltre il significato immediato e lo si rilegge con occhi diversi.

Impacchettato in una copertina che vede una squadra di saltimbanchi pubblicizzare se stessi lungo una via, i titolari del disco si notano in un manifesto affisso al muro sotto al braccio del sollevatore di pesi e il titolo del disco attaccato di traverso al manifesto. I Doors sembrano volersi proporre come artisti da circo: la forza bruta in primo piano e a scalare un giocoliere con il volto dipinto da una maschera bianca che si destreggia con palline rosse manifestando la sua arte fatta di insicurezza e di attenzione concentrata; poi un acrobata in orizzontale sulle braccia stese di un collega che racchiude in sé le capacità dei primi due: forza e equilibrio; un suonatore di tromba, l’armonia che collega le altre due qualità. Davanti a tutti un bambino o più probabilmente un nano sorridente che fa da apri pista, da imbonitore. Artisti di strada con tinte smorte che comunicano una certa qual malinconica atmosfera.

Giorni strani che Morrison sussurra su quel tappeto musicale che le “Porte” hanno saputo creare in modo inconfondibile tanto che forse sono tra le band che non hanno influenzato nessuno essendo il loro “tocco” tale per cui si rischia di cadere nella copiatura.
“𝐺𝑖𝑜𝑟𝑛𝑖 𝑠𝑡𝑟𝑎𝑛𝑖 𝑐𝑖 ℎ𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑖𝑛𝑡𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑙𝑎𝑡𝑜 𝑒 𝑎𝑡𝑡𝑟𝑎𝑣𝑒𝑟𝑠𝑜 𝑙𝑒 𝑙𝑜𝑟𝑜 𝑠𝑡𝑟𝑎𝑛𝑒 𝑜𝑟𝑒 𝑐𝑖 𝑠𝑜𝑓𝑓𝑒𝑟𝑚𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑠𝑜𝑙𝑖𝑡𝑎𝑟𝑖”.

La musica dei Doors sembra leggera, cristallina per molti versi ma ci respiri un’aria inquieta, smarrita. “𝑆𝑒𝑖 𝑝𝑒𝑟𝑑𝑢𝑡𝑎 𝑟𝑎𝑔𝑎𝑧𝑧𝑖𝑛𝑎 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑡𝑢 𝑠𝑎𝑝𝑝𝑖𝑎 𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑓𝑎𝑟𝑒 𝑠𝑒𝑚𝑏𝑟𝑎 𝑖𝑚𝑝𝑜𝑠𝑠𝑖𝑏𝑖𝑙𝑒, 𝑙𝑜 𝑠𝑜 𝑚𝑎 𝑒̀ 𝑙’𝑢𝑛𝑖𝑐𝑎 𝑚𝑎𝑛𝑖𝑒𝑟𝑎”. Si racchiude un mistero nel non detto della canzone e in queste tre frasi si riassume il testo sempre cantato con un tono dolente. Il colore delle note sembra voler addolcire il dramma, ci riesce e ne costituisce l’equilibrio misterioso che fa dei Doors un amalgama unico che coniuga leggerezza e oserei dire tragedia.
𝐿𝑎 𝑔𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑒̀ 𝑠𝑡𝑟𝑎𝑛𝑎 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑠𝑒𝑖 𝑠𝑡𝑟𝑎𝑛𝑖𝑒𝑟𝑜. 𝐼 𝑣𝑜𝑙𝑡𝑖 𝑒𝑠𝑐𝑜𝑛𝑜 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑖𝑜𝑔𝑔𝑖𝑎 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑠𝑒𝑖 𝑒𝑠𝑡𝑟𝑎𝑛𝑒𝑜. 𝑁𝑒𝑠𝑠𝑢𝑛𝑜 𝑟𝑖𝑐𝑜𝑟𝑑𝑎 𝑖𝑙 𝑡𝑢𝑜 𝑛𝑜𝑚𝑒 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑠𝑒𝑖 𝑠𝑡𝑟𝑎𝑛𝑖𝑒𝑟𝑜.” Altra stranezza di questi nostri anni tribolati sembra compendiata in questo pezzo, stranezza agli occhi miopi di chi non vede i danni che le nostre società hanno causato a intere moltitudini. Introdotta da poche note di chitarra la voce suadente di Morrison ci ricorda la solitudine di chi vaga, e sempre con il loro umore in equilibrio tra leggerezza e dramma i Doors aprono le porte di un altrove racchiuso nella melodia saltellante e in una chitarra che Robby Krieger fa scivolare in note bluesy.

I Doors sanno anche immergerci in atmosfere assolutamente tragiche, 𝐇𝐨𝐫𝐬𝐞 𝐋𝐚𝐭𝐢𝐭𝐮𝐝𝐞𝐬 bandisce per un minuto e mezzo ogni forma melodica, struttura musicale, è un recitato che cresce e si alimenta: cavalli che vengono gettati in acqua e furiosamente cercano di restare a galla per infine annegare. Rumori di bufera, colpi di frusta, musica concreta, vociare in sottofondo e Morrison recita in un crescendo che termina urlando. Su suggestioni di infanzia è rappresentata un’agonia e una furiosa ricerca di ossigeno: ma anche qui sembra che il pezzo si possa adattare con le sue metafore a più tragici annegamenti, e la tragica navigazione possa diventare le traversate di disperati dei nostri tempi.

In questi “strani giorni” si narra di solitudini: 𝐔𝐧𝐡𝐚𝐩𝐩𝐲 𝐆𝐢𝐫𝐥 una sei corde slide accompagna una ragazza chiusa in una prigione che si è costruita: in poco meno di due minuti sbirciamo in un interno dove una ragazza “𝑔𝑖𝑜𝑐𝑎 𝑎 𝑢𝑛 𝑠𝑜𝑙𝑖𝑡𝑎𝑟𝑖𝑜” (verso ambiguo) e “𝑔𝑖𝑜𝑐𝑎 𝑎 𝑓𝑎𝑟𝑒 𝑙𝑎 𝑔𝑢𝑎𝑟𝑑𝑖𝑎𝑛𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑎 𝑎𝑛𝑖𝑚𝑎”.

Giochi di sguardi e sguardi interiori: 𝐌𝐲 𝐞𝐲𝐞𝐬 𝐡𝐚𝐯𝐞 𝐬𝐞𝐞𝐧 𝐲𝐨𝐮 e 𝐈 𝐜𝐚𝐧’𝐭 𝐬𝐞𝐞 𝐲𝐨𝐮𝐫 𝐟𝐚𝐜𝐞 𝐢𝐧 𝐦𝐲 𝐦𝐢𝐧𝐝 giocate su umori diversi. La prima canzone sembra restituire un aspetto voyeuristico: “𝐼 𝑚𝑖𝑒𝑖 𝑜𝑐𝑐ℎ𝑖 𝑡𝑖 ℎ𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑣𝑖𝑠𝑡𝑜 𝑓𝑒𝑟𝑚𝑎 𝑠𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎...𝐼 𝑚𝑖𝑒𝑖 𝑜𝑐𝑐ℎ𝑖 𝑡𝑖 ℎ𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑣𝑖𝑠𝑡𝑜 𝑣𝑜𝑙𝑡𝑎𝑟𝑡𝑖 𝑎 𝑔𝑢𝑎𝑟𝑑𝑎𝑟𝑒 𝑎𝑔𝑔𝑖𝑢𝑠𝑡𝑎𝑟𝑡𝑖 𝑖 𝑐𝑎𝑝𝑒𝑙𝑙𝑖 𝑠𝑎𝑙𝑖𝑟𝑒 𝑙𝑒 𝑠𝑐𝑎𝑙𝑒”, gesto civettuolo che sa di invito e tuttavia chi guarda non è vicino, "𝐼 𝑚𝑖𝑒𝑖 𝑜𝑐𝑐ℎ𝑖 𝑡𝑖 ℎ𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑣𝑖𝑠𝑡𝑜 𝑙𝑎𝑠𝑐𝑖𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑓𝑜𝑡𝑜𝑔𝑟𝑎𝑓𝑖𝑛𝑜 𝑙𝑎 𝑡𝑢𝑎 𝑎𝑛𝑖𝑚𝑎." Viene in mente quel capolavoro del cinema che è 𝑳𝒂 𝒇𝒊𝒏𝒆𝒔𝒕𝒓𝒂 𝒔𝒖𝒍 𝒄𝒐𝒓𝒕𝒊𝒍𝒆 dove lo sguardo è tutto ed il carattere dei personaggi viene appunto “fotografato”, e non ricorda anche questi strani giorni di chiusura forzata che ci hanno visto alla finestra?

La seconda canzone dal tono dolente, costruita su uno stillicidio di note e una slide, silenzi, e un tappeto di tastiere, sembra contraddire la precedente: qui lo sguardo non riporta un volto alla memoria, così come la precedente è proiettata verso l’esterno qui lo sguardo si rovescia e dichiara la propria impotenza. Ci sono animali dalle strane caratteristiche “𝐶𝑎𝑛𝑖 𝑐𝑎𝑟𝑛𝑒𝑣𝑎𝑙𝑒𝑠𝑐ℎ𝑖” che “𝑐𝑜𝑛𝑠𝑢𝑚𝑎𝑛𝑜 𝑖 𝑙𝑖𝑛𝑒𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖” e un “𝐶𝑎𝑣𝑎𝑙𝑙𝑜 𝑝𝑎𝑧𝑧𝑜” che “𝐴𝑑𝑜𝑟𝑛𝑎 𝑖𝑙 𝑐𝑖𝑒𝑙𝑜”.

