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BLOG DI PSICOLOGIA

 

CAMINITI: ABOLIAMO I VOTI ANCHE ALLE MEDIE

intervista di Focus Scuola a Gianni Caminti, di Barbara Leonardi


È un sistema classista che pregiudica il futuro dei ragazzi
I voti numerici? Non misurano un bel nulla e fanno danno. Non usa mezzi termini, Gianni Caminiti, psicologo, ma anche regista, musicista, scrittore ed editore, nell’accogliere con favore la decisione di abolirli per lo meno alla primaria. «Da anni nei miei corsi parlo dell’assurdità del voto numerico. Usiamo il sistema ordinale ma che cosa valutiamo in realtà? Se io abito al civico 2 e tu al civico 8 possiamo dire che il 2 viene prima dell’8. Ma se dicessimo che in media abitiamo al 5 diremmo una castroneria. Quando faccio questo esempio tutti i docenti sono d’accordo, il problema è che danno i voti nella stessa maniera. Se assegno un 6 a un tema e poi do un 5, vuol dire che questo compito è inferiore all’altro ma non c’è un’unità di misura e quindi fare la media è un vulnus, un danno. Se poi vado a sommare un 7 preso in un tema, un 5 in grammatica, un 6 in un’interrogazione, sto sommando pere, mele e banane e poi le divido per tre: il danno è ancora più importante».

La media di tutte le materie
Rincara Caminiti: «E vogliamo parlare del giudizio finale alla secondaria di primo grado in cui si fa la media di tutte le materie? Una media avrebbe senso se potessi usare scale metriche, ma queste non sono applicabili a nessuna delle materie che si insegnano a scuola, fatta eccezione per educazione motoria. Per tutto il resto, l’esposizione conta moltissimo e il giudizio, per forza di cose, è soggettivo». Per spiegarsi meglio Caminiti ricorre al paragone con lo sport. «È evidente che chi salta più in alto vince. Però ci sono sport dove per decretare chi ha vinto servono dei giudici. E non un giudice solo, tanti. Proprio per stemperare il vulnus del giudizio soggettivo. Per esempio, nei tuffi. La regola vuole che si scartino il giudizio più alto e quello più basso e poi si faccia la media dei voti moltiplicandola per il coefficiente di difficoltà del tuffo. Un meccanismo complesso che riduce, ma non azzera l’ingiustizia, tanto che nessun tuffatore ha mai vinto l’oro senza essere passato prima per un bronzo, perché il giudizio non è indipendente dalla conoscenza della persona. Quindi dobbiamo interrogarci a fondo: che cosa misuriamo con il voto numerico? Nulla. Tranne in ginnastica. Il voto numerico non è mai servito a niente se non a stabilire ordinalmente che quel compito è migliore del tuo. Quindi a fare qualcosa di dannoso, a dividere gli studenti in caste, la seriazione umana». Caminiti i voti numerici li abolirebbe senza dubbio anche alle medie. Tra l’altro, questi numeri decretano il futuro dei ragazzini che all’uscita dalla secondaria di primo grado magari non possono iscriversi ai licei “blasonati”. Un limite reso ancora più ingiusto dalla mancanza di un criterio uniforme di valutazione. I voti cambiano a seconda delle zone, delle scuole, degli insegnanti all’interno di uno stesso istituto: alcuni assegnano al massimo 8, altri 10... «Non solo: in una classe, dove tutti vanno bene, la soglia della sufficienza viene alzata, così come in una classe dove tutti vanno male viene abbassata» osserva Caminiti. «Questo sistema è classista e pregiudica il futuro dei ragazzi. Il 30% non arriva al diploma. È colpa di una scuola che non insegna, ma seleziona. La selezione per avere senso deve prevedere in partenza quanti arriveranno in fondo. Se un Comune emette un bando per tre geometri, non importa quanti si iscriveranno: solo tre verranno assunti. La scuola no, deve portare le persone (meglio se tutte!) da un livello di non competenza a un livello di competenza». Invece, sempre più licei pongono paletti all’ingresso, accettano solo chi ha medie alte. «Questo lede il diritto allo studio. Non possiamo cambiare la realtà di un adolescente? In un Paese dove persino la carcerazione è riabilitativa?».

Diventare competenti
La riforma vorrebbe spingere i docenti ad adottare criteri di valutazione per competenze: sarebbe corretto? «Speriamo! Il voto numerico nel 99% dei casi certifica solo le conoscenze, ma queste non sono fondamentali: se non so una cosa, in cinque minuti la trovo su Internet. Quello che ci viene chiesto, anche dal mondo del lavoro, è invece di essere competenti, di risolvere problemi nuovi. Su questo dovrebbero essere misurati gli studenti. Gli insegnanti dovrebbero interrogarsi sul valore delle conoscenze che trasmettono: sono stabili o temporanee? Se ripeto a pappagallo quello che ho studiato la sera prima prendo 9, ma cosa mi rimane dopo un mese? Un’abilità, invece, indica che io quelle cose le maneggio. E una competenza certifica che usando le mie conoscenze e le mie abilità riesco a risolvere situazioni nuove». Certamente, ma come valutarla? «In un corso a Vimercate ho chiesto ai docenti di scrivere su un bigliettino cosa pensavano fosse la sufficienza. Sono arrivate 120 risposte, le ho clusterizzate: tre pagine! Noi pensiamo di parlare della stessa cosa e invece no. Prima di tutto dovremmo concordare sul significato di sufficienza: che cosa riteniamo che tu alla tua età debba saper fare per stare al mondo. Nel momento in cui raggiungi quella competenza ce l’hai fatta: il 6 significa che ce l’hai fatta, non il 7, l’8 o il 9. E il 5? Quel voto dice che al momento non ce l’hai fatta, ma ce la farai. Che cosa significa? Faccio un esempio. Una competenza è saper sollevare questa tazza. Ci provo e sbaglio tante volte, quindi prendo tanti 4, o 5 se ci sono quasi riuscito. Ma se alla fine dell’anno riesco a farlo, perché mi devi rimandare a settembre? Io quella competenza l’ho raggiunta!».

Il valore dell’errore
Il fatto che l’apprendimento sia essenzialmente una progressione, in effetti, fa a pugni con la media matematica calcolata sullo storico dei voti. Se un ragazzino è partito dal 4 e arriva all’8, si merita forse 9 per lo sforzo che fa fatto, non 6 come indica la media. «Certo, e se uno ha preso 4, 4 e 6 in fondo all’anno, che cosa si merita? Di essere promosso! Se fai fare una cosa, passi al gradino dopo. E se non la sai fare? Vuol dire che per quella prova non sei ancora pronto, ma ce la farai. Non è una questione di impegno, ma di tempo: il numero di prove necessarie per riuscirci. Il dramma è che senza errore non c’è apprendimento, ma appena sbagli rischi l’anno. I ragazzi che sbagliano vengono etichettati subito e questo li frena dal riprovare, abbandonano la partita». Resta il problema di come si valutano le competenze... «Quando certifico la competenza di qualcuno, verifico che si sa muovere collegando saperi diversi, facendo interferenze. Per valutare la competenza serve una prestazione complessa. Bisogna fare progetti, mettere i ragazzi di fronte a problemi nuovi e vedere come se la cavano. Dobbiamo fare in modo che il docente, pur nella sua soggettività, possa certificare una competenza che, badate bene, è solo temporanea, va mantenuta nel tempo». I docenti saranno in grado di cogliere lo spirito della riforma, o tutto si risolverà in uno scambio di etichette, giudizio al posto del numero? «Il fatto che il voto non compaia più in pagella per me è già molto; la paura però è che poi si trovi la formula verbale per significare 6, 7, 8, 9 e 10. Serve molta formazione. Anche i docenti ora devono dimostrare di essere competenti, cioè di saper uscire dalle etichette. Certo, non bisogna limitarsi a usare sufficiente, buono, discreto su scala ordinale».


Intervista a Gianni Caminiti Focus Scuola gennaio 2021
Nella foto uno screenshot della testata

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L𝐎 𝐏𝐒𝐈𝐂𝐎𝐋𝐎𝐆𝐎 𝐍𝐄𝐋𝐋𝐀 𝐒𝐂𝐔𝐎𝐋𝐀

Le attività di uno psicologo nella scuola sono tante e dipendono, ovviamente, anche dalle fasce d'età di cui si occupa.
Tenterò un semiserio elenco, assolutamente non esaustivo, delle aree di intervento nella scuola di noi psicologi partendo dai reali incarichi a me affidati.

𝟏) 𝐎𝐬𝐬𝐞𝐫𝐯𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢.
Una cosa per nulla semplice. Per osservare qualcosa in una classe devi essere capace di essere o così coinvolto da essere considerato parte del gruppo, o essere talmente un “arredo” da non essere nemmeno notato.
Semplice no?
Quando un ragazzo ti appende il giubbotto sulla testa sai di esserci riuscito.

𝟐) 𝐂𝐨𝐥𝐥𝐨𝐪𝐮𝐢 𝐜𝐨𝐧 𝐟𝐚𝐦𝐢𝐠𝐥𝐢𝐞, 𝐝𝐨𝐜𝐞𝐧𝐭𝐢, 𝐂𝐃𝐂, 𝐩𝐫𝐞𝐬𝐢𝐝𝐢.
Di fronte a determinati problemi viene richiesto il “parere esperto” dello psicologo che talvolta può essere anche ospitato all'interno di organi, tipo il Consiglio di Classe o il Collegio Docenti, cui solitamente non partecipano. Il problema più grosso in certi casi è essere incisivi.
Se lo sei di solito poi hai delle frizioni da dover gestire, anche pesanti, perché ovviamente a nessuno piace sentirsi dire le cose da fare o modificare.
Se non lo sei, sembri uno che dice cose così ovvie che
“𝑝𝑜𝑡𝑒𝑣𝑎 𝑑𝑖𝑟𝑙𝑒 𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒 𝑚𝑖𝑎 𝑛𝑜𝑛𝑛𝑎”
ovvero di sentire nell'aria
“𝑒𝑐𝑐𝑜, 𝑔𝑙𝑖 𝑝𝑠𝑖𝑐𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑐𝑜𝑠𝑖̀, 𝑖𝑛𝑢𝑡𝑖𝑙𝑖”.
Quindi in definitiva hai due rischi, lavorativamente parlando. Essere mandato via dalla scuola perché inutile (non incisivo) o perché risulti scomodo (troppo incisivo).
Beh, io preferisco la seconda. Almeno prima mi diverto.