𝐋𝐨𝐯𝐞 𝐦𝐞 𝐭𝐰𝐨 𝐭𝐢𝐦𝐞𝐬 𝐞e𝐌𝐨𝐨𝐧𝐥𝐢𝐠𝐡𝐭 𝐝𝐫𝐢𝐯𝐞 sono i brani dove si consuma un’urgenza, un’amore rubato prima di fuggire al chiaro di luna.

Ma in questi strani giorni “𝑊ℎ𝑒𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑚𝑢𝑠𝑖𝑐’𝑠 𝑜𝑣𝑒𝑟 𝑡𝑢𝑟𝑛 𝑜𝑢𝑡 𝑡ℎ𝑒 𝑙𝑖𝑔ℎ𝑡𝑠”. 𝐖𝐡𝐞𝐧 𝐭𝐡𝐞 𝐌𝐮𝐬𝐢𝐜’𝐬 𝐎𝐯𝐞𝐫 quando la musica è finita, spegni le luci: la frase udita da un barista prima della chiusura del locale, diventa il tema portante del mini poema che i Doors e Morrison in particolare hanno messo in scena. Un brano di 10 minuti dove la musica diventa “𝑙’𝑢𝑛𝑖𝑐𝑎 𝑎𝑚𝑖𝑐𝑎 𝑓𝑖𝑛𝑜 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑓𝑖𝑛𝑒” una sorta di recupero alla vita dopo il verso finale del brano che chiude 𝐓𝐡𝐞 𝐄𝐧𝐝, l’altro canto alla disperazione che chiudeva l’album di esordio.

Qui il clima diventa drammatico, i Doors spengono la leggerezza che li contraddistingue, tragica leggerezza la definirei, per introdurci attraverso accordi dal ritmo spezzato che accentuano la tensione e un urlo liberatorio in un clima apparentemente più disteso; dopo la strofa la chitarra diventa lancinante, lame che si incidono in un tempo convulso, finché tutto sembra tornare in una calma apparente che accompagna il canto recitato di Morrison che declama su una musica minimale che sottolinea, rumoreggia, suggerisce il prossimo esplodere di una forza, si smorza fin quasi ad un sussurro. E qui, in questi strani giorni, i Doors già lanciano un appello che ora più che mai è attuale: “𝐶𝑜𝑠𝑎 ℎ𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑓𝑎𝑡𝑡𝑜 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑇𝑒𝑟𝑟𝑎? 𝐶𝑜𝑠𝑎 ℎ𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑓𝑎𝑡𝑡𝑜 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑎 𝑠𝑜𝑟𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑔𝑒𝑛𝑡𝑖𝑙𝑒? 𝐷𝑒𝑣𝑎𝑠𝑡𝑎𝑡𝑎 𝑒 𝑠𝑎𝑐𝑐ℎ𝑒𝑔𝑔𝑖𝑎𝑡𝑎. 𝐿’ℎ𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑟𝑖𝑑𝑜𝑡𝑡𝑎 𝑎 𝑏𝑟𝑎𝑛𝑑𝑒𝑙𝑙𝑖. 𝐸 𝑚𝑜𝑟𝑠𝑎. 𝑇𝑟𝑎𝑓𝑖𝑡𝑡𝑎 𝑐𝑜𝑛 𝑐𝑜𝑙𝑡𝑒𝑙𝑙𝑖 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙’𝑎𝑙𝑏𝑎. 𝐸 𝑙𝑒𝑔𝑎𝑡𝑎 𝑐𝑜𝑛 𝑠𝑡𝑒𝑐𝑐𝑎𝑡𝑖. 𝐸 𝑡𝑟𝑎𝑠𝑐𝑖𝑛𝑎𝑡𝑎 𝑔𝑖𝑢̀”. Questo detto con “𝐿’𝑜𝑟𝑒𝑐𝑐ℎ𝑖𝑜 𝑎𝑝𝑝𝑜𝑔𝑔𝑖𝑎𝑡𝑜 𝑎𝑙 𝑠𝑢𝑜𝑙𝑜”, sistema tipico dei nativi americani per ascoltare l’avvicinarsi di qualcuno, nativi con cui Morrison si identificava, popolazioni maltrattate, decimate, ridotte nelle riserve. Una distruzione che si avvicina "𝐼 ℎ𝑒𝑎𝑟 𝑎 𝑣𝑒𝑟𝑦 𝑔𝑒𝑛𝑡𝑙𝑒 𝑠𝑜𝑢𝑛𝑑", un suono ironicamente gentile. Si offre una soluzione, dapprima detta sotto tono, con timidezza, “𝑉𝑜𝑔𝑙𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑖𝑙 𝑚𝑜𝑛𝑑𝑜 𝑒 𝑙𝑜 𝑣𝑜𝑔𝑙𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑜𝑟𝑎!”. Quell’ “𝑜𝑟𝑎” è sussurrato, poi detto in forma interrogativa, infine urlato. Forse è una richiesta ingenua, ma si deve pretendere molto per ottenere qualcosa. La musica si fa caos, urla, è un informe calderone di rabbia e singhiozzi, è già un grido ecologico e se in principio i Doors-Morrison esigevano che venisse “𝑐𝑎𝑛𝑐𝑒𝑙𝑙𝑎𝑡𝑎 𝑙𝑎 𝑠𝑜𝑡𝑡𝑜𝑠𝑐𝑟𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑟𝑒𝑠𝑢𝑟𝑟𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒”, ora si invoca Gesù che apra una strada verso la salvezza. L’urlo non è religioso è una voce che si perde nelle distanze e che vorrebbe vedere la luce. Il ritorno del tema e della strofa iniziale, chiude il cerchio e si conclude con la parola The End come nel brano omonimo del disco precedente.

Questo excursus con un occhio al presente, non esaurisce di certo la lettura dei Doors-Morrison ma resta un fatto degno di nota che l’album che succederà a questo 𝐒𝐭𝐫𝐚𝐧𝐠𝐞 𝐃𝐚𝐲𝐬 avrà come titolo 𝐖𝐚𝐢𝐭𝐢𝐧𝐠 𝐟𝐨𝐫 𝐭𝐡𝐞 𝐒𝐮𝐧. Anche noi tutti siamo in attesa del sole che riscaldi e metta fine a questi giorni strani.
 


articolo e foto di 2021 © Roberto Gaudenzi - 12 febbraio 2021

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𝐁𝐀𝐍𝐂𝐎 𝐃𝐄𝐋 𝐌𝐔𝐓𝐔𝐎 𝐒𝐎𝐂𝐂𝐎𝐑𝐒𝐎
𝐁𝐚𝐧𝐜𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐌𝐮𝐭𝐮𝐨 𝐒𝐨𝐜𝐜𝐨𝐫𝐬𝐨 - 𝟏𝟗𝟕𝟐


𝐿𝑎𝑠𝑐𝑖𝑎 𝑙𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑙𝑒 𝑏𝑟𝑖𝑔𝑙𝑖𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑡𝑢𝑜 𝑖𝑝𝑝𝑜𝑔𝑟𝑖𝑓𝑜,
𝑜 𝐴𝑠𝑡𝑜𝑙𝑓𝑜, 𝑒 𝑠𝑓𝑟𝑒𝑛𝑎 𝑖𝑙 𝑡𝑢𝑜 𝑣𝑜𝑙𝑜 𝑑𝑜𝑣𝑒 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑓𝑒𝑟𝑣𝑒 𝑙'𝑜𝑝𝑒𝑟𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙'𝑢𝑜𝑚𝑜.
𝑃𝑒𝑟𝑜̀ 𝑛𝑜𝑛 𝑖𝑛𝑔𝑎𝑛𝑛𝑎𝑟𝑚𝑖 𝑐𝑜𝑛 𝑓𝑎𝑙𝑠𝑒 𝑖𝑚𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑖
𝑚𝑎 𝑙𝑎𝑠𝑐𝑖𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑖𝑜 𝑣𝑒𝑑𝑎 𝑙𝑎 𝑣𝑒𝑟𝑖𝑡𝑎̀
𝑒 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑎 𝑝𝑜𝑖 𝑡𝑜𝑐𝑐𝑎𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑔𝑖𝑢𝑠𝑡𝑜.

𝐷𝑎 𝑞𝑢𝑖, 𝑚𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒,
𝑠𝑖 𝑑𝑜𝑚𝑖𝑛𝑎 𝑙𝑎 𝑣𝑎𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑖𝑜̀ 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑖 𝑣𝑒𝑑𝑒, 𝑒̀.
𝑀𝑎 𝑠𝑒 𝑙'𝑖𝑚𝑎𝑔𝑜 𝑒̀ 𝑠𝑐𝑎𝑟𝑛𝑜 𝑎𝑙 𝑣𝑜𝑠𝑡𝑟𝑜 𝑜𝑐𝑐ℎ𝑖𝑜
𝑠𝑐𝑒𝑛𝑑𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑎 𝑟𝑖𝑚𝑖𝑟𝑎𝑟𝑙𝑜 𝑑𝑎 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑖𝑛 𝑏𝑎𝑠𝑠𝑜
𝑒 𝑝𝑙𝑎𝑛𝑒𝑟𝑒𝑚𝑜 𝑖𝑛 𝑢𝑛 𝑔𝑎𝑙𝑜𝑝𝑝𝑜 𝑎𝑙𝑎𝑡𝑜
𝑒𝑛𝑡𝑟𝑜 𝑖𝑙 𝑐𝑟𝑎𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑜𝑣𝑒 𝑔𝑜𝑟𝑔𝑜𝑔𝑙𝑖𝑎 𝑖𝑙 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜.
(𝐼𝑛 𝑉𝑜𝑙𝑜)

Lo trovavo scartabellando i dischi alla lettera B. Aveva la forma di un salvadanaio. All’epoca si facevano queste cose: ci si spingeva oltre la forma consueta anche per gli involucri dei dischi; alcune copertine non erano quadrate, comunque non la solita “tasca” ben rivestita, le copertine dei dischi si aprivano come album, magari anche in tre sezioni, erano un giornale, un sacchetto per il pane una scatola di sigari.

𝐁 stava per 𝐁𝐚𝐧𝐜𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐌𝐮𝐭𝐮𝐨 𝐒𝐨𝐜𝐜𝐨𝐫𝐬𝐨 e quel disco lo cercavamo perché eravamo rimasti incantati ascoltando alla radio quel tema esile che era l’avvio di 𝐈𝐥 𝐠𝐢𝐚𝐫𝐝𝐢𝐧𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐌𝐚𝐠𝐨, pensiamoci ora: un pezzo di quasi 20 minuti che veniva trasmesso su una rete radiofonica, (ed era la Rai non ne esistevano altre) non per intero, d’accordo, ma era sufficiente per darci un’idea su che cosa avevamo a che fare.

Così con le tasche vuote cercavamo il disco accontentandoci di rigirarci tra le mani quel salvadanaio per riporlo diligentemente nella lettera a cui apparteneva e non sapevamo di contemplare un classico del genere: era un nuovo gruppo che con le orecchie aguzzate oltre Manica shakerava 𝐆𝐞𝐧𝐞𝐬𝐢𝐬, 𝐄𝐦𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧 𝐋𝐚𝐤𝐞 & 𝐏𝐚𝐥𝐦𝐞𝐫, 𝐘𝐞𝐬, 𝐆𝐞𝐧𝐭𝐥𝐞 𝐆𝐢𝐚𝐧𝐭 e versava un cocktail dal gusto italiano. Non erano i primi e non i soli ma stava per prendere vita un nuovo genere di Rock maturo che avrebbe avuto come denominazione 𝐏𝐫𝐨𝐠𝐫𝐞𝐬𝐬𝐢𝐯𝐞 e che mi piace definire “contaminato”. Nell’accezione positiva della parola che in sé richiama infezioni e malattie (parola quanto mai attuale) ma che nel Progressive vuole dire invasione di germi buoni, portatori di salute, colture batteriche energizzanti.

Poi quando finalmente il disco ha potuto entrare in nostro possesso, e la puntina ha iniziato a vibrare nei suoi solchi, una nota oscillante che imita una planata ci introduce in una melodia antica e poi sorgono quei versi declamati da 𝐅𝐫𝐚𝐧𝐜𝐞𝐬𝐜𝐨 𝐃𝐢 𝐆𝐢𝐚𝐜𝐨𝐦𝐨 che ho voluto mettere come richiamo introduttivo: e allora, dove siamo? Stupiti ancora voliamo in groppa all’Ippogifo e vediamo Astolfo, e siamo dalle parti dell’Ariosto, un linguaggio fuori tempo e un’immagine finale: “𝑒 𝑝𝑙𝑎𝑛𝑒𝑟𝑒𝑚𝑜 𝑖𝑛 𝑢𝑛 𝑔𝑎𝑙𝑜𝑝𝑝𝑜 𝑎𝑙𝑎𝑡𝑜 𝑒𝑛𝑡𝑟𝑜 𝑖𝑙 𝑐𝑟𝑎𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑜𝑣𝑒 𝑔𝑜𝑟𝑔𝑜𝑔𝑙𝑖𝑎 𝑖𝑙 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜.

Poi 𝐑.𝐈.𝐏. ci porta in un’altra atmosfera, ci aggredisce con un tempo serrato per narrarci di un vecchio soldato che fa della guerra la sua ragione d’essere. Anche qui la visione sembra essere dall’alto, un volo d’uccello, una planata su una desolazione di corpi straziati, “𝑠𝑢 𝑐𝑢𝑚𝑢𝑙𝑖 𝑑𝑖 𝑐𝑎𝑟𝑛𝑖 𝑚𝑜𝑟𝑡𝑒”.
La durezza del testo è addolcita e come stemperata su un soffice assolo jazzato di chitarra. Poi il volo termina e in un’atmosfera più distesa subentra una riflessione con immagini poetiche “𝑂𝑟𝑎 𝑠𝑖 𝑒̀ 𝑠𝑒𝑑𝑢𝑡𝑜 𝑖𝑙 𝑣𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑖𝑙 𝑡𝑢𝑜 𝑠𝑔𝑢𝑎𝑟𝑑𝑜 𝑒̀ 𝑟𝑖𝑚𝑎𝑠𝑡𝑜 𝑎𝑝𝑝𝑒𝑠𝑜 𝑎𝑙 𝑐𝑖𝑒𝑙𝑜” e di macabra fisicità “𝑛𝑒𝑙 𝑝𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑡𝑖 𝑟𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑢𝑛 𝑝𝑢𝑔𝑛𝑎𝑙𝑒” che il pianoforte sottolinea, fino a suggerire l’idea che non solo di conquista di territori si stia parlando ma di qualche tema idealmente più pregnante: “𝑝𝑒𝑟 𝑠𝑝𝑖𝑛𝑔𝑒𝑟𝑡𝑖 𝑎𝑙 𝑑𝑖 𝑙𝑎̀/𝑝𝑒𝑟 𝑠𝑐𝑜𝑝𝑟𝑖𝑟𝑒 𝑐𝑖𝑜̀ 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑜𝑙𝑜 𝐷𝑖𝑜 𝑠𝑎”.

𝐏𝐚𝐬𝐬𝐚𝐠𝐠𝐢𝐨 è un breve intermezzo strumentale che occhieggia un certo modo di rappresentazione uditiva di una situazione (rammento “Alan’s psychedelic Breakfast” dei Pink Floyd di Atom Heart Mother, il Battiato sperimentale di quel periodo): si odono dei passi in avvicinamento, qualcuno si siede e apre uno spartito. Il breve motivo viene suonato su un clavicembalo o una spinetta e canticchiato all’unisono, al termine si sente la tastiera dello strumento che viene chiusa, lo spartito recuperato, i passi che si allontanano e una porta viene sbattuta.

Racchiusa tra due parti di chitarra rockeggianti, la prima parte di 𝐌𝐞𝐭𝐚𝐦𝐨𝐫𝐟𝐨𝐬𝐢 offre variazioni minime alle tastiere su un tema che ora si colora di tinte classiche ora più moderne, offrendo una varietà di timbri quasi come un esercizio che miri a dimostrare come una stessa linea melodica offra diverse possibilità emotive e di significato. E’ un lungo preludio alla seconda parte che sembra anticipare il più maturo album successivo, 𝐃𝐚𝐫𝐰𝐢𝐧, nel titolo e nell’”entità” che parla. Rivolgendosi ad un’umanità che evidentemente è vista dall’esterno (ancora una visione staccata forse in sella all’ippogrifo) un’entità in mutazione dice di non sapere se assomiglia all’” uomo” a cui si rivolge ma di essere sicura di non volersi a lui confondere. Il lungo brano termina con una drammatica accentuazione di accordi come a voler evocare il caos da cui tutto mitologicamente ebbe origine.