𝟑) 𝐒𝐩𝐨𝐫𝐭𝐞𝐥𝐥𝐢 𝐂𝐈𝐂.
Soprattutto nelle superiori questo ruolo è delicatissimo e una delle cose più difficili da far capire alle famiglie, ma anche ai docenti, è che il colloquio ha senso se è totalmente coperto da privacy e che i ragazzi si aprono solo di fronte alla certezza della totale privacy.
Chiaramente dire a qualcuno che ti fa domande che non potrebbe o dovrebbe farti,
“𝑓𝑎𝑡𝑡𝑖 𝑔𝑙𝑖 𝑎𝑓𝑓𝑎𝑟𝑖 𝑡𝑢𝑜𝑖”
sembra inopportuno per cui si diventa spesso smemorati.
Cose del tipo che quando un insegnante ti chiede:
“𝑎𝑙𝑙𝑜𝑟𝑎, 𝑒̀ 𝑣𝑒𝑛𝑢𝑡𝑜 𝑑𝑎 𝑡𝑒 𝐹𝑖𝑙𝑖𝑝𝑝𝑜?”
tu rispondi
“𝐹𝑖𝑙𝑖𝑝𝑝𝑜 𝑐ℎ𝑖?”
anche quando lo hai visto un minuto prima.

𝟒) 𝐈𝐧𝐭𝐞𝐫𝐯𝐞𝐧𝐭𝐢 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐜𝐥𝐚𝐬𝐬𝐢.
Di fronte a determinati problemi si è chiamati ad intervenire sul gruppo classe.
Per esempio per casi di bullismo, problemi di relazione coi docenti, lutti improvvisi.
Qui il pensiero magico la fa da padrone. E si procede ancora una volta tra considerazioni estreme.
Si va dal “𝑙𝑜 𝑝𝑠𝑖𝑐𝑜𝑙𝑜𝑔𝑜 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑒𝑟𝑣𝑒 𝑎 𝑛𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒” a “𝑣𝑎𝑑𝑎 𝑖𝑛 𝑐𝑙𝑎𝑠𝑠𝑒 𝑒 𝑟𝑖𝑠𝑜𝑙𝑣𝑎 𝑙𝑎 𝑐𝑜𝑠𝑎. 𝐼𝑛 𝑑𝑢𝑒 𝑜𝑟𝑒 𝑝𝑒𝑟𝑜̀, 𝑛𝑜𝑛 𝑑𝑖 𝑝𝑖𝑢̀”.

𝟓) 𝐅𝐨𝐫𝐦𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐠𝐥𝐢 𝐚𝐥𝐮𝐧𝐧𝐢.
Lo psicologo va nelle classi anche per formazione diretta degli alunni, per esempio sui temi delle sostanze, affettività, sessualità.
Qui si tratta di reclutare la piena attenzione ed essere molto incisivi per evitare o almeno limitare l'incontro con certi problemi agli alunni.
Questo tipo di interventi è molto delicato e se vuoi essere incisivo una qualche forma di fascinazione te la devi giocare.
L'autorevolezza necessita di ben più di due ore per instaurarsi, quindi almeno all'inizio in qualche modo devi farti notare. Anche a costo di gigioneggiare. Poi una volta “bucata” l'attenzione saranno i ragazzi a richiamarti in classe.

𝟔) 𝐅𝐨𝐫𝐦𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐢 𝐠𝐞𝐧𝐢𝐭𝐨𝐫𝐢.
E' un momento delicato. In piccolo gruppo o più spesso in plenaria si tratta di tenere conferenze su temi scelti dai genitori stessi o indicati dalla presidenza.
La cosa più difficile è il momento del dibattito. Qualsiasi tema tu svolga, a fine conferenza devi rispondere a domande più o meno su tutto lo scibile umano e su argomenti che interessano solo la persona che fa la domanda.
Poi, finita la conferenza, devi tentare di arrivare alla tua automobile, che dista solo 200metri dalla porta della sala, in un tempo almeno migliore di quello che farebbe una tartaruga. Il mio record negativo è:
finita conferenza alle 23:45, arrivato all'auto alle 2.
Ben 1,48metri al minuto.

𝟕) 𝐅𝐨𝐫𝐦𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐢 𝐝𝐨𝐜𝐞𝐧𝐭𝐢.
A me è capitato spesso di tenere corsi di aggiornamento docenti. Sono momenti bellissimi.
Voi penserete che i docenti non abbiano alcuna voglia di formarsi. Alle volte può sembrare e mi è sembrato. Ma a dire il vero solo durante i primi minuti della prima lezione. Poi mai. Anche in corsi lunghissimi, 30 ore, magari in orario non comodo, dalle 17 alle 20, con le famiglie che li aspettano a casa, è bello scoprire che i docenti restano fino ad oltre l'orario e spesso si viene allontanati da chi deve chiudere la sala.
Reclutare l'attenzione dei docenti può essere molto più difficile di quella dei ragazzi ma una volta ottenutala l'effetto “tellina sullo scoglio” è assicurato.

𝟖) 𝐎𝐫𝐢𝐞𝐧𝐭𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨.
Lo psicologo aiuta i ragazzi e le famiglie nelle attività di orientamento o, spesso, di ri-orientamento.
Qui la cosa più difficile da frenare è l'ansia, soprattutto dei genitori.
E' la versione psicologo-oracolo. Dopo soli dieci minuti, con gli occhi spalancati come un cerbiatto, ti vengono poste domande semplici che riassunte suonerebbero come
“𝑚𝑖 𝑑𝑖𝑐𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑐𝑢𝑜𝑙𝑎 𝑑𝑒𝑣𝑒 𝑓𝑟𝑒𝑞𝑢𝑒𝑛𝑡𝑎𝑟𝑒 𝑚𝑖𝑜 𝑓𝑖𝑔𝑙𝑖𝑜, 𝑐𝑜𝑛 𝑠𝑢𝑐𝑐𝑒𝑠𝑠𝑜, 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑖𝑛𝑡𝑜𝑝𝑝𝑖, 𝑖𝑛 𝑐𝑢𝑖 𝑠𝑎𝑟𝑎̀ 𝑓𝑒𝑙𝑖𝑐𝑒 𝑒 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑖𝑏𝑖𝑙𝑚𝑒𝑛𝑒 𝑑𝑜𝑝𝑜 𝑔𝑢𝑎𝑑𝑎𝑔𝑛𝑖 𝑢𝑛 𝑠𝑎𝑐𝑐𝑜 𝑑𝑖 𝑠𝑜𝑙𝑑𝑖”.

Queste ed altre cose avvengono mentre negli interstizi di tempo, a scuola, tenti di bere un caffè al bar in completo anonimato, camuffato da pianta di ficus o da espositore dei Chupa per evitare che ti arrivi la domanda della vita che inizia inesorabilmente con
“𝑐𝑒𝑟𝑐𝑎𝑣𝑜 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑜 𝑙𝑒𝑖, ℎ𝑎 𝑢𝑛 𝑚𝑖𝑛𝑢𝑡𝑖𝑛𝑜?”
(come no, al bar, ma guarda che caso!).
In quel caso si assiste anche ad un fenomeno studiato da Einstein, la dilatazione del tempo. Il minutino diventa tutta l'ora buca del docente. Come a fine conferenza il “minutino” richiesto dal genitore diventa l'alba.
Oppure, al contrario, quando qualcuno non ti conosce ancora e ti allunga la mano per presentarsi appena gli dici
“𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑙𝑜 𝑝𝑠𝑖𝑐𝑜𝑙𝑜𝑔𝑜”
istintivamente la ritrae come per paura che toccandola possa avere il potere di risucchiargli la sua storia e, chissà, i suoi segreti.

In definitiva l'essere psicologo a scuola però si riassume in un unico vero mandato. Accompagnare i bambini e i ragazzi verso la loro vita diventando ora scudo, ora mentore, ora madre accogliente ora padre incitante.
Un compito allegro come questo elenco semiserio.

Articolo di © Gianni Caminiti 7 agosto 2020.

 

LA MATURITA' SPEZZATA

Mentre esce questo post i primi ragazzi si stanno sedendo davanti alle commissioni d'esame per sostenere l'esame di maturità.
A questa scadenza abbiamo legato tantissimi nostri ricordi, sensazioni forti, ansie profonde.
La maturità non si scorda mai.

Hanno mascherine addosso.
Sono distanti metri dai commissari.
Non potranno stringere mani.
Non avranno un pubblico; solo una persona è permessa, come testimone.
Se desideravano portarsi entrambi i genitori hanno dovuto scegliere. Dolorosamente.
Alcuni per portarsi il partner non avranno vicino nemmeno un genitore. Se lo desideravano accanto.
Che scelte difficili.

Un esame che arriva quattro mesi dopo quel lontano 21 febbraio, per molti ultimo giorno reale di scuola.
Mesi di distanza sociale e spesso di solitudine.

Non hanno potuto prepararsi con i loro compagni.
Non hanno potuto abituarsi gradualmente allo stress d'esame.
Non potranno molto probabilmente mostrare tutto il loro valore.
Non hanno fatto la cena o il ballo di fine anno coi loro compagni e professori.
Non avranno il bagno di folla all'uscita dell'esame.
Non batteranno il “cinque” ai loro compagni urlando “è finita!”.
Non partiranno per il viaggio post diploma per l'Europa, come consigliavo l'anno scorso.

Un sacco di NON.

La mutilazione di questa esperienza li segnerà.
All'inizio avranno pensato che era una “libidine” non andare a scuola.
Poi hanno realizzato che gli è stata tolta una esperienza fondamentale.

L'ultima campanella e l'esame di maturità segnano da sempre il passaggio al mondo adulto per la maggior parte dei ragazzi.
Sì, sono già maggiorenni da un po' ma è l'ultima campanella e quell'esame a sancire l'entrata nel mondo dei grandi.

L'ultimo contenitore che li pensa si è dissolto.
Una “zona di comfort” che li ha accompagnati dai 3 anni, per 16 anni della loro vita.
Dissolta senza preavviso, senza quella data certa che ognuno di noi adulti invece ha avuto.
E' un trauma, vi assicuro.

Fate festa appena potrete ragazzi.
E, appena potrete, fatelo quel viaggio.
Fate in modo che sia quel viaggio ad essere quel vostro rito di passaggio.

Io, vi aspetto qui.
Sono sempre alla fine di quel tunnel.

 

STATE A CASA.
PERCHE' LO STATO SIAMO NOI

In questi giorni l'Italia come Stato si sta comportando bene.
Ce lo dice l'OMS in primis ma anche la UE riconosce, e lo riconoscerà ancor più più avanti, l'enorme sforzo che si sta provando a fare.

A me su certe cose non interessa mai di chi sia al governo.
Rispetto le leggi anche quando c'è al governo chi non mi piace. Stringendo i denti a volte ma lo faccio.
Perché ho senso civico. Perché non guardo solo al mio orticello. Non ci vuole molto per capire che i miei comportamenti possono danneggiare tanti altri.
Deve capirlo ognuno di noi.

Dobbiamo fidarci delle persone esperte che stanno gestendo la crisi. E dobbiamo restituire alla cultura, soprattutto a quella specialistica, la sua funzione.

Troppo individualismo. Troppi “pensatori liberi” senza nessuna cultura specialistica e spesso nemmeno di base.
“A me non capiterà”.
“Mi hanno detto che è una normale influenza”.
“Non possono limitare la mia libertà personale”.
E via così.

Dobbiamo comprendere che ad un virus, che è molto più piccolo di un organismo unicellulare, dei nostri discorsi da salotto, delle nostre ideologie, dei nostri guadagni, dei nostri confini, dei nostri egoismi individuali, non importa nulla. Non ne ha coscienza.

Ci siamo abituati per troppo tempo a guardare al nostro ombelico, godendo della ricchezza e della relativa tranquillità della nostra condizione, di quel 15% ricco del pianeta.
E siamo diventati arroganti.
Un virus è “una livella”, come diceva Totò. Non guarda al ricco o al povero. Colpisce tutti.

Una persona evade dalla zona rossa di Vo' per andare a sciare e viene scoperto solo perché si rompe il femore.
Una coppia di Codogno evade dalla zona rossa per andare a sciare. Erano positivi al tampone.
Migliaia di persone invadono le piste da sci. Alle 7:30 chiude il parcheggio dei piani di Bobbio per il tutto esaurito.
Dopo Elettra Lamborghini arriva Gabbani che per un inutile firmacopie fa rischiare la vita a migliaia di persone.
Un Sindaco inaugura un nuovo centro commerciale con taglio di nastro davanti migliaia di persone.
Gruppi sociali che dicono che “uscire significa ribellarsi ai poteri forti”.
E via così, irresponsabilità dopo irresponsabilità.

I casi di contagio stanno seguendo la progressione geometrica tipica della diffusione senza freni. Siamo a poche migliaia per il momento ma ogni due giorni circa i casi raddoppiano ed in breve il rischio di milioni di malati si fa reale.
Lo si può interrompere solo con comportamenti responsabili ed eventualmente, se ciò non bastasse, con forti decisioni centrali.

Come quella che si attende, lo spero proprio, di estendere la zona rossa a tutta la Lombardia e limitare gli spostamenti interni alla stessa.
Come la chiusura degli impianti sciistici.
Come l'impedire manifestazioni come quelle dette prima.
E ripetere, fortemente, di mettersi in autoquarantena, limitando al necessario le uscite e gli spostamenti.

La Cina, da cui è partito il COVID19, ora vede pochi casi. E sono più di un miliardo e mezzo di persone.
Così come succede in Giappone e Corea, nazioni che stanno controllando meglio di noi il diffondersi della pandemia.
Perché sono abituati a rispettare le decisioni che vengono prese per l'interesse collettivo.

Dobbiamo capire che le decisioni individuali, quelle prese per soddisfare esigenze individuali, in questo momento di emergenza possono essere dannose per altri.
Dobbiamo fare uno sforzo per metterci al secondo posto.

Nonostante gli appelli allo “state a casa” e le migliaia di condivisioni degli appelli “sensati” le stesse persone che hanno messo quei like e hanno fatto condivisioni, poi oggi erano al parco con centinaia di bambini, in fila sugli impianti sciistici o in fila per un firmacopie.

E' schizofrenico.
E' come se ci fossero ormai due realtà.
Sembra che, come sul vecchio “second life”, siano degli Avatar a morire e a prendere il Covid19 sui social e sui media mentre la nostra vita, spenti i social e le TV, possa continuare come prima.

Non è così.
Oggi in Lombardia si è giunti quasi al collasso delle terapie intensive in molte strutture e si devono trasferire malati ad altri ospedali. Si deve scegliere chi attaccare al respiratore. Si attacca chi ha maggiori possibilità di sopravvivere, e si decide chi non verrà attaccato. E magari quello che verrà attaccato al respiratore, più giovane e quindi con maggiori possibilità di salvarsi, ha attuato quei comportamenti scriteriati di cui ho detto sopra mentre un anziano non verrà attaccato alla macchina salvavita. E magari quell'anziano di comportamenti scriteriati non ne aveva avuti.
Ho sentito oggi la mia amica Laura, vi dico solo il nome perché ne proteggo la privacy. Lavora come infermiera in pronto soccorso in un ospedale di Bergamo ed è allo stremo delle forze. Non ci sono più respiratori e letti di terapia intensiva e mi diceva: “come faranno negli ospedali più piccoli?”. Non fa riposi se non quelli strettamente necessari e quando ha provato a far due passi in solitaria sull'Adda è tornata immediatamente a casa perché c'era “il mondo” a passeggiare, come nulla fosse.

So che è difficile stare a casa.
Soprattutto so che direte “ma i bambini come faccio a non farli uscire?”.
Come fare?
Come avrebbero fatto le nostre nonne.
Se c'era una cosa giusta da fare la facevano. Anche a costo di essere odiate.
Non si rischia la vita di nessuno per debolezza o perché è difficile.
Il ruolo del genitore è questo. Fare la cosa giusta, non quella comoda o che ci “fa amare”.
Era uno dei temi delle conferenze rinviate.

Oggi più che mai dobbiamo essere consapevoli che tutti noi SIAMO lo STATO.
Ognuno coi propri comportamenti amministra il suo essere Stato.
Non dobbiamo mettere in atto comportamenti individualistici ed egoistici.

Vi confesso, prima di salutarvi, qualcosa di molto personale.
Mi mancate. Mi mancano le conferenze, con tutta quella gente. Tutte rimandate a... boh.
Mi manca l'essere a presentare le proiezioni del mio film e a parlarne col pubblico. Tutte proiezioni annullate ancor prima di essere annunciate.

Verrà il tempo di ritrovarsi.
Quel giorno non è oggi e l'ho accettato.
Per cui scriverò più spesso per essere vicino a chi mi legge e mantenerne il contatto, se è qualcosa che pensate giovi almeno a qualcuno.

Ci rivedremo certamente ancora di persona ma, da oggi e per un po', per favore, State a casa.


Articolo di ©Gianni Caminiti - 7 marzo 2020

 

NON E' UNA VACANZA

Non piace a me e credo non piaccia a nessuno aver dovuto modificare lo stile di vita.
Starsene a casa, chiudere le scuole, non girare come prima.
Non piace proprio a nessuno.

La situazione non è ancora fuori controllo, per fortuna, ma può essere controllata unicamente se TUTTI fanno la loro parte.
Soffro a vedere i cinema vuoti, prima, e chiusi, poi, per esempio. Ma è necessario.

La percentuale di persone che necessita e necessiterà di terapia intensiva, respiratori automatici e cure pesanti è abbastanza alta da mettere in ginocchio il Sistema Sanitario Nazionale.
Ci dobbiamo ammalare gradualmente per evitare il collasso del sistema.
E essere attaccati ad una macchina, sedato, quindi incosciente, non è una cosa che auguro a nessuno. Anche ai familiari che aspettano di sapere se il proprio congiunto se la caverà o meno.

Quando vedo scene come ieri, con un centro commerciale pieno di centinaia di persone che si fanno un Selfie con Elettra Lamborghini mi chiedo chi abbia permesso questa cosa. Mi chiedo se questa "artista" ed il suo management verranno sanzionati pesantemente.

Non è una vacanza. Non deve esserlo.
Non sopporto l'idea che qualcuno abbia pianificato o pianifichi ora, vista la sosta, di andare magari al sud dai parenti. O a farsi una gita in montagna, a sciare, con funivie piene.
La sospensione didattica (non la chiusura), che crea le condizioni per mantenere i docenti nei luoghi dove abitano, perché possono essere richiamati a lavoro, è una di queste misure giuste, per esempio.

Stiamo nei luoghi dove abitiamo e facciamo altro.
Leggiamo, studiamo, suoniamo, dipingiamo e ovviamente lavoriamo, dove possibile da casa.

Al nord siamo messi peggio in questo momento di altre parti d'Italia e dobbiamo evitare di andare altrove a portare il contagio.

Contano i comportamenti individuali.
C'è bisogno di coscienza.
Senso civico. Individuale e collettivo.
Dissuadete amici e conoscenti che vogliono spostarsi come se nulla fosse in giro per l'Italia per motivi non necessari.

Ognuno di noi perde e perderà qualcosa.
Ho appena visto, con mio pieno accordo, cancellare tutta una serie di mie conferenze e altre ne annulleremo perché non c'è margine di sicurezza per svolgerle.
Lavorerò dalla settimana prossima da casa in appuntamento via skype e credo sia importante che, anche nel mio piccolo studio, non si creino condizioni a rischio. Per chi ci viene e per i miei familiari.

Possiamo vincere questa situazione e spero lo faremo col minor numero di vittime possibile.
Possiamo se ognuno farà la sua parte.

Non è una vacanza e vorrei che davvero nessuno lo pensasse. Nemmeno per un momento.


Articolo di ©Gianni Caminiti - 6 marzo 2020

 

UNA BUSSOLA PER ORIENTARE (BENE) I RAGAZZI

INTERVISTA ALLA RIVISTA FOCUS SCUOLA


𝑁𝑜𝑛 𝑡𝑎𝑟𝑝𝑎𝑟𝑒 𝑙𝑜𝑟𝑜 𝑙𝑒 𝑎𝑙𝑖, 𝑎𝑠𝑐𝑜𝑙𝑡𝑎𝑡𝑒 𝑖 𝑙𝑜𝑟𝑜 𝑠𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑒 𝑡𝑒𝑛𝑒𝑟𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑙’𝑎𝑑𝑜𝑙𝑒𝑠𝑐𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑒̀ 𝑢𝑛 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑜𝑑𝑜 𝑑𝑖 𝑠𝑡𝑟𝑎𝑜𝑟𝑑𝑖𝑛𝑎𝑟𝑖𝑒 𝑡𝑟𝑎𝑠𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖.
Articolo Di Barbara Leonardi

«Nell’antichità per fare un viaggio non esistevano bussole o mappe. Spesso nemmeno le strade. Si attendeva l’alba: il Sole sorge a Oriente e grazie a questo riferimento si conosceva la giusta direzione da prendere. Orientarsi è volgersi al Sole nascente. Dobbiamo ricordarlo ai ragazzi, e fare in modo che all’alba siano pronti per il loro viaggio».

Gianni Caminiti, psicologo ma anche regista, musicista, scrittore e editore, definisce così quello che per molti insegnanti è il principale cruccio di questo periodo dell’anno: il consiglio orientativo in uscita dalla terza media. Lungi dall’essere una semplice formalità burocratica, a detta degli esperti è invece lo snodo fondamentale della concatenazione di eventi e motivazioni che porta tanti, troppi ragazzi ad abbandonare la scuola. I dati sulla dispersione scolastica sono terribilmente seri. Quelli forniti dal MIUR si riferiscono all’anno scolastico 2017/2018 e sono in lieve miglioramento. L’1,17% degli studenti della scuola secondaria di primo grado ha abbandonato durante l’anno, non si sono iscritti all’anno successivo, o si sono persi nel passaggio tra primo e secondo ciclo. Un dato che s’innalza al Sud ed è sensibilmente più elevato tra i ragazzini stranieri. Passando alle superiori, l’abbandono supera il raddoppio, arrivando al 3,81%. Un dato, anche qui, più sconfortante al Sud e davvero preoccupante tra gli stranieri. Negli ultimi due anni però la situazione sembra essere notevolmente peggiorata se guardiamo ai dati Istat, incrociati con i risultati dei test Invalsi: i giovani tra i 18 e i 14 anni che hanno abbandonato la scuola prima del traguardo finale sono quasi il 15%, in crescita. L’Italia è quart’ultima in Europa e lontana dall’obiettivo del 10% indicato dall’Unione europea. E se aggiungiamo i ragazzi che sì hanno ottenuto un diploma ma non se ne faranno nulla perché non hanno raggiunto quei traguardi minimi previsti dall’Invalsi dopo 13 anni sui banchi di scuola, arriviamo a cifre da capogiro. Tra dispersione esplicita e implicita si supera il 22%. In Campania, Sicilia e Sardegna un ragazzo su tre molla il colpo.