Come gocce di rugiada si amalgamano le note che danno consistenza al lieve tema de 𝐈𝐥 𝐠𝐢𝐚𝐫𝐝𝐢𝐧𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐌𝐚𝐠𝐨, comunicano leggerezza ma all’unisono il basso esegue lo stesso giro di note e aggiunge un clima cupo, una differenza di umori che ci fa subito calare in un’aria di fiabesco mistero con gli arpeggi sulle tastiere. Finché un coro vocalizza la melodia del tema cantato introducendoci attraverso un corridoio oltre un’unica porta da cui non è possibile uscire come prima. Siamo nell’universo dei sogni che coincide con la favola, torna modificata l’immagine dell’Ippogrifo che qui è un “𝑐𝑎𝑣𝑎𝑙𝑙𝑜 𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑎 𝑡𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑖𝑛 𝑔𝑖𝑢̀” che galoppa senza far rumore con gli zoccoli di legno che volano sui fiori senza sciuparne i colori. C’è qui un evidente distacco che tutto il disco ha riproposto, un sollevarsi dalla realtà. Forse chi parla è morto, o più probabilmente ha varcato la soglia di un’altra dimensione perché vede la gente cantare al proprio funerale, quindi è vivo in un’altro luogo cercato per anni, faticosamente: Il giardino del mago.
In un cambio di atmosfera improvviso ci troviamo anche noi sperduti in questo giardino dove ci sembra di capire che il protagonista sia caduto per errore: come Alice la piccola eroina di Lewis Carroll, chi narra cade in un posto e se ne sta appeso dentro un quadro nell’aria dove sono crocifissi gli ideali dell’uomo. Il cantato è convulso, concitato, denota un affanno direi lo smarrimento di chi non trova vie d’uscita: “sono finito ormai quaggiù...non posso tornare, resterò” dice mentre un coro lo esorta a lasciare quel posto. Ogni creatura ne Il Giardino del Mago è costretta in un albero cavo al ripetersi di azioni: si direbbe una sorta di girone infernale.
Terminato l’affanno la musica si distende con un bordone di organo e una chitarra che timidamente interviene per ricamare il tema finale raccolto dal pianoforte che con il fluire della mano sinistra sembra voler uscire dal sogno. Il sole è strano, non si fa scuro: "𝐹𝑜𝑟𝑠𝑒 𝑙𝑎 𝑠𝑒𝑟𝑎 𝑛𝑜𝑛 𝑣𝑒𝑟𝑟𝑎̀ 𝑎𝑑 𝑢𝑐𝑐𝑖𝑑𝑒𝑟𝑚𝑖 𝑎𝑛𝑐𝑜𝑟𝑎". Quindi il sogno, il buio è una condizione prossima alla morte.
Un’armonica evanescente è la mente del protagonista che svanisce. “𝐼𝑙 𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑜 𝑎𝑠𝑝𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎̀ 𝑝𝑒𝑟 𝑚𝑒 𝑠𝑖 𝑓𝑒𝑟𝑚𝑒𝑟𝑎̀ 𝑢𝑛 𝑝𝑜’ 𝑑𝑖 𝑝𝑖𝑢̀. 𝑉𝑒𝑑𝑜 𝑔𝑖𝑎̀ 𝑓𝑜𝑔𝑙𝑖𝑒 𝑑𝑖 𝑣𝑒𝑡𝑟𝑜 𝑎𝑙𝑏𝑒𝑟𝑖 𝑒 𝑔𝑛𝑜𝑚𝑖 𝑐𝑜𝑟𝑟𝑒𝑟𝑠𝑖 𝑑𝑖𝑒𝑡𝑟𝑜....𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑒𝑟𝑣𝑒 𝑝𝑜𝑖 𝑙𝑎 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑡𝑎̀?”
Ora la notte può tardare perché la realtà ha assunto la dimensione del sogno: è una realtà utopica, "𝑑𝑜𝑣𝑒 𝑙𝑎 𝑚𝑜𝑟𝑡𝑒 𝑛𝑜𝑛 ℎ𝑎 𝑑𝑜𝑚𝑖𝑛𝑖, 𝑑𝑜𝑣𝑒 𝑙’𝑎𝑚𝑜𝑟𝑒 𝑣𝑎𝑟𝑐𝑎 𝑖 𝑐𝑜𝑛𝑓𝑖𝑛𝑖 𝑒 𝑖𝑙 𝑠𝑒𝑟𝑣𝑜 𝑏𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑐𝑜𝑛 𝑖𝑙 𝑟𝑒...𝑒𝑡𝑒𝑟𝑛𝑎 𝑒̀ 𝑙𝑎 𝑠𝑡𝑟𝑎𝑑𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑣𝑎". Il finale richiama i temi che hanno costituito questo grande affresco fiabesco mitologico, echi di Emerson Lake & Palmer conducono alla conclusione secca e priva dell’enfasi strumentale che canonicamente conclude queste suite.

L’album si conclude con 𝐓𝐫𝐚𝐜𝐜𝐢𝐚, pezzo strumentale, una marcia che sembra voler chiudere con un tono allegro e scanzonato un disco di esordio a mio parere folgorante. Il successivo Darwin sarà più compatto stilisticamente e coinvolgerà un tema che all’epoca costituiva una sorta di tabù.

𝐕𝐢𝐭𝐭𝐨𝐫𝐢𝐨 𝐍𝐨𝐜𝐞𝐧𝐳𝐢 che ha compiuto il 23 gennaio 70 anni, che ha studiato pianoforte privatamente al conservatorio Santa Cecilia di Roma, che ha frequentato studi di clarinetto, organo da chiesa, armonia e musicologia oltre a un corso di laurea in Storia e Filosofia, vuole la “leggenda” che nel 1968 a 17 anni per poter ottenere un’audizione si trova nella necessità di mettere insieme un gruppo e coinvolge il fratello 𝐆𝐢𝐚𝐧𝐧𝐢.
Il primo nucleo del 𝐁𝐚𝐧𝐜𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐌𝐮𝐭𝐮𝐨 𝐒𝐨𝐜𝐜𝐨𝐫𝐬𝐨viene assemblato un po’ per caso e nel 1971, dopo varie vicende, assunse una formazione definitiva: i due fratelli 𝐍𝐨𝐜𝐞𝐧𝐳𝐢 quindi alle tastiere, 𝐅𝐫𝐚𝐧𝐜𝐞𝐬𝐜𝐨 𝐃𝐢 𝐆𝐢𝐚𝐜𝐨𝐦𝐨 voce solista, 𝐌𝐚𝐫𝐜𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐓𝐨𝐝𝐚𝐫𝐨 alla chitarra, 𝐑𝐞𝐧𝐚𝐭𝐨 𝐃’𝐀𝐧𝐠𝐞𝐥𝐨 al basso e 𝐏𝐢𝐞𝐫 𝐋𝐮𝐢𝐠𝐢 𝐂𝐚𝐥𝐝𝐞𝐫𝐨𝐧𝐢 alla batteria.

 
articolo e foto di 2021 © Roberto Gaudenzi - 05 febbraio 2021

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𝐕𝐎𝐋𝐔𝐍𝐓𝐄𝐄𝐑𝐒
𝐉𝐞𝐟𝐟𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧 𝐀𝐢𝐫𝐩𝐥𝐚𝐧𝐞 (𝟏𝟗𝟔𝟗)


𝐵𝑢𝑡 𝑤𝑒 𝑠ℎ𝑜𝑢𝑙𝑑 𝑏𝑒 𝑡𝑜𝑔𝑒𝑡ℎ𝑒𝑟
𝐶𝑜𝑚𝑒 𝑜𝑛 𝑎𝑙𝑙 𝑦𝑜𝑢 𝑝𝑒𝑜𝑝𝑙𝑒 𝑠𝑡𝑎𝑛𝑑𝑖𝑛𝑔 𝑎𝑟𝑜𝑢𝑛𝑑
𝑂𝑢𝑟 𝑙𝑖𝑓𝑒'𝑠 𝑡𝑜𝑜 𝑓𝑖𝑛𝑒 𝑡𝑜 𝑙𝑒𝑡 𝑖𝑡 𝑑𝑖𝑒
𝑊𝑒 𝑐𝑎𝑛 𝑏𝑒 𝑡𝑜𝑔𝑒𝑡ℎ𝑒𝑟
........
𝑈𝑝 𝑎𝑔𝑎𝑖𝑛𝑠𝑡 𝑡ℎ𝑒 𝑤𝑎𝑙𝑙
𝑈𝑝 𝑎𝑔𝑎𝑖𝑛𝑠𝑡 𝑡ℎ𝑒 𝑤𝑎𝑙𝑙 (𝑚𝑜𝑡ℎ𝑒𝑟𝑓𝑢𝑐𝑘𝑒𝑟)
𝑇𝑒𝑎𝑟 𝑑𝑜𝑤𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑤𝑎𝑙𝑙𝑠
𝑇𝑒𝑎𝑟 𝑑𝑜𝑤𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑤𝑎𝑙𝑙𝑠

(𝑊𝑒 𝐶𝑎𝑛 𝐵𝑒 𝑇𝑜𝑔𝑒𝑡ℎ𝑒𝑟)


Nel novembre 1969 nei negozi compare 𝐕𝐨𝐥𝐮𝐧𝐭𝐞𝐞𝐫𝐬, sesto album dei 𝐉𝐞𝐟𝐟𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧 𝐀𝐢𝐫𝐩𝐥𝐚𝐧𝐞 preceduto da 𝐁𝐥𝐞𝐬𝐬 𝐢𝐭𝐬 𝐏𝐨𝐢𝐧𝐭𝐞𝐝 𝐋𝐢𝐭𝐭𝐥𝐞 𝐇𝐞𝐚𝐝 dal vivo e da quattro dischi in studio. Sarà l’ultimo con la presenza di uno dei membri fondatori, 𝐌𝐚𝐫𝐭𝐲 𝐁𝐚𝐥𝐢𝐧, la cui leadership è progressivamente venuta meno per la preponderanza artistica della coppia 𝐏𝐚𝐮𝐥 𝐊𝐚𝐧𝐭𝐧𝐞𝐫 - 𝐆𝐫𝐚𝐜𝐞 𝐒𝐥𝐢𝐜𝐤, e del batterista 𝐒𝐩𝐞𝐧𝐜𝐞𝐫 𝐃𝐫𝐲𝐝𝐞𝐧. Seguirà una pausa di un paio di anni che non rimarranno improduttivi: Kantner darà alla luce quella perla che sarà 𝐁𝐥𝐨𝐰𝐬 𝐀𝐠𝐚𝐢𝐧𝐬𝐭 𝐭𝐡𝐞 𝐄𝐦𝐩𝐢𝐫𝐞 nel 1970 seguito nel ’71 dall’altro gioiello in coppia con la moglie 𝐒𝐥𝐢𝐜𝐤: 𝐒𝐮𝐧𝐟𝐢𝐠𝐡𝐭𝐞𝐫. La coppia 𝐉𝐨𝐫𝐦𝐚 𝐊𝐚𝐮𝐤𝐨𝐧𝐞𝐧 - 𝐉𝐚𝐜𝐤 𝐂𝐚𝐬𝐚𝐝𝐲 formeranno parallelamente gli 𝐇𝐨𝐭 𝐓𝐮𝐧𝐚 regalandoci giri blues dal tocco leggero e personale.