Una decisione prematura
«Per molti quella fatta a 13 anni è una scelta prematura» racconta Francesco Dell’Oro, esperto dei processi formativi, per anni responsabile del Servizio orientamento scolastico del Comune di Milano. «Ho raccolto ultimamente 1.262 richieste di aiuto: 428 femmine e 834 maschi, a dimostrazione del fatto che proprio i maschi fanno più fatica perché ancora immaturi. L’ideale sarebbe rinviare la scelta, dopo un biennio comune. Ma nessuno tra i legislatori che hanno riformato il nostro sistema scolastico si è degnato di considerare l’esperienza quarantennale degli ITSOS, nati negli Settanta proprio con un biennio operativo comune per tutti. Io l’ho proposto più volte, ma ho raccolto soltanto il rifiuto sdegnato dei genitori e il rifiuto sdegnoso degli insegnanti... Un orgoglio insensato». «I primi colloqui con ragazzini da ri-orientare li fisso già a settembre. Arrivano da me dopo pochi giorni di scuola, hanno “cannato” completamente» commenta Caminiti. « È chiaro che si chiede agli alunni di scegliere troppo presto: le iscrizioni sono a gennaio, se a giugno uno ha cambiato idea, fa già fatica a modificare l’iscrizione. L’orientamento a 15/16 anni potrebbe davvero abbattere i numeri della dispersione scolastica».
Eppure, le informazioni non mancano. Di orientamento si parla a scuola, i genitori spesso partecipano a incontri affollatissimi con gli esperti, poi ci sono i siti internet, le brochure… «Nel mio studio arrivano invece decine e decine di ragazzi delle terze che non sanno niente di orientamento, che non lo hanno mai fatto» assicura Dell’Oro. «In molte scuole non se ne parla affatto. Dovrebbe essere parte integrante dell’attività didattica fin dalla primaria. Viene invece vissuto in alcuni istituti come un disturbo. Molti insegnanti non conoscono neppure come è organizzato il sistema scolastico italiano. Sembra assurdo ma è così.
E gli open day? Tante famiglie ci passano praticamente tutti i fine settimana di novembre. I genitori si stanno proiettando in una ricerca quasi compulsiva con il risultato di aumentare l’incertezza e la confusione. È una tragica operazione di marketing: agli open day raccontano un sacco di fandonie. Però portarci i ragazzi è utile, loro hanno antenne pazzesche, riescono a individuare gli insegnanti che hanno passione e quelli che tirano a campare, a distinguere un clima accogliente da uno competitivo. Fidiamoci delle loro impressioni»

Desidero, dunque mi impegno
E soprattutto ricordiamoci che i veri protagonisti dell’orientamento sono loro, i ragazzi. Al contrario, spesso pesano sulla bilancia molto più le aspettative delle famiglie o i pregiudizi degli insegnanti piuttosto che i desideri degli alunni. «I genitori si tradiscono già al telefono, mi dicono che vogliono fissare un appuntamento per orientare il figlio che deve fare il liceo…» racconta Dell’Oro. «Ma anche gli insegnanti spesso commettono un tragico errore pedagogico: il messaggio che arriva nelle aule è che i bravi vanno al liceo, i meno bravi al tecnico, quelli in difficoltà ai professionali, quelli che non hanno voglia di studiare alle scuole regionali. Questo è sbagliato perché si basa su quello che i ragazzi non sanno fare, invece che valorizzare quello che sanno fare».
«Il liceo getta LE FONDAMENTA in attesa di costruire un edificio bello grosso» spiega Caminiti. «Bisogna tenerne conto e invece in Italia il 55% dei ragazzi si iscrive al liceo. Paradossalmente il liceale è quello che si disperde di meno se guardiamo il dato relativo all’intero quinquennio. Magari si ri-orienta, ma arriva fino in fondo. Solo che spesso ci arriva sui gomiti. Svenato e demotivato, non si iscrive neppure all’università oppure molla prima. Non dimentichiamo che abbiamo solo il. 19% dei laureati, la metà della media Ocse. Ai genitori dico sempre che la scuola migliore per i loro figli è quella che finiscono, e non sui gomiti».
Il consiglio per gli insegnanti è principalmente quello di non tarpare le ali. «I ragazzi che incontro sono terribilmente demotivati e questo è scandaloso, perché la motivazione è iscritta nel nostro Dna: i bambini nascono con una motivazione fortissima, perderla è contro natura» sostiene Caminiti. «È lo studente che deve dire quello che vuole fare, on gli adulti. Dategli un foglio bianco, fategli scrivere quello che gli piace, come deve essere la sua scuola ideale. Ha diritto di sognare. Poi si cercherà la scuola reale che più somiglia a quell’’ideale. L’insegnante che prende in consegna questo progetto di vita deve analizzarlo insieme al ragazzo, segnalandogli le competenze che ha già raggiunto. Per quelle che sono ancora carenti gli può consigliare esercizi in più per mettersi in pari. A uno studente scarso in matematica che sogna di fare il liceo scientifico non possiamo dire che non lo può fare. Diciamogli piuttosto che dovrà rimboccarsi moltissimo le maniche. Il consiglio orientativo non può essere ostativo». «Gli insegnanti che tarpano le ali non considerano l’imponderabilità legata alla crescita» concorda Dell’Oro. «I ragazzi potrebbero essere completamente diversi tra qualche anno. Quando io frequentavo la terza media mi consigliarono di non continuare a studiare. Il prof non aveva tutti i torti in quel momento, ma l’adolescenza è una fase straordinaria di trasformazione a livello fisiologico, ormonale, cognitivo, relazionale. Non possiamo non tenerne conto. Mai, mai dare giudizi. La nostra è una scuola troppo giudicante che ferisce le anime, mi arrivano troppe anime ferite».

Imparare a imparare
Infine, meglio abbandonare l’idea che la scelta della scuola superiore sia da mettere in relazione con la propria futura vita lavorativa. «Quando incontro i genitori alle mie conferenze come prima cosa chiedo di alzare la mano a chi fa il lavoro per il quale ha studiato. Ogni volta le mani alzate non sono più del 30%» racconta Caminiti. «Il problema è che l’esperienza scolastica è spesso vissuta come una tassa da pagare prima di vivere. Ai ragazzi dico invece che devono scegliere quello che amano studiare ora. Quantomeno alla fine avranno imparato a imparare e saranno più felici e potranno poi decidere che cosa fare nella prossima tranche di vita. L’infelicità scolastica è l’anticamera di ogni mancata eccellenza. Continuate a rendervi competenti, ragazzi: più competenze avrete, più lavori potrete fare. Se riuscissimo a dare senso al percorso scolastico, potremmo abbattere non solo la dispersione ma l’infelicità umana».

22 gennaio 2020
Nella foto la copertina della rivista, numero di Gennaio 2020

Smania Thougths by Gianni
 

UNA COLLEZIONE INSIGNIFICANTE
DI ESSERI UMANI

Stamattina sono al bar con mio figlio.
Prima di andare a scuola, una volta alla settimana, ci concediamo un croissant (vegano) caldo.
Al tavolino dietro di noi è in corso una discussione accesa.

“Vi abbiamo fatto un culo così ieri.”
“Ancora dieci minuti e avreste preso un sacco di botte.”
“Parla, parla. Tanto finirà come l'anno scorso. Vinciamo ancora noi.”

Non ho bisogno di girarmi.
Nessuno dei tre uomini alle nostre spalle ha occhi neri o ferite.
Parlano di Calcio. Sono tifosi.

Il Tifo.
Quando all'università studiai Psicologia Sociale fui molto affascinato da un fenomeno descritto da Henri Tajfel.
Accidenti, come si chiamava?
Persone diversissime tra loro, con interessi spesso incompatibili che divengono “Fratelli” per un vessillo, una maglia, un simbolo. Persone che si aggregano in momentanei gruppi senza veri motivi.
Ne rimasi colpito anche perché questa cosa passava del tutto inosservata nella nostra società. Era così per la stragrande maggioranza delle persone.
Era normale.

La parola, anzi, le parole che risuonano più spesso in questi aggregati umani sono
NOI e VOI.
O peggio
NOI e LORO.

Quando parlano di calcio, persone con redditi infimi rispetto a quelli dei campioni che seguono che parlano di LORO vittorie o LORO sconfitte.
Come fossero vittorie personali.
Allo stadio risuonano cori con “Vinci per noi”.

Quando ero piccolo questa malattia invase anche me e allo scadere dell'ultimo minuto dei mondiali di calcio ci riversammo tutti in strada in preda ad un'euforia che oggi ricordo incomprensibile.
Noi, quelli davanti alla TV, non avevamo vinto proprio nulla.
Quelli in campo, invece, avevano vinto un torneo importantissimo, un mondiale. E contratti ricchissimi per l'anno successivo.
Noi nulla.

Il Tifo.
Quella cosa che ti fa gioire se “vinci” 1 a 0 una partita orribile nella quale “hai giocato” malissimo e ti fa soffrire se “hai perso” 5 a 4 una meravigliosa partita, divertentissima e con tanti gesti tecnici.
Pur non avendo fatto personalmente nulla.

Smisi molto giovane di “tifare” e poi di guardare il calcio. Poco dopo aver smesso di giocarlo.
Troppo violento, soprattutto nei modi.
Troppi soldi.
Intendiamoci, quel troppo era troppo per me.

Ma il tifo è in agguato ad ogni angolo.
A volte è un altro sport.
A volte un partito.
A volte un gruppo sociale.
Una nazione perfino.

Mi accorsi presto che senza tifo si stava meglio e, per esempio, si godevano maggiormente alcuni tipi di spettacolo.
Mi è sempre piaciuto il Rugby e per un certo periodo ho guardato in TV il 6 nazioni.
Ho iniziato a godermi soprattutto le partite quando non giocava l'Italia. Perché un residuo di “tifo nazionale” in me restava.
Che bello vedere andare in meta il Galles e sperare che subito dopo fosse l'Irlanda a far meta per riequilibrare la partita per godermela ancora più a lungo.
Che belle partite. Che azioni.
Senza tifare. Godermi il gioco. Solo il gioco.
Senza appartenere a nessun... Granfalloon.