Leggenda vuole che il verso della canzone che dà il titolo all’album 𝑽𝒐𝒍𝒖𝒏𝒕𝒆𝒆𝒓𝒔 𝒐𝒇 𝑨𝒎𝒆𝒓𝒊𝒄𝒂 fosse la scritta di un camion della nettezza urbana che svegliò 𝐌𝐚𝐫𝐭𝐲 𝐁𝐚𝐥𝐢𝐧 una mattina: curiosa associazione di idee tra spazzatura e volontariato che sembra suggerire la volontà di liberare la nazione dalla sporcizia. Inoltre il testo avrebbe dovuto essere scritto 𝑽𝒐𝒍𝒖𝒏𝒕𝒆𝒆𝒓𝒔 𝒐𝒇 𝑨𝒎𝒆𝒓𝒊𝒌𝒂, dove la kappa all’epoca era una forma grafica irriverente verso le autorità.

𝐕𝐨𝐥𝐮𝐧𝐭𝐞𝐞𝐫𝐬 emana “acidità” a piene mani: 𝐇𝐞𝐲 𝐅𝐫𝐞𝐝𝐞𝐫𝐢𝐜𝐤 ne è un esempio con una sorta di orgia solista dove 𝐊𝐚𝐮𝐤𝐨𝐧𝐞𝐧 e 𝐊𝐚𝐧𝐭𝐧𝐞𝐫 fanno vibrare le chitarre senza risparmiarsi; concedendosi sconfinamenti nel folk riarrangiato in chiave San Francisco. Le voci si alternano, il cantato negli Airplane, pur avendo una voce fuori classe come la 𝐒𝐥𝐢𝐜𝐤, è sempre stato distribuito più o meno equamente o coralmente amalgamato. 𝐍𝐢𝐜𝐤𝐲 𝐇𝐨𝐩𝐤𝐢𝐧𝐬, pianista session man tra i più richiesti, fa trillare il pianoforte nel suo modo inconfondibile e ovviamente non mancano a coadiuvare amici della numerosa comune musicale che si affaccia sul pacifico: c’è 𝐉𝐞𝐫𝐫𝐲 𝐆𝐚𝐫𝐜𝐢𝐚, 𝐃𝐚𝐯𝐢𝐝 𝐂𝐫𝐨𝐬𝐛𝐲 e 𝐒𝐭𝐞𝐩𝐡𝐞𝐧 𝐒𝐭𝐢𝐥𝐥𝐬, c’è 𝐉𝐨𝐞𝐲 𝐂𝐨𝐯𝐢𝐧𝐠𝐭𝐨𝐧, futuro batterista della band, come “tirocinante” alle percussioni e ovviamente quell’umore combattivo e trasudante libertà espressiva che gocciola in ogni solco.

Il 20 gennaio del 1969 era entrato in carica R. 𝐍𝐢𝐱𝐨𝐧 e nel novembre dello stesso anno i 𝐉𝐞𝐟𝐟𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧 𝐀𝐢𝐫𝐩𝐥𝐚𝐧𝐞 pubblicano l’album in questione.

Mi concedo una breve digressione. E’ appena stato insediato alla Casa Bianca 𝐉𝐨𝐞 𝐁𝐢𝐝𝐞𝐧 che ha preso il posto di un bieco, tristo figuro, fomentatore di discordie, razzista e molte altre deleterie qualità che in suo confronto 𝐍𝐢𝐱𝐨𝐧, presidente quanto mai inviso dalle avanguardie e dalla gioventù non “amalgamata” dell’epoca, in suo confronto è un esempio di progressismo.
Il recente insediamento presidenziale preceduto dall’assalto a 𝐂𝐚𝐩𝐢𝐭𝐨𝐥 𝐇𝐢𝐥𝐥 ha rotto la mia incertezza sulla scelta del disco per questa rubrica perché la copertina dell’album ha come sfondo la bandiera americana e perché i Jefferson si presentano come volontari della nazione: mascherati sbeffeggiano lo “status quo” e si propongono come salvatori irriverenti della patria.
La stagione del Flower Power è terminata ed è ora di una presa di coscienza più matura, dissolta la trinità “pace, amore e musica”, è venuta l’ora di marciare.

𝐉𝐞𝐟𝐟𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧 𝐀𝐢𝐫𝐩𝐥𝐚𝐧𝐞 profumano di oceano, sono baluardi della sponda occidentale americana, figli di quella città che sotto altri auspici prende il nome di un Francesco che nel nostro vecchio continente ha sfidato con la povertà stili di vita allora imperanti, ha abbandonato tutto, si è inimicato il padre perché forse essere rivoluzionari significa prima di tutto ribellarsi al padre, autorità antica, appellativo di divinità, non ultima quella imperante.

Anche loro e tutta la 𝑊𝑒𝑠𝑡 𝐶𝑜𝑎𝑠𝑡 più libera dell’epoca, spezzano le catene che legano ai padri, lo fanno a colpi di chitarre, a bordo delle 𝐖𝐨𝐨𝐝𝐞𝐧 𝐒𝐡𝐢𝐩𝐬 libere e leggere che si allontanano dalla riva mentre gente d’argento li guarda allontanarsi. 𝐂𝐫𝐨𝐬𝐛𝐲 & 𝐍𝐚𝐬𝐡 hanno dispiegato le vele con loro. “𝑆𝑒 𝑚𝑖 𝑠𝑜𝑟𝑟𝑖𝑑𝑖 𝑠𝑎𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑐𝑎𝑝𝑖𝑟𝑜̀, 𝑝𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́ 𝑒̀ 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑜𝑣𝑢𝑛𝑞𝑢𝑒 𝑓𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑡𝑒𝑠𝑠𝑎 𝑙𝑖𝑛𝑔𝑢𝑎”. Questo spirito che allora si voleva diffondere si è spento nelle smorfie mussoliniane del truce personaggio dal tupé giallo che poco meno della metà degli elettori ha votato.

Qualcuno obietterà: ma questo accadeva 50 anni fa. Vero, una ragione in più affinché le vele delle navi di legno rimangano spiegate, che 𝐻𝑖 𝐽𝑎𝑐𝑘 l’astronave che 𝑠𝑜𝑓𝑓𝑖𝑎 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑜 𝑙’𝑖𝑚𝑝𝑒𝑟𝑜 continui ad orbitare pronta ad accogliere chi spera e magari lavora per un mondo diverso.

Qualcuno obietterà: ma questo accadeva 50 anni fa. Vero, una ragione in più affinché le vele delle navi di legno rimangano spiegate, che 𝐻𝑖 𝐽𝑎𝑐𝑘 l’astronave che 𝑠𝑜𝑓𝑓𝑖𝑎 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑜 𝑙’𝑖𝑚𝑝𝑒𝑟𝑜 continui ad orbitare pronta ad accogliere chi spera e magari lavora per un mondo diverso. “𝑾𝒆 𝒄𝒂𝒏 𝒃𝒆 𝒕𝒐𝒈𝒆𝒕𝒉𝒆𝒓” e “𝑽𝒐𝒍𝒖𝒏𝒕𝒆𝒆𝒓𝒔” i due brani che rispettivamente aprono e chiudono l’album, sostenuti dalla stessa ritmica, in sostanza facce della stessa medaglia, sono incitamenti alla rivolta, dichiarazioni di anarchia: “𝑆𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑓𝑢𝑜𝑟𝑖𝑙𝑒𝑔𝑔𝑒 𝑎𝑔𝑙𝑖 𝑜𝑐𝑐ℎ𝑖 𝑛𝑒𝑙𝑙’𝐴𝑚𝑒𝑟𝑖𝑐𝑎...𝑆𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑜𝑠𝑐𝑒𝑛𝑖, 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑙𝑒𝑔𝑔𝑒, 𝑜𝑟𝑟𝑖𝑏𝑖𝑙𝑖...” ci sono autoaccuse ingiuriose che alla fine suonano come una professione contraria, è un sarcastico dare ragione alle ingiurie dell’avversario consapevoli di non essere ciò che ci accusano di essere. ““𝐸 𝑠𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑚𝑜𝑙𝑡𝑜 𝑜𝑟𝑔𝑜𝑔𝑙𝑖𝑜𝑠𝑖 𝑑𝑖 𝑛𝑜𝑖 𝑠𝑡𝑒𝑠𝑠𝑖””. Il titolo è inclusivo, i muri si vogliono abbattere e non costruire “𝑈𝑝 𝑎𝑔𝑎𝑖𝑛𝑠𝑡 𝑡ℎ𝑒 𝑤𝑎𝑙𝑙....𝑇𝑒𝑎𝑟 𝑑𝑜𝑤𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑤𝑎𝑙𝑙". La rivoluzione a cui si inneggia nel brano in chiusura e che dà titolo al disco, è una rivoluzione che nasce dalla lotta per i diritti civili. “𝑆𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑖 𝑣𝑜𝑙𝑜𝑛𝑡𝑎𝑟𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙’𝐴𝑚𝑒𝑟𝑖𝑐𝑎”, volontari pacifisti contro la guerra. La paura di una catastrofe nucleare era concreta: i “𝑆𝑖𝑙𝑣𝑒𝑟 𝑝𝑒𝑜𝑝𝑙𝑒 𝑜𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑠ℎ𝑜𝑟𝑒𝑙𝑖𝑛𝑒” la gente argentata a cui viene chiesto di lasciare libere le “𝑁𝑎𝑣𝑖 𝑑𝑖 𝑙𝑒𝑔𝑛𝑜” in 𝐖𝐨𝐨𝐝𝐞𝐧 𝐒𝐡𝐢𝐩𝐬, sembra una popolazione colpita da radiazioni atomiche.

Non ci sono svastiche nell’aria né apologia di regimi brutali, solo una richiesta di libertà e di recupero di valori. 𝐓𝐡𝐞 𝐅𝐚𝐫𝐦 sembra inneggiare a questo nella scoperta della bellezza della vita in una fattoria, anche se in controluce mi sembra di poter leggere una dose di ironia verso il movimento Hippy che faceva del lavoro dei campi uno stile di vita, il tono finale favolistico e irreale con rospi e rane come cavalcature sembra accentuare l’ironia sottintesa.

𝐄𝐬𝐤𝐢𝐦𝐨 𝐁𝐥𝐮𝐞 𝐃𝐚𝐲 ci ricorda nella chiusa di ogni strofa quanto la Natura sia indifferente alle sorti umane (tema leopardiano) “𝑌𝑜𝑢 𝑐𝑎𝑙𝑙 𝑖𝑡 𝑙𝑜𝑢𝑑 𝑏𝑢𝑡 𝑡ℎ𝑒 ℎ𝑢𝑚𝑎𝑛 𝑐𝑟𝑜𝑤𝑑 𝑑𝑜𝑒𝑠𝑛’𝑡 𝑚𝑒𝑎𝑛 𝑠ℎ𝑖𝑡 𝑡𝑜 𝑎 𝑡𝑟𝑒𝑒”, “𝑝𝑢𝑜𝑖 𝑢𝑟𝑙𝑎𝑟𝑒 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑡𝑜 𝑣𝑢𝑜𝑖 𝑚𝑎 𝑙𝑎 𝑠𝑐ℎ𝑖𝑎𝑡𝑡𝑎 𝑢𝑚𝑎𝑛𝑎 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑖𝑔𝑛𝑖𝑓𝑖𝑐𝑎 𝑢𝑛 𝑐𝑎𝑧𝑧𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑢𝑛 𝑎𝑙𝑏𝑒𝑟𝑜”. C’è già una coscienza ecologica che tornerà negli album solisti di 𝐊𝐚𝐧𝐭𝐧𝐞𝐫 e 𝐒𝐥𝐢𝐜𝐤 Ricordo che siamo a 50 anni or sono e forse i genitori di 𝐆𝐫𝐞𝐭𝐚 𝐓𝐡𝐮𝐧𝐛𝐞𝐫𝐠 erano ancora bambini. Quanto è attuale questo album? Quanto sono attuali i 𝐉𝐞𝐟𝐟𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧 𝐀𝐢𝐫𝐩𝐥𝐚𝐧𝐞? Quanto lontani ideologicamente dai figuri tatuati incitati dal sinistro frequentatore di campi da golf? Molto è l’avverbio che si adegua alle domande: molto attuale e molto lontani.

𝐆𝐨𝐨𝐝 𝐒𝐡𝐞𝐩𝐡𝐞𝐫𝐝 sembra portarci in lidi paradisiaci dopo la dichiarazione di intenti di We can be together, il paradiso in cui vuoi entrare sta sull’altra sponda ma devi guardarti dal bandito sporco di sangue, dal bugiardo dalla lingua lunga, dal fucile del diavolo, metafore di tradimento e di morte.

C’era un’utopia che aleggiava nell’aria negli anni ’60: che la musica potesse cambiare il mondo, che il mondo potesse cambiare con la musica. Ovviamente non è così e non potrebbe essere ma senza dubbio un contributo a guardare lontano lo fornisce.


articolo e foto di 2021 © Roberto Gaudenzi - 29 gennaio 2021

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𝐇𝐄𝐍𝐃𝐑𝐈𝐗
𝟏𝟖 𝐒𝐞𝐭𝐭𝐞𝐦𝐛𝐫𝐞 𝟏𝟗𝟕𝟎


𝐼𝑓 𝐼 𝑑𝑜𝑛'𝑡 𝑚𝑒𝑒𝑡 𝑦𝑜𝑢 𝑛𝑜 𝑚𝑜𝑟𝑒 𝑖𝑛 𝑡ℎ𝑖𝑠 𝑤𝑜𝑟𝑙𝑑 𝑡ℎ𝑒𝑛
𝐼'𝑙𝑙 𝑚𝑒𝑒𝑡 𝑦𝑎 𝑜𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑛𝑒𝑥𝑡 𝑜𝑛𝑒
𝐴𝑛𝑑 𝑑𝑜𝑛'𝑡 𝑏𝑒 𝑙𝑎𝑡𝑒
𝐷𝑜𝑛'𝑡 𝑏𝑒 𝑙𝑎𝑡𝑒
(𝑉𝑜𝑜𝑑𝑜𝑜 𝐶ℎ𝑖𝑙𝑒)


Monica Dannemann si svegliò alle dieci del mattino di quel 18 settembre 1970 e uscì a comprare le sigarette. Quando rientrò dieci minuti dopo si accorse che Jimi era stato male e che non le riusciva di svegliarlo. Dopo un giro di telefonate Eric Burdon, cantante degli Animals, le suggerì di chiamare un’ambulanza (ma perché non la chiamò subito?) che arrivò alle 11:27.
𝐉𝐢𝐦𝐢 𝐇𝐞𝐧𝐝𝐫𝐢𝐱, il più grande, innovativo, originale chitarrista della storia del Rock venne trasportato al St. Mary Abbott Hospital dove poco dopo venne dichiarato morto, avrebbe compiuto 28 anni di lì a due mesi.
Questo breve resoconto lascia chiuse le porte dalle cui fessure trapelano spiragli di luci inquietanti sulla morte prematura di Jimi Hendrix. Dal 1963 al 1970, dagli oscuri inizi fino alla sua scoperta da parte di 𝐂𝐡𝐚𝐬 𝐂𝐡𝐚𝐧𝐝𝐥𝐞𝐫 nel 1966, percorrendo l’apice della sua carriera dal 1967 alla perturbante fine nel 1970, Jimi Hendrix ha percorso chilometri con centinaia di concerti, ha dato alle stampe in vita quattro album di cui uno doppio, ha rivoluzionato il Blues e mostrato una tecnica chitarristica unica.

Per chi del Rock dell’epoca ammira la parte più spettacolare e gigionesca delle performance, Jimi è il chitarrista che suonava pizzicando le corde con i denti, portandosi lo strumento dietro alla schiena; è quello che al festival di Monterey brucia la chitarra in una sorta di rito sciamanico, è chi trasforma la chitarra in un prolungamento fallico, è l’eroe e il sacerdote e comunque nessuna di queste cose.
Jimi Hendrix era forse un uomo fragile, consapevole delle proprie capacità ma in un certo senso prigioniero del music business che in quei tempi si arricchiva sul talento di giovani e forse anche ingenui artisti. Certo molti di loro arricchivano a loro volta e questo sistema concedeva spazio a una creatività con pochi precedenti, ma anche toglieva libertà.

Jimi ad un certo punto si era stancato di essere sul palco un attore, voleva essere solo un musicista.
E poi, non ultima, c’era la droga. Alcuni dicono che le cose che si suonavano all’epoca non sarebbero esistite senza il suo “supporto”. Io dissento. La droga porta fuori, le performance di musicisti saliti sul palco strafatti, e pure ce ne sono state, anche di Hendrix, non sono andate a buon fine, sono spettacoli abortiti. Forse la droga in qualche caso ha fornito la spinta creativa, ma è stata una cattiva consigliera in molte circostanze. Purtroppo all’epoca scorreva in grosse quantità alimentando ingenuamente tra l’altro un mercato malavitoso, ma le sostanze psicotrope non fornivano di certo il talento a colui che ne era privo. Le estenuanti tournée, una richiesta pressante di performance che contratti “capestro” sovente serravano la gola ai musicisti, forse richiedevano una “carica” supplementare, e questo diventava la rovina per alcuni, un grosso problema per molti. Per Hendrix è stata una tragedia. Sulla sua fine si parla di soffocamento da vomito per un mix micidiale di alcolici e tranquillanti.
Hendrix è caduto prigioniero della sua stessa bravura che ne ha fatto un eroe per l’immaginario giovanile e come tale ha subito la stessa tragica fine degli eroi. Il mito lo ha sconfitto come ha sconfitto i grandi eroi epici che in battaglia erano imbattibili ma nella vita di tutti i giorni soccombevano per le comuni debolezze umane a cui loro non erano evidentemente preparati.
Jimi aveva creato con il suo sound un mondo granitico dove il Blues veniva scolpito navigando su nuvole psichedeliche con un controllo assoluto del feedback. La sua chitarra era ritmica a solista al tempo stesso, infuocata, fiammeggiante. Nei festival Hendrix doveva suonare per ultimo altrimenti nessuno avrebbe più ascoltato chi succedeva alle sue esibizioni.