Ecco come si chiamava.
Ci ho dovuto pensare per qualche minuto prima di ritrovare questa parola in memoria.
Il Granfalloon , è un gruppo di persone la cui associazione reciproca non ha alcun senso.
E' una “collezione insignificante di esseri umani”.
Un “padrone” di un'azienda che siede accanto ad un operaio allo stadio.
Tifano la stessa squadra. La stessa maglia.
Non potrebbero essere più diversi. Negli interessi, negli stili di vita. Ma quella maglia per la durata della partita li fa sentire uguali. Con lo stesso scopo. E si abbracciano al goal e soffrono insieme alle sconfitte.

Tutto ciò sarebbe solo pittoresco.
Se non fosse spesso anche tragico.
Quel NOI e LORO.

Il fratello di una mia amica finì in carcere per aver accoltellato e ucciso un uomo allo stadio.
Anzi fuori dallo stadio, prima di un Milan – Genoa.
39 persone morirono in uno stadio prima dell'inizio della finale di Coppa Campioni (si chiamava ancora così).
E via così.

Quel NOI e LORO però lo trovi ovunque.
Andando più dentro la nostra società le maglie diventano colori di partito.
E oggi, di nuovo, dopo tanto tempo, della pelle.
Pensavo che almeno questo ce lo fossimo lasciati definitivamente alle spalle.

Sono Italiano.
Quanto mi suona strano questa parola stamattina, questa appartenenza, mentre addento l'ultimo pezzetto di croissant.

Cos'è un italiano in fondo?
Uno che è nato su un pezzo di terra?
Uno che condivide una cultura?
Uno che vive in un luogo?
Uno che ha la “cittadinanza”?
Forse tutte queste cose insieme.

Però l'altro giorno un ragazzo è stato insultato e malmenato pesantemente perché nero.
Eppure era nato su questo pezzo di terra.
Ne condivide dalla nascita la cultura.
Vive in Italia.
Ha la cittadinanza.
Era stato un dettaglio a scatenare l'appartenenza malata. Un dettaglio alla rovescia.
Quel ragazzo aveva ed avrà una “maglietta di colore diverso”. Che non potrà mai svestire.
La sua pelle.

Che poi avesse davvero importanza il colore della maglia. Per il tifoso, intendo.
La memoria corre ad un fatto strano sempre preso a prestito dal calcio.
Il Milan preferiva in finale di Champions League utilizzare la maglia bianca perché aveva vinto altre finali con quella.
La prima volta capitò per i colori troppo simili alla magia dell'avversario. Quindi il Milan era stato obbligato alla maglia bianca. E invece ne aveva perse altre con quella ufficiale.
Quindi il Milan aveva vinto più trofei senza quella maglia “rossonera” addosso e preferiva giocare le finali in maglia bianca. E quella maglia rossonera, tecnicamente, è l'unica cosa che tiene insieme il granfalloon dei tifosi.
Nient'altro.
Non un uomo del Milan di quando ero bambino gioca ancora.
E nessuno di quegli uomini è oggi l'allenatore.
Nessuno.
I “tifosi del Milan” (e di qualsiasi squadra) sono un gruppo che sta insieme per “l'attaccamento ad una maglia” che però poi al momento giusto è preferibile non indossare.

Troppo irrazionale.
Troppo per spiegarlo a mio figlio che a 8 anni non ha mai visto una partita in TV.
Troppo per rispondere mentre mi guarda negli occhi e mi chiede:

“Di cosa stanno parlando papà?”
“Di niente amore, vai a lavarti i denti, io vado a pagare.”

Ora che ci penso però qualche giorno fa mio figlio mi ha detto:
“Noi della 3^ B siamo i migliori.”
Non ricordo nemmeno per cosa me lo abbia detto.
I granfalloon sono davvero in agguato ad ogni angolo.
Dovrò vigilare.
Non sarà facile proteggere mio figlio da questi aggregati umani.

Accidenti.
Mi sono perso ancora una volta nei miei pensieri.
Anche oggi arriveremo tardi a scuola.

Articolo e Foto di ©Gianni Caminiti - 21 gennaio 2020
Editing della foto di Chiara Resenterra

Smania Thougths by Gianni
 

CHI MI ABITA?
IL TEATRO E LA NOSTRA VITA

Non è difficile recitare.
In un cinema, in un teatro o in una scatola luminosa sempre più piatta alla fin fine vanno in scena situazioni che quasi tutti abbiamo vissuto.
Abbiamo fatto l'amore, riso a crepapelle, ci siamo imbarazzati, incazzati come delle belve assetate di sangue, pianto emozionati davanti alle prime parole di un figlio, spaventati a morte dopo una frenata improvvisa in auto.
Tutte situazioni che, vissute realmente, ci hanno visti “perfetti attori” in scena.
Erano le nostre vite.
Dai, non dovrebbe essere difficile, no?
Come una playlist di canzoni dovremmo poter caricare quelle emozioni e situazioni in memoria e riproporle facilmente.

Play. Rido. Stop.
Play. Piango. Stop.
Play. Mi incazzo. Stop.
Play. Mi spavento e urlo. Stop.
Non dovrebbe essere difficile.
Ma invece lo è. Terribilmente difficile.

No, non ci siamo.
Ricomincio.

E' difficilissimo recitare.
Quando dobbiamo recitare situazioni vissute o simili a quelle vissute sembriamo di colpo vergini ad ogni esperienza.
Quasi che improvvisamente avessimo resettato il nostro database esperienziale ed emozionale e tutte le vicende, che abbiamo vissuto nella realtà, ci siano aliene.
Quelle esperienze, simili o rese tali nella finzione o interpretazione di un ruolo, ci vedono imbranati “in scena”.
Non sono affatto le nostre vite.
Dai, è normale che sia difficile, no?
Si è inceppato il Play come in un vecchio walkman, si è “strappato il nastro” della cassetta, i fogli del copione sono volati via.
Siamo nudi.

Play. Si ride falsamente. Stop.
Play. Si piange a secco. Stop.
Play. Ci si arrabbia che manco un bimbo ci crederebbe. Stop.
Play. Ci si spaventa come “L'urlo di Munch”, con tanto di mani sulla faccia. Stop.
Dovrebbe essere difficile ma invece non lo è.
Terribilmente semplice.

Oddio, non ci siamo.
Di nuovo.
Ricomincio ancora.

Recitare è facile?
È difficile?
Serve?

Sarebbe forse semplice recitare, se fossimo stati completamente presenti a noi stessi mentre vivevamo esperienze.
Quasi come se fossimo stati in grado di oggettivarci ed essere stati lì a osservare molto attentamente noi stessi mentre facevamo cose e provavamo emozioni.
Ma così non è.
Mentre viviamo siamo troppo impegnati per essere così vigili.

Ma perché nella nostra vita siamo capaci di essere “personaggi” differenti e “in scena” no?

Siamo abitati.
Abbiamo dentro una piccola tribù incazzata nera, impaurita, spavalda, innamorata.
Una tribù che ha forconi, coperte di Linus, trucco pesante, scatole di cioccolatini a forma di cuore.
Una tribù che mette in scena, nella nostra vita reale, emozioni autentiche.
A turno ogni suo abitante.
E siccome ognuno di questi “piccoli personaggi” prende parola al momento giusto, tutto va bene.
Va bene anche quando le cose vanno male, ovvero quando piangiamo, ci spaventiamo, ci arrabbiamo.
Siamo calati nella “parte”.
O meglio. Viviamo.

Se proviamo a recitare ci rendiamo conto di colpo che prende il sopravvento un unico personaggio, centrale, autoritario, più rigido, il capopopolo, il coordinatore delle anime che possediamo.
Quando recitiamo non solo su un palco.
In una interrogazione a scuola.
In una riunione di lavoro.
Con un microfono in mano ad una manifestazione.

Eccolo! Prende il sopravvento quel noioso e monocromatico personaggio.
Quello che ha imparato dalla vita quale è il mono-tono che ci rende tollerabili agli altri.
L'anima meno artistica che abbiamo.
Quella “accettabile” dagli altri.
O almeno lo crede.

E si sbaglia di grosso.
Perché non è affatto così.
Ognuno di noi è in cerca di “autenticità” e quando la trova, anche raramente, sente immediatamente una ventata di freschezza.
Quando l'autenticità la riconosce in un attore lo guarda come fosse un Dio.

Ma perché si fa fatica ad essere veri fuori dalla vita vissuta?
Quando siamo fuori dal “pubblico”?
Quando i riflettori sono puntati su ognuno di noi?
Quando abbiamo un ruolo e interpretandolo pensiamo di non poter essere noi stessi?

Siamo in balìa delle cose che ci hanno insegnato.
Abbiamo imparato a nostre spese a dividere nettamente quello che pensiamo da quello che diciamo.
Il modo in cui parliamo da quello che usiamo per scrivere.
Fino a diventare persino vuoti e retorici.
Gli insegnanti di Italiano lo sanno bene, annoiati davanti ai temi degli studenti, molti dei quali scritti come se fossero documenti burocratici. Annoiati anche quando sono stati tremendamente responsabili di quello spreco di possibili anime. Di quella strage di voci e personaggi.

Il teatro, recitare, è (anche) una occasione per imparare da noi stessi.
Per renderci capaci di osservarci e scoprire quali abitanti di questo piccolo popolo hanno preso parola mentre vivevamo tra il “pubblico”. Mentre eravamo fuori dal fascio di luce di uno “spot”. E scoprendolo, poterli richiamare quando occorre.
Osservandoci riusciamo anche a far vivere parti di noi (o meglio lasciar vivere personaggi interni), che sono compresse, odiate da noi stessi, rifiutate.
Parti di cui vergogniamo.
Parti negative che hanno anch'esse bisogno di manifestarsi.
Parti che altri non ci hanno mai permesso di esprimere, quando eravamo più piccoli, e che in seguito abbiamo represso autonomamente.
Spesso inconsapevolmente.

Siamo almeno una volta tutti stati amanti dolcissimi o perfidi aguzzini.
Spavaldi condottieri o miti pecore tutte in fila dietro il pastore che le guida al macello.
Glaciali agenti segreti o piagnucolosi bimbi impauriti.
Facendo teatro puoi sperimentare tutte queste situazioni. Tutti questi “ruoli”.
Non per diventare attori. Non tutti dobbiamo diventarlo. Ci mancherebbe altro.
Per vivere più coscientemente tutti questi ruoli.
Perché li abbiamo dentro.
In quel piccolo popolo che ci abita.

Possiamo farlo per essere migliori come persone.
Più consapevoli.
Con maggiore autostima.
Per dare, in fondo, nuovamente voce a quel bambino piccolo che, rannicchiato in qualche anfratto, è certamente sopravvissuto in noi.
Quello stupito, amareggiato, imbronciato, spaventato, giocoso, innamorato.
A lui che non conoscendo ancora la vergogna, prima di essere scacciato dall'Eden dell'infanzia, tutto sembrava possibile, accettabile e autentico.