50 anni sono trascorsi dalla sua morte ma immediatamente le speculazioni discografiche si sono sprecate con uscite di album che se da un lato pescavano da jam sessions in studio dall’altro aggiungendo musicisti estranei al suo giro pretendevano di “vestire” i brani con la pretesa di interpretare lo spirito di Hendrix. Un artista in qualunque campo dell’arte sia dedito si esprime in quello che fa e ogni altro tentativo non può che essere un’interpretazione, in ogni caso non ciò che l’artista stesso avrebbe espresso, quindi per il sottoscritto, tranne qualche eccezione, tutta la pletora di incisioni in studio che sono seguite alla sua morte non sono più Jimi Hendrix: anche se la chitarra è lui a suonarla sovente lo spirito d’insieme non è il suo e non sapremmo mai se lo avrebbe apprezzato. Hendrix era un perfezionista maniacale e gran parte di quanto è stato recuperato dalle sedute di registrazione non sono che prove che forse lui non avrebbe mai autorizzato a pubblicare. Ben diversa cosa sono gli album che ripropongono tanta parte delle esibizioni dal vivo dove la Jimi Hendrix Experience prima e la Band of Gypsys dopo danno modo di ascoltare le performance sul palco.

𝐀𝐫𝐞 𝐘𝐨𝐮 𝐄𝐱𝐩𝐞𝐫𝐢𝐞𝐧𝐜𝐞𝐝 è il primo album uscito il 12 maggio 1967 in Inghilterra e il 23 agosto negli USA, registrato tra ottobre 1966 e aprile 1967 negli Olympic Studios di Londra. Le due edizioni differiscono per alcune tracce e per la copertina, in CD è reperibile una versione che comprende tutti i brani contenuti nelle due raccolte.

𝐀𝐱𝐢𝐬: 𝐁𝐨𝐥𝐝 𝐚𝐬 𝐋𝐨𝐯𝐞 è il secondo, pubblicato il 1° dicembre dello stesso anno in Inghilterra e il 15 gennaio 1968 in USA, registrato tra maggio e ottobre 1967 negli Olympic Studios di Londra.

𝐄𝐥𝐞𝐜𝐭𝐫𝐢𝐜 𝐋𝐚𝐝𝐲𝐥𝐚𝐧𝐝, registrato tra luglio 1967 e agosto 1968, è il terzo, doppio album uscito il 16 ottobre 1968 in Inghilterra e il 26 dello stesso mese in USA. Registrato negli Olympic Studios di Londra e Record Plant di New York.

Come si può vedere le registrazioni avvengono tra ottobre 1966 e agosto 1968, due anni in cui la vena creativa di Hendrix ha preso forma ovviamente collaudata da centinaia di concerti. 𝐓𝐡𝐞 𝐉𝐢𝐦𝐢 𝐇𝐞𝐧𝐝𝐫𝐢𝐱 𝐄𝐱𝐩𝐞𝐫𝐢𝐞𝐧𝐜𝐞 comprendeva 𝐍𝐨𝐞𝐥 𝐑𝐞𝐝𝐝𝐢𝐧𝐠 al basso e 𝐌𝐢𝐭𝐜𝐡 𝐌𝐢𝐭𝐜𝐡𝐞𝐥𝐥 alla batteria.
Sciolti gli Experience Jimi formerà la 𝐁𝐚𝐧𝐝 𝐨𝐟 𝐆𝐲𝐩𝐬𝐲𝐬 con 𝐁𝐢𝐥𝐥𝐲 𝐂𝐨𝐱 al basso e 𝐁𝐮𝐝𝐝𝐲 𝐌𝐢𝐥𝐞𝐬 alla batteria. Uscirà il 25 marzo del 1970 l’omonimo album dal vivo registrato il 1° gennaio 1970 al Fillmore East di New York, e sarà l’ultimo disco ad essere pubblicato e approvato (anche se con qualche riserva) da Hendrix.

Non so se Jimi credesse in un altro mondo, certo lui era il magico bambino Voodoo che ad un certo punto ci ha abbandonato. In una intervista a “The Times”, il 5 settembre del 1970 ha detto: “𝑺𝒆 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒍𝒊𝒃𝒆𝒓𝒐 𝒆̀ 𝒑𝒆𝒓𝒄𝒉𝒆́ 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒔𝒆𝒎𝒑𝒓𝒆 𝒊𝒏 𝒇𝒖𝒈𝒂”.

Tredici giorni dopo Jimi Hendrix ha smesso di fuggire.


Compositing fotografico di Roberto Gaudenzi.
articolo di © Roberto Gaudenzi - 22 gennaio 2021

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𝐈𝐍 𝐓𝐇𝐄 𝐖𝐀𝐊𝐄 𝐎𝐅 𝐏𝐎𝐒𝐄𝐈𝐃𝐎𝐍
𝐊𝐢𝐧𝐠 𝐂𝐫𝐢𝐦𝐬𝐨𝐧 (1970)


𝐼 𝑎𝑚 𝑡ℎ𝑒 𝑜𝑐𝑒𝑎𝑛
𝐿𝑖𝑡 𝑏𝑦 𝑡ℎ𝑒 𝑓𝑙𝑎𝑚𝑒
𝐼 𝑎𝑚 𝑡ℎ𝑒 𝑚𝑜𝑢𝑛𝑡𝑎𝑖𝑛
𝑃𝑒𝑎𝑐𝑒 𝑖𝑠 𝑚𝑦 𝑛𝑎𝑚𝑒
𝐼 𝑎𝑚 𝑡ℎ𝑒 𝑟𝑖𝑣𝑒𝑟
𝑇𝑜𝑢𝑐ℎ𝑒𝑑 𝑏𝑦 𝑡ℎ𝑒 𝑤𝑖𝑛𝑑
𝐼 𝑎𝑚 𝑡ℎ𝑒 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑦
𝐼 𝑛𝑒𝑣𝑒𝑟 𝑒𝑛𝑑


Le parole che ho posto in esergo sono il testo del brano di apertura del secondo album dei King Crimson: 𝐈𝐍 𝐓𝐇𝐄 𝐖𝐀𝐊𝐄 𝐎𝐅 𝐏𝐎𝐒𝐄𝐈𝐃𝐎𝐍 , 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑆𝑐𝑖𝑎 𝑑𝑖 𝑃𝑜𝑠𝑒𝑖𝑑𝑜𝑛𝑒, dio greco del mare, 𝑁𝑒𝑡𝑡𝑢𝑛𝑜 per la mitologia romana, dove sembra esserci una presentazione in prima persona: “𝑖𝑜 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑙’𝑜𝑐𝑒𝑎𝑛𝑜”, come se il dio delle acque avesse necessità di affermarsi, di porre un sigillo sull’opera. I quattro elementi essenziali secondo la filosofia greca delle origini vengono in sostanza elencati: acqua, terra, aria e fuoco. Il testo emerge intonato dalla voce di Greg Lake cresce in dissolvenza senza accompagnamento con un effetto eco che scompare sugli ultimi due versi: “𝐼𝑜 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑙𝑎 𝑆𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎 / 𝐼𝑜 𝑛𝑜𝑛 ℎ𝑜 𝑓𝑖𝑛𝑒”. La storia con o senza maiuscola, un racconto infinito che sembra voler ribadire che l’epopea dei King Crimson non è finita con l’uscita del precedente album che ha segnato l’inizio di un’epoca ma sta proseguendo anche se a distanza di sette mesi la band è pressoché sciolta: rimangono 𝐑𝐨𝐛𝐞𝐫𝐭 𝐅𝐫𝐢𝐩𝐩, ovviamente, (senza di lui i Crimson non esisterebbero) e 𝐏𝐞𝐭𝐞 𝐒𝐢𝐧𝐟𝐢𝐞𝐥𝐝 paroliere. 𝐆𝐫𝐞𝐠 𝐋𝐚𝐤𝐞 e 𝐌𝐢𝐤𝐞 𝐆𝐢𝐥𝐞𝐬 non sono più ufficialmente nel gruppo ma prenderanno parte ancora a questo disco, 𝐈𝐚𝐧 𝐌𝐜𝐃𝐨𝐧𝐚𝐥𝐝 ha abbandonato (salvo poi ammettere anni dopo di essersi pentito). 𝐏𝐞𝐭𝐞𝐫 𝐆𝐢𝐥𝐞𝐬 imbraccia il basso, il fratello 𝐌𝐢𝐤𝐞 si impresta alla batteria, 𝐊𝐞𝐢𝐭𝐡 𝐓𝐢𝐩𝐩𝐞𝐭𝐭 al pianoforte, 𝐌𝐞𝐥 𝐂𝐨𝐥𝐥𝐢𝐧𝐬 ai fiati e 𝐆𝐨𝐫𝐝𝐨𝐧 𝐇𝐚𝐬𝐤𝐞𝐥𝐥 alla voce con il prestito di 𝐋𝐚𝐤𝐞, sono i musicisti che danno vita a questo secondo lavoro.

Quattro note isolate di chitarra pongono fine ai 50 secondi del brano introduttivo. Sinfield è un poeta e su questo testo forse ci si potrebbe soffermare a lungo, una melodia lieve, aerea che introduce la violenta 𝐏𝐢𝐜𝐭𝐮𝐫𝐞 𝐨𝐟 𝐚 𝐂𝐢𝐭𝐲 che potrebbe essere il prosieguo di 21𝑠𝑡 𝐶𝑒𝑛𝑡𝑢𝑟𝑦 𝑆𝑐ℎ𝑖𝑧𝑜𝑖𝑑 𝑀𝑎𝑛: là era la guerra del Vietnam ad essere presa di mira qui è la città. Esplode in un’introduzione con Fripp che fa urlare la chitarra all’unisono con un sax crudo e aggressivo per risolversi in un tema che sembra camminare sui marciapiedi di una city universale, che a tratti inciampa, finché la voce sporca di Lake declama contro le facciate di palazzi in acciaio e cemento. Il tema riprende il suo passo e dopo la seconda strofa cantata, invettiva con corto circuiti lessicali, Fripp strazia le corde dello strumento, un drumming convulso conclude la zoppicante passeggiata e ci porta di corsa attraverso vicoli ciechi, passaggi misteriosi finché un tema di basso ci trasporta in traverse misteriose, ci suggerisce agguati, finestre che velano misteriosi interni: allora fuggiamo, sempre più veloci fino a ritrovarci nel gorgo metropolitano.

𝐂𝐚𝐝𝐞𝐧𝐜𝐞 𝐚𝐧𝐝 𝐂𝐚𝐬𝐜𝐚𝐝𝐞 è una delicata ballata che non può non ricordare 𝐼 𝑇𝑎𝑙𝑘 𝑡𝑜 𝑡ℎ𝑒 𝑊𝑖𝑛𝑑 dal disco precedente, introdotta da un arpeggio all’acustica di Fripp la canzone è cantata da Gordon Haskell che dichiarerà di non essere per nulla in sintonia con la musica dei Crimson e di avere cantato perché ricompensato in denaro, dichiarò inoltre di essersi sentito un pesce fuor d’acqua. Mi domando la ragione per la quale nel disco ufficiale sia stata inserita la versione cantata da lui se, come si evince da una bonus track ascoltabile su Spotify, esiste una versione completa cantata (direi anche meglio) da Greg Lake. Misteri della produzione! Comunque il pezzo naviga in un atmosfera impalpabile, con lievi tocchi di chitarra, un pianoforte che Tippett accarezza lasciando stillare gocce di note come rugiada. Una coda di flauto ci trasporta in una atmosfera estenuata che dovremmo immaginarci fumosa in una camera d’albergo essendo tratteggiato nel testo il mondo delle “𝑔𝑟𝑜𝑢𝑝𝑖𝑒𝑠” le ragazze che si rendevano “𝑑𝑖𝑠𝑝𝑜𝑛𝑖𝑏𝑖𝑙𝑖” ai musicisti in tournée.

Come non rimanere incantati dalla magniloquenza del brano omonimo di 𝐈𝐧 𝐭𝐡𝐞 𝐖𝐚𝐤𝐞 𝐨𝐟 𝐏𝐨𝐬𝐞𝐢𝐝𝐨𝐧!? Il mellotron dà vita ad un tema senza introduzione, senza attesa, che colpisce e porta istantaneamente su una vetta melodica come un decollo improvviso che lascia senza fiato. Poi dopo un breve assoluto silenzio concessoci per orientarci, ascoltiamo la voce di Lake che suadente ma decisa ci porta nel mondo oscuro e metafisico di Sinfield. Si torna qui a nominare i tre elementi fondamentali presenti nel pensiero antico già evocati nel breve titolo di apertura: aria, fuoco, terra e acqua e Platone che della filosofia antica è stato il primo ad averci lasciato una serie nutrita di scritti viene citato nell’apertura del testo. La chitarra di Fripp tesse accordi, arpeggia in contrappunto al cantato. Un interludio lascia cantare il mellotron sempre accompagnato dalla chitarra e da un drumming frammentato a suggerire la dinamica. L’ultima strofa della canzone ci conduce ad un vocalizzo evocativo di Lake, in forma quanto mai, e il mellotron conduce il finale in un crescendo continuo. Il testo cita i dodici archetipi umani riportati in copertina, dipinto del 1967 dell’artista 𝑇𝑎𝑚𝑚𝑜 𝐷𝑒 𝐽𝑜𝑛𝑔, un’esoterica riproduzione sulla base di teorie di un omeopata di nome 𝐽𝑜ℎ𝑛 𝐷𝑒 𝑀𝑜𝑛𝑡𝑒.

𝐂𝐚𝐭 𝐅𝐨𝐨𝐝 è condotta dall’irruenza liquida del piano di Keith Tippett, che qui colgo l’occasione per ricordare essere deceduto il 14 giugno del 2020 a 73 anni. Arriva dopo una ripresa strumentale acustica del primo brano 𝐏𝐞𝐚𝐜𝐞 - 𝐀 𝐓𝐡𝐞𝐦𝐞. Cat Food è un pezzo sarcastico su una signora consumatrice. Escursioni sulla tastiera mettono in risalto il tono farsesco del pezzo, blocchi solistici, sberleffi, stop and go con la chitarra di Fripp che interviene con pennate pesanti con l’acustica, note isolate come in un gioco a rimpiattino e un gusto che fluttua tra incursioni jazz molto libere e suggerimenti ironici, un brano che spezza piacevolmente l’atmosfera complessiva del disco.

𝐓𝐡𝐞 𝐃𝐞𝐯𝐢𝐥’𝐬 𝐓𝐫𝐢𝐚𝐧𝐠𝐥𝐞 che cresce dalla lontananza con un bolero e il mellotron che si muove tra accordi drammatici è il contraltare del brano precedente. Note cupe crescono, prende forma il lungo pezzo strumentale, solido e granitico, incede con passo marziale e con un gusto sinfonico dove si insinuano rumori, fischi, una cacofonia che vuole irrompere, farsi largo nell’ordine degli accordi e ad un certo punto si direbbe avere il sopravvento sotto forma di un vento che sembra spazzare ogni cosa. Un breve silenzio, un metronomo, alcuni colpi di bacchetta come di direttore che voglia ripristinare l’ordine ed ecco che dopo un brevissimo silenzio il bolero riemerge, accelerato, e si tramuta in una sorta di marcetta che precede interventi informali al piano, ancora la confusione ha la meglio e dal caos emerge un accenno a In 𝑇ℎ𝑒 𝐶𝑜𝑢𝑟𝑡 𝑜𝑓 𝑡ℎ𝑒 𝐶𝑟𝑖𝑚𝑠𝑜𝑛 𝐾𝑖𝑛𝑔 dall’album precedente. Il “triangolo del diavolo” è il famigerato triangolo delle Bermude e qui richiamiamo Poseidone, i re degli oceani e l’esoterismo di cui è infarcito l’album a partire dalla copertina sembra avere qui la sua massima espressione.

Come ci fanno notare 𝐴𝑛𝑑𝑟𝑒𝑎 𝑆𝑜𝑛𝑐𝑖𝑛𝑖 nel libro “𝐾𝑖𝑛𝑔 𝐶𝑟𝑖𝑚𝑠𝑜𝑛, 𝑔𝑙𝑖 𝑎𝑛𝑛𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑔" edito da 𝐺𝑖𝑢𝑛𝑡𝑖 e 𝑅. 𝑆𝑡𝑜𝑟𝑡𝑖 𝑒 𝐹. 𝑍𝑢𝑓𝑓𝑎𝑛𝑡𝑖 nel loro volume “𝑃𝑟𝑜𝑔 𝑅𝑜𝑐𝑘 101 𝐷𝑖𝑠𝑐ℎ𝑖 1967/80” (𝐴𝑟𝑐𝑎𝑛𝑎 𝐸𝑑.), in Devil’s Triangle si fa uso di un intervallo musicale dissonante che nel Medioevo era noto come “diabolus in musica”, ricordando anche che l’intervallo è un tritono, in inglese “𝑇𝑟𝑖𝑡𝑜𝑛𝑒”, Tritone è figlio di Poseidone...un caso?

La ripresa di 𝐏𝐞𝐚𝐜𝐞 - 𝐀𝐧 𝐄𝐧𝐝 con delicatezza acustica chiude un disco che se nella prima parte ricalca lo schema del precedente, nella seconda apre a soluzioni diverse. Quando uscì ottenne alcune critiche ma il passare del tempo a mio modesto parere pone il disco tra i grandi classici di questo genere.


foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 8 gennaio 2021

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