“Ringraziamo Iddio, noi attori, che abbiamo il privilegio di poter continuare i nostri giochi d’infanzia fino alla morte, che nel teatro si replica tutte le sere”. (Gigi Proietti)

Articolo di ©Gianni Caminiti - 15 novembre 2019
La foto è di ©Mario Biancardi/©cineSmania®  è contenuta nel libro "Istantanee" - cineSmania Ed. 2017
Editing della foto di Chiara Resenterra

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LA VITA E’ UNA TRAPPOLA?

In letteratura non mancano, come per cinema e TV, esempi enormemente riusciti di processo.
Uno su tutti “il processo” di Franz Kafka.
Kafka non ne avrebbe voluto la pubblicazione, uscì postumo tra gli scritti che il suo curatore testamentario avrebbe dovuto distruggere secondo le sue indicazioni. Non terminato perché non amato evidentemente. Voleva persino dargli fuoco.
Nonostante tutto ciò il suo incompiuto scritto ha influenzato notevolmente la letteratura successiva.
Non riassumo il racconto, che potreste aver letto, ma mi soffermo su alcuni suoi temi che mi sembrano interessanti e molto attuali. La razionale e fredda giustizia contro un accusato, arrestato e poi mandato a processo per motivi a lui sconosciuti e mai rivelatigli dalla corte. Giustiziato senza mai conoscere il capo d'accusa.
Il processo di Kafka ha avuto talmente tanta importanza nella letteratura da far entrare prepotentemente nel lessico, non solo di settore, l'aggettivo “Kafkiano”, ad indicare proprio lo stile, asciutto e impersonale ma anche il tema della assurdità e imprevedibilità della vita che ci pone di fronte a situazioni angosciose e assurde, fino al giudizio finale e alla morte.

Utilizzo il romanzo di Kafka con uno scopo preciso. Porci una domanda: cosa va davvero a giudizio?
Quello del romanzo è uno spietato giudizio, in fondo, alle nostre vite quotidiane, alle strutture sociali in cui siamo inseriti, al non senso che ci pervade. All'anomia (mancanza di norme ma anche mancanza di regolazione morale) che attanaglia la vita dell'essere umano nella società (Durkheim), vittima consenziente dell'alienazione sociale (MacIver).

Siamo dunque sofferenti e consenzienti?
Sì!
Consenzienti.
E' in questo che si sostanzia l'assurdità della vita.
Siamo noi stessi i primi artefici delle vicende che ci disturbano. Siamo alla continua ricerca del piacere edonistico senza essere più capaci di distinguere il bene (anche o soprattutto il nostro bene) dal male.
E in questo Processo interiore cui siamo sottoposti, che porta alla continua sofferenza, si dispiegano le quotidiane esistenze degli esseri umani.
Ma è una sofferenza inconsapevole, anestetizzata.
Si paga la pena senza soffrirne o almeno rendercene pienamente conto.

Il massimo esponente di questo pensiero, persino profetico, a mio parere fu Aldous Huxley. Insieme a George Orwell fu fondatore dei controutopisti (distopici, coloro che immaginavano una società altamente spaventosa!). Con Orwell condivide il tema del potere assoluto e della tirannia dello stato, ottenuta però con metodi molto diversi.
Nel suo “Il mondo nuovo”, del 1932, ambientato nel 2540, Huxley intuì, molto prima dell'avvento della tecnologia attuale, quanto queste nuove e strabilianti innovazioni avrebbero avvicinato l'uomo allo status consono al solo Dio ma quanto queste stesse sarebbero state la sua rovina. Una rovina però ammorbidita dal fatto che la dittatura viene, e verrà in futuro, ottenuta narcotizzando le coscienze.
Schiavi felici di esserlo, che quindi non hanno bisogno apparentemente di essere controllati in modo costrittivo, che mettono al mondo figli concepiti allo scopo di perpetuare questo stato di cose.

Queste idee visionarie, molto attuali peraltro, hanno ispirato fortunatissime idee cinematografiche quali per esempio “Matrix” o “Terminator”.

E' dunque in questo che sta il vero capo d'accusa?
La nostra vita.
Ma se questa fosse essa stessa la condanna?
Sì. La nostra stessa vita.

Sei adattato? Sei condannato.
Sei disadattato? Ancor più condannato.

Se così fosse la scelta tra la pillola rossa e quella azzurra, proposta da Morpheus a Neo in Matrix, non sarebbe una scelta vinci/perdi ma una perdi/perdi.
E infatti in quel film è così.
Perdi comunque. Prendi una pillola e sei schiavo in un mondo artificiale (alla Huxley), prendi l'altra e sei in una realtà spaventosamente cruda di guerra (alla Orwell).

Questo processo, auto-istruito, alle nostre vite va in scena ogni giorno ponendoci sempre le stesse domande.
Chi sono?
Cosa sto facendo?
Sono soddisfatto della mia vita?
E' vita la mia?
Sono intrappolato in una vita assurda e insensata?
Credo che il motivo del successo di questo genere di processi stia, almeno in parte, proprio nella profonda e dolorosa eco interiore che quelle strazianti domande quotidianamente ci pongono.

Articolo di ©Gianni Caminiti - 7 novembre 2019

 

LA ”CREATTIVITA'”
COME ANTIDOTO
ALLA PASSIVITA'

Molte persone vivono attendendo qualcosa. Spesso non sapendo bene cosa. Però attendono.
Quando ero bambino c'era una signora bionda che abitava di fronte a casa mia che stava gran parte del giorno alla finestra e guardava fuori. Non che succedesse chissà che cosa là fuori. Abitavo in una via secondaria di un paese dell'Hinterland milanese. Ma lei guardava fuori. D'inverno dietro i vetri mentre d'estate stava affacciata alla finestra. Si poteva ancora, non c'erano tutte le zanzare di oggi perchè le nostre case erano piene di nidi di rondine, che facevano il “turno di giorno” e c'erano tanti pipistrelli, che facevano il “turno di notte”. E lei stava affacciata alla sua finestra.
Mi chiedevo spesso cosa guardasse, mentre giocavo coi miei amichetti in strada, una cosa che i bambini oggi non fanno più.
Mi risposi anni dopo.
Guardava le vite degli altri. Scorci di vita certamente ma guardava e guardava senza stancarsi.
Ma invece si stancava, eccome. Perchè aveva una espressione tutt'altro che felice. Sembrava anestetizzata. Era passiva.
Ogni tanto c'era uno scossone. Una lite improvvisa in strada, urla da un appartamento della casa all'angolo in cui vivevano persone piuttosto agitate, una frenata di un'auto che rischiava di investire uno dei bambini in strada. A volte qualche signora si fermava sotto la sua finestra di ritorno dal mercato o dal panificio e scambiava due chiacchiere con lei. E a volte due chiacchiere le scambiava con qualche altra persona anch'essa affacciata ad una finestra. Quando tornava sua figlia da scuola la sua vita si svolgeva maggiormente dentro casa ma a quella finestra, ormai abituata com'era, ci tornava anche nel pomeriggio. E la domenica.
Le signore che si fermavano a chiacchierare sotto la sua finestra raccontavano storie di altre persone. Si facevano “i fatti degli altri”. Pettegole, le chiamava mio padre.
Vicino a noi c'era un palazzone con molte persone agli arresti domiciliari. Vite sconsiderate, certamente. Spesso loro erano al centro delle discussioni sotto quelle finestre. Con mezze parole e guardandosi attorno per non essere sentite.
Invece a volte si parlava di altre persone, dalle vite “normali”. A molte persone “fischiavano le orecchie”. Gli haters c'erano anche allora.
Altre volte al centro delle discussioni c'era qualche persona ricca della zona, spesso “Lui”, quel riccone che si stava comprando mezzo paese e che divenne in poco tempo il più grande costruttore edile e poi l'uomo delle “TV”.
Quando le sue TV commerciali iniziarono a diffondere i loro programmi, le finestre dalle quali si osservava la vita degli altri divennero pian piano le scatole luminose in casa.
Oggi le finestre da cui si osservano le vite degli altri sono altre. Sono virtuali.
Si chiamano Facebook e Instagram. Serie TV infinite.
Sono finestre per gente di età diverse. Ma sono comunque finestre da cui si osservano le “vite degli altri”. Spesso, come faceva la signora che si fermava sotto la finestra della mia vicina, si raccontano le vite degli altri, si rilanciano contenuti degli altri, senza approfondimento, fermandoci ai “titoli”.
Alcune persone “VIVONO”, nel bene o nel male, facendo del bene o del male, ovviamente.
Altre, i più, “commentano”. TRASCORRONO.
Ora, come allora, c'era passività nella vita delle persone. La vera differenza stava nel mezzo che si utilizzava, non nella sostanza. Le persone a quei tempi comunque dovevano spostarsi per poter commentare, almeno prima dell'avvento delle TV commerciali. Andavano al mercato invece che comprare su internet. Quel minimo di attività era obbligatoria. Non per tutti comunque. Non per la mia vicina bionda, per esempio.
Oggi ci sono tanti adulti maggiormente benestanti e annoiati. Che passano la loro vita a lavoro e poi a casa. Che passano il loro tempo libero guardando su FB o in TV le “vite degli altri”. A lavoro sognano il quando saranno a casa e, una volta a casa, non avendo ormai uno stile di vita attivo, attendono passivamente il giorno dopo. Anestetizzandosi davanti a TV e Computer. E ragazzi, altrettanto annoiati, che passano la loro vita a scuola aspettando di uscire e poi tappati in casa. A osservare dietro le finestre di Instagram le “vite degli altri”. A scuola si annoiano e sognano di uscire. Una volta a casa, si annoiano ancora. E allora spiano la “vita degli altri” in attesa di ritornare a scuola il giorno dopo. O 90 giorni dopo, come durante le vacanze estive.
Perché tanta passività? Cosa spinge le persone a vivere poco la propria vita e a guardare le “vite degli altri”?
Tantissimi fattori. Qui ne cito solo un paio.
La paura di non farcela la fa da padrona.
Se si ha paura di non riuscire nelle cose che ci piacerebbe provare a fare, spesso non ci si prova nemmeno. Meno doloroso il “ci proverò domani” che accettare una temporanea sconfitta oggi. Perchè le persone che hanno paura di non riuscire non sanno che quella sconfitta è solo temporanea. E poi, dopo anni, si trovano a rimpiangere il non aver incominciato prima a fare quella attività. Perche, in fondo, lo si sa bene che, se si fosse fatta per anni una attività, oggi la si padroneggerebbe.
Si vorrebbe essere “bravi” da subito e saltare quella lunga fase in cui non siamo pienamente competenti. Quella lunga fase di adattamento che ci porta ad essere esperti in qualcosa e che ci gratifica.
Il motivo è la poca autostima, in fondo.
Un altro fattore è che crediamo ci siano “cose più importanti” di altre. Non che lo pensiamo davvero.
E' una questione culturale. Lo crediamo. Ci hanno indotto a crederlo.
Se lavori. Bene. Se studi. Bene. Se giochi o suoni o dipingi. Male. Stai perdendo tempo.
Anche se fossero soltanto hobby, l'autostima che si ricava da quelle attività, quando ci riescono bene, sostiene quelle che diciamo “importanti”. In fondo lo si sa ma ci viene detto di “concentrarci” solo su quelle e che il resto non importa. “Non fa fare soldi”.
E se quelle attività fanno invece fare soldi (a pochi intendiamoci)?
Allora loro sono fortunati, talentuosi. Loro non siamo noi. Non sono i nostri figli. Quelle eccezioni confermano la regola. Loro sono bravi, noi No.
E allora osservando le "vite degli altri" si può gioire con loro o disprezzarli, magari solo per invidia. Perché quella vita in fondo la vorremmo noi.
Cosa si può fare?
Prima di tutto renderci conto che anestetizziamo il dolore per la nostra vita vissuta a metà utilizzando troppo quelle “finestre”. Se non si chiudono quelle finestre non lo si saprà mai. Anzi forse lo sappiamo bene ma con quegli “anestetici” fa meno male.
E poi possiamo fare altro.
Dare spazio ai nostri sogni. Anzi, No. I sogni, quando apriamo gli occhi, svaniscono. Dare spazio ai nostri obiettivi e desideri. Anche quando ci dicono che stiamo perdendo tempo. Non è mai tempo perso. Al massimo se non riusciremo bene impareremo ad essere attivi. E innalziamo comunque la nostra autostima. E poi magari scopriamo che quelle cose danno un senso alla nostra vita.
Prendi il telecomando, qualsiasi esso sia, smetti di TRASCORRERE guardando le "vite degli altri" e buttalo nel cestino.
VIVI. Spegni il mondo che non ti piace e accendine un altro.

Articolo di ©Gianni Caminiti- 7 ottobre 2019

 

L'ORIENTAMENTO
PER TUTTA LA VITA

Molti pensano che l'orientamento sia una attività che si deve fare un paio di volte nella vita, tipicamente all'uscita dalle medie e all'uscita dalle superiori. Nel secondo caso solo per quelli che vogliono andare all'università.
Non è corretto. O almeno è limitativo.
L'orientamento è un atteggiamento che ci può accompagnare tutta la vita.
E' qualcosa che riguarda intimamente la felicità dell'individuo.
Ognuno si orienta, o dovrebbe farlo, verso ciò che lo rende felice, verso attività e situazioni che diano stimoli positivi tutto il giorno e tutti i giorni.
Cosa intendo?
Che non riguarda solo la scelta di una scuola o di un lavoro ma riguarda più da vicino la felicità globale dell'individuo.
Le scelte che facciamo riguardano la nostra felicità o sono di convenienza?
Cosa vogliamo per i nostri figli e per noi stessi?
Solo stipendi alti o soprattutto soddisfazione in quello che facciamo e faranno?
Comodità e noia o maggiori sforzi e soddisfazione profonda?
Sono solo alcune delle domande possibili che possiamo porci.
Siamo dalla parte fortunata del mondo dove è possibile tentare di scegliere il proprio futuro. Scegliersi il futuro si fa a partire da scelte concrete presenti. Il futuro inizia domani non tra qualche anno. Scegliere davvero ci serve ad essere felici da subito, mentre apprendiamo le cose che saranno forse le nostre attività, anche lavorative ma non solo, di domani. In pratica dobbiamo contrastare quel pensiero che fa iscrivere, per esempio, un ragazzo all'ITIS con il pensiero, suo e nostro, già rivolto a quando lavorerà in quel settore. Non si godrà quello che ci sta in mezzo. Anni di formazione e di pratica.
Come genitori di ragazze e ragazzi che affrontano la scelta della scuola superiore, per aiutarli, possiamo prima di tutto chiederci se le cose che NOI facciamo ci soddisfano profondamente.
Se è così parliamogli prima di tutto di quello. E ogni sera raccontiamo con il nostro sorriso la profonda soddisfazione ed armonia che una vita così fatta comporta.
Se non è così, se la nostra vita non è altrettanto soddisfacente raccontiamogli di come vogliamo attuare il nostro di cambiamento.
Abbiamo, in questi casi, tentato o almeno pensato di cambiare? Anche il lavoro ma non solo.
“Ma io ho 40 anni, cosa potrei fare?”
“Devo buttare tutto quello che ho costruito?”
“Ma io so fare solo questo”
Sono alcune delle obiezioni che mi sono state poste durante le conferenze, non solo di orientamento.
Tutte cose reali, vere, dolorose. So perfettamente che il cambiare mette ansia e che da certi pensieri ansiogeni ci si difende.
Proviamo a pensare in modo diverso per un istante senza prendere decisioni. Pensiamo serenamente, senza dover decidere subito, per evitare di difenderci prima di tutto dalla paura che ogni cambiamento comporta.
Se, per esempio, non amiamo il lavoro che facciamo e non sappiamo fare altro è normale che al massimo troveremo posti di lavoro simili a quello che già abbiamo. Proviamo allora a pensare che ci restano davanti 10,15, 20 anni o più di lavoro. Preferiamo essere insoddisfatti per tanti altri anni o possiamo fare qualcosa? Potremmo iniziare col trascorrere parte del nostro tempo a studiare, praticare altro, per prepararci al cambiamento.
Difficilmente si può cambiare se non si attuano prima cambiamenti interiori profondi.
Pensare di cavalcare il cambiamento e non di resisterlo è il primo passo forte, interiore, profondo.
Questo modo di pensare ha una forte ripercussione sulla nostra felicità.
Un modo non utopistico di affrontare grandi cambiamenti potrebbe essere questo.
Prepararci.
Sin da quando sto studiando e facendo pratica della prossima attività che tenterò di realizzare sono già più felice.
Attivarci.
Quando sarò minimamente pronto potrò affiancare la nuova attività a quella che già faccio con meno o nulla soddisfazione.
Attuare il cambiamento.
Quando mi sentirò solido nella nuova attività potrò smettere quella meno gratificante per dare tutto me stesso in quella nuova.
Facendo così ci sentiamo sin da subito in cambiamento. Senza aspettare passivamente che qualcosa cambi.
Perché nulla cambia da solo.
Proviamo a donarci la meravigliosa sensazione di essere di nuovo padroni della nostra vita.
Questo vale anche quando siamo soddisfatti e comunque ci impegneremo per cercare altro per migliorarci. Per andare sempre di più verso i nostri più autentici obiettivi.
In una parola: autorealizzazione.
Se i nostri figli ci vedranno stoicamente sopportare una vita che non volevamo e che non tentiamo di cambiare ascolteranno non quello che diciamo ma quello che vedono.
Vedranno insoddisfazione. E ci imiteranno.
Se i nostri figli ci vedranno impegnati nello studio e nella pratica di qualcosa che inseguiamo con ostinazione e gioia ascolteranno da noi un insegnamento ben più importante delle migliaia di parole che potremmo dirgli.
Vedranno soddisfazione. E ci imiteranno.
Termino con una spiegazione del termine orientamento.
Prima di tutto per l'amore che nutro per la parola stessa.
In antichità per fare un viaggio non esistevano bussole o mappe. Spesso nemmeno le strade. Si andava semplicemente nella direzione giusta. Fino a destinazione.
Come? Attendendo l'alba. Il sole sorge ad oriente e grazie a questo riferimento si conosceva la giusta direzione da prendere.
Orientarsi è volgersi al sole nascente.
Fate in modo che al sorgere del sole siate pronti al viaggio.
E che lo siano anche i vostri figli.

Articolo di ©Gianni Caminiti- 18 settembre 2019

 

GLI INCONTRI. QUELLI BELLI

Si comincia una nuova avventura ragazzi.
Sì, lo so, le vacanze sono meravigliose, anche se so che purtoppo non sono state così per molti. Per alcuni saranno state fantastiche e per altri solitudine e noia.
Che siano andate bene o male, in ogni caso, è il passato.
E' ora di guardare a domani. E domani inizia un nuovo anno scolastico.
Voglio scrivere un augurio agli studenti. Voglio farlo in modo particolare.
Parlandovi di incontri.
Vi auguro incontri. Quelli belli.
Guardatevi intorno a scuola, nei prossimi giorni.
Qualcuno penserà che a scuola ci si annoia, che si starebbe meglio altrove.
Potrà anche essere. Ma non fateci caso.
Siete lì ora. E guardare avanti nel tempo non lo farà accelerare. Pensare così vi allontana dalla ricerca.
Non mettetevi a guardare avanti, alle prossime vacanze. Arriveranno, le prime, tra qualche mese. Non pensateci adesso.
A furia di guardare avanti potreste perdervi qualcosa ora.
Potreste perdervi qualcuno.
Guardatevi intorno e cercate di scovare a scuola il vostro personale “faro”.
Di chi parlo?
Di qualcuno che vi ispiri e stimoli a diventare quello che potreste essere.
Vi voglio raccontare una storia del mio passato augurandovi vi succeda qualcosa di simile.
In prima Liceo ebbi la fortuna di incontrare il professor Paolo Fantini.
Un paio di aneddoti per presentarvelo. Poi vi racconterò perché fu il mio faro.
Subito, appena si presentò a noi, ci stupì. Ci raccontò che era appena rientrato da una vacanza da solo in Russia.
Una cosa che ci lasciò sbalorditi. Perché? Perché era cieco dalla nascita. Era stato in Russia da solo col suo cane!
Ci chiedevamo: “ma come fa a visitare un posto se non lo vede?”.
Nei mesi successivi io e molti altri incominciammo a capire che un cieco alla nascita sente il mondo in un modo diverso. Tanto è vero che a volte, nei corridoi, quando mi fermavo a parlare con lui all'intervallo, mi chiedeva: “com'era la bionda che è appena passata?”. Poi lo faceva con una mora. Poi con una rossa. Quando fummo abbastanza in confidenza e gli chiesi come facesse, mi disse: “dall'odore”.
Il primo giorno di scuola scrisse a mano in braille l'elenco degli studenti per poter fare l'appello.
Uno studente gli dettò l'intero elenco, ben 31 persone, e lui, da destra a sinistra e alla rovescia, scrisse tutti i nomi col punteruolo. Poi rivoltò il cartoncino e leggendo coi polpastrelli fece l'appello. Ognuno di noi rispose. Tornò due giorni dopo e, appena il primo disse qualcosa, lui lo chiamo per nome. Aveva associato tutti i nomi e le voci soltanto facendo quel primo appello.
Una persona indecifrabile. Un po' introversa. Con una cultura enorme.
Amava insegnare. Un vero Docente.
Lo ebbi come docente per soli due anni. In quei due anni nessuno dei miei temi arrivò alla sufficienza piena. Tranne l'ultimo, alla fine della seconda.
Mi stroncava letteralmente intere frasi. Ogni volta che mi riconsegnava il tema ero sconfortato dal voto. Ma lui, ogni volta, riconsegnandomelo mi diceva: “fermati dopo che ti voglio parlare”. Una volta da soli mi confortava dicendomi quasi sempre una frase così. “Caminiti, mi piace quello che scrivi, mi piace quello che dici ma non mi piace assolutamente COME lo dici. Ti sto ripulendo”.
Ripulendo. Che parola meravigliosa. La uso spesso quando parlo a qualcuno dello scrivere.
“Cosa sono queste frasi retoriche? Ma tu parli così?”.
“Scrivi tanto e poi butta le prime pagine. Quelle che verranno dopo saranno migliori. Si vede che ti piace scrivere e se sarai finalmente libero dalla retorica inutile scriverai bene un giorno”.
Lui non si fermava con tutti a parlare nel suo tempo libero. Per così tanto tempo credo solo con me.
Io avevo scelto lui. Lui aveva scelto me.
Aveva “visto” in me un potenziale scrittore e aveva deciso, per amore della lingua scritta e parlata, di aiutarmi ad esserlo.
E' stato il mio faro.
Quando anni dopo lo incontrai in una situazione diversissima, lui era a capo delle ANPAS della Lombardia mentre svolgevo servizio in ambulanza, ci misi un po' a fargli ricordare chi io fossi. Ci rimasi anche un po' male devo dire. Poi pensai che in tutti quegli anni aveva incontrato migliaia di ragazzi ed era diventato il faro di altri ragazzi, come lo era stato per me. E impegnatosi al massimo con ognuno di loro, come aveva fatto con me, la sua memoria vacillasse.
E' stato il mio faro per due anni. Talmente importante che, quando nei tre anni successivi di liceo non incontrai più docenti del suo valore, ormai avevo imparato a distinguere tra la passione per la letteratura e la scrittura e il docente con cui mi trovavo a confrontarmi.
Ormai, anche se avessi incontrato un docente completamente demotivato, l'amore per la scrittura e la lingua erano diventate talmente personali e solide che nessuno poteva più smontarle.
Due anni per alcune ore a settimana. Solo due anni. Accanto al mio faro, bastarono due anni.
Se oggi scrivo parole, musiche, sceneggiature e tengo conferenze lo devo sicuramente anche, o forse soprattutto, a lui.
Non so se sia ancora in vita e in rete non sono riuscito a trovare nessuna sua foto. Ma io me lo ricordo bene e, ad occhi chiusi, come lo erano sempre i suoi in fondo, potrei ricordarmi ogni sua espressione o lineamento.
Forse è un bene non aver trovato una sua foto. Così, leggendo, potete farvene una immagine mentale personale. Solo vostra.
Non so se è ancora in vita ma dentro di me c'è ancora oggi.
E io quel faro ho provato ad esserlo per altre ed altri quando ho insegnato. Pensando a lui come modello.
Eccovi il mio augurio ed anche un consiglio, che vi eviterà forse di farvi pensare che la scuola è quella cosa lunga 200 giorni tra due periodi di ferie.
Guardatevi intorno e scovate il vostro faro.
Se avrete la volontà di cercarlo, lo troverete. Vi cambierà in meglio la vita

Articolo di ©Gianni Caminiti- 10 settembre 2019

 

IL LUNEDI'
PIU' LUNEDI' DI TUTTI

La maggior parte degli italiani ha iniziato questo lunedì a lavorare dopo le ferie o inizierà lunedì prossimo. Poi tra due settimane verrà il momento del primo lunedì degli studenti.
Ci sono i lunedì. Poi c'è questo lunedì che è più lunedì di tutti gli altri.
E' IL LUNEDI'!
Un pensiero utile a tutti, tutti noi.
Non si ri-comincia niente.
Se ri-cominci allora ri-fai sempre tutto quello che hai già fatto. E se eri in-soddisfatto l'anno passato, il pensiero è probabilmente: "sarà così anche quest'anno". E si ri-comincerà ad attendere il prossimo Weekend e magari il prossimo stop natalizio. E poi il nuovo anno, facendo buoni propositi. Per sperare che cambi qualcosa. Magari che cambi da solo.
Le cose non cambiano. Almeno non da sole.
Chi ri-comincia, ri-cicla quello che ha già vissuto e non riesce a vedere domani come una sorpresa.
Lunedì si fa semplicemente un altro passo in avanti. Non si ri-comincia niente.
Facciamo che sia un nuovo inizio.
E mettiamoci a scoprire cose nuove. A rimboccarci le maniche se non amiamo fare quello che facciamo per poter tra poco cambiare lavoro o vita.
E se invece ne siamo soddisfatti, rimbocchiamoci le maniche per cercare comunque cose nuove ed imparare ancora di più, perché queste non ci stanchino mai.
Cambiare. Rischiando. Facendo cose nuove. Non stancandoci mai di imparare.
Cose nuove. Una, anche piccola, al giorno.
Le cose non cambiano. Almeno non da sole.
Siamo noi che cambiamo. E possiamo farlo cambiando pian piano, ogni giorno. Un passo alla volta.
Per vivere bene il prossimo lunedì e tutti i lunedì della vita proviamo a fare i passi giusti.
Quali sono?
Quelli compiuti nella direzione dei nostri desideri e aspirazioni per fare di tutto perché non ri-cominci mai nulla. E ogni giorno sia diverso e un po' più vicino ai nostri desideri.
Anche perché il passato è già trascorso e, pur tenendone giustamente conto perché dagli errori dobbiamo imparare, è inutile rimuginare su quello che è stato. O su quello che non è stato.
Se dovrà essere, sarà. Anzi. Se vorrai essere, sarai.
Luciano De Crescenzo scrisse una meravigliosa frase. La cito perchè vi suoni come un augurio.
"La lunghezza effettiva della vita è data dal numero di giorni diversi che un individuo riesce a vivere. Quelli uguali non contano".
Pensiamo al prossimo e a tutti i Lunedì come il giorno nel quale si comincia e non si ri-comincia niente.
Vi auguro sette lunedì meravigliosi a settimana!

Articolo di ©Gianni Caminiti- 28 agosto 2019

 

ELOGIO DEL FALLIMENTO (TEMPORANEO)

"Nella mia vita ho sbagliato più di 9000 tiri Ho perso quasi 300 partite. 26 volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l'ho sbagliato. Ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto"
Michael Jordan, uno che di errori ne ha commessi tanti. Un numero 1. Il numero 1 nel suo sport.
Uno che di fallimenti se ne intende.
Lui sapeva bene che il problema non è cadere ma rialzarsi.
Se vuoi una cosa puoi sforzarti e impegnarti fino ad ottenerla ma devi riuscire a pensare che ad ogni caduta stai imparando qualcosa, che ogni fallimento è una temporanea sconfitta in attesa di un successo.
Senza errori, del resto, non c'è apprendimento.
Se leggi il Curriculum di una persona di successo leggerai probabilmente le sue vittorie, i suoi successi e penserai che i fallimenti li abbia omessi nel raccontarsi.
Non è così.
Se guardi bene in ogni Curriculum di successo i fallimenti ci sono. Eccome.
I fallimenti sono lì in bella vista. In ogni riga che parla di successo.
Ognuna di quelle righe ha comportato momentanee sconfitte che solo in seguito sono diventate successi.
I curriculum delle persone così sono da leggere in profondità.
Ogni serio professionista, quando intervistato, ti racconterà delle notti insonni, dei dolori, del pianto dopo insuccessi.
Ognuno di loro ti racconterà poi di come li ha superati, semplicemente continuando a fare, con ancora più coraggio e passione, quello che stava tentando.


Articolo di © Gianni Caminiti- 11 luglio 2019

 

SONO FUORI DAL TUNNEL.
ANZI DAL CORRIDOIO

Oggi la prima prova di maturità.
Dai! Siete in fondo.
Ragazzi avete una responsabilità grande, anzi due.
Una verso voi stessi, una verso tutti noi.

Responsabilità verso voi stessi.
Spesso vi è stato detto che il diploma apre le porte sul futuro. Ok, è sicuramente anche vero. Ha un difetto un pensiero come questo in questo momento.
Il futuro, sconosciuto, davanti a voi può sembrarvi ostile, ansiogeno, pauroso. Sia che decidiate di fare l'università, sia che accediate al mondo del lavoro vi potrebbe sembrare angoscioso.
Non pensate ora al futuro. State nel presente.
Vi do una immagine mentale alternativa.
Non immaginate di aprire una porta sul futuro. Immaginate di chiudere dietro di voi una porta, di un lungo corridoio. Il lungo corridoio della vita da "piccoli".
Ora siete adulti, maggiorenni, elettori e potenzialmente patentati. Chiudendo la porta dietro di voi sapete di aver fatto un passaggio fondamentale della vita. E c'è solo da festeggiare per il momento.
Bisogna sempre festeggiare, e a lungo, certi passaggi.
Magari al futuro ci pensate da domani.

Responsabilità verso noi tutti.
Tenete duro, diplomatevi e se non ce la farete quest'anno ritentate con ancora più caparbietà il prossimo anno.
Abbiamo bisogno di voi. Delle vostre teste pensanti, della vostra cultura. Abbiamo visto negli anni crescere il numero dei "dispersi" e paurosamente arrivare vicino ad 1 su 3. E abbiamo visto barbarie culturali cui non avremmo voluto più assistere.
Abbiamo bisogno che siate teste pensanti. Che non vi addormentiate anestetizzati davanti ai social network o agli Apericena. Che acquisiate pensiero critico.
Perché è di tutto questo che necessiterete per godere a pieno delle vostre vite.
Siate i nuovi Andrea Camilleri, Sveva Casati Modignani, Umberto Eco, Rita Levi Montalcini, Margherita Hack, Sandro Pertini, Maria Montessori, Giuseppe Verdi, Grazia Deledda, Tina Anselmi, Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini, Alda Merini, Ardito Desio, Samantha Cristoforetti, Giacomo Leopardi o come tutte le altre meravigliose menti italiane che qui non ho citato.
E siatelo, innamorati ed appassionati, qualsiasi cosa facciate o farete. Dall'elaborare una nuova teoria scientifica ad “aprire una pizza”.
Dai! Pochi giorni ancora.
Io mi siedo qui fuori e vi aspetto alla fine del... corridoio mentre vi scrivo questa lettera.
Vi aspetto per consegnarvi una copia di "quel libro" e i "biglietti" per quel viaggio che spero abbiate deciso di fare.

Articolo di ©Gianni Caminiti- 19 giugno 2019

 

ANDATE
A CONOSCERE IL MONDO

Domani finisce la scuola ragazzi. Finisce la tortura, la prigionia, l'agonia.
Dai l'avete pensato tante volte. Ok, in parte posso essere d'accordo con voi.
Iniziano 3 mesi di libertà. Libertà vigilata per qualcuno, quelli del “terzo quadrimestre”, che dovranno andare a settembre all'esame ma per altri sarà libertà piena.
Libertà. Finalmente.
Avete già pensato a come giocarvela tutta questa libertà?
Volete qualche consiglio?
Oggi darò un consiglio a quelli grandi, dai 18 anni.
Viaggiate. Prendete uno zaino, infilateci 4 cose, quelle necessarie e partite.
La comunità europea quest'anno regala 20.000 biglietti per 18enni proprio per stimolare questo.
Meglio se viaggiate senza un itinerario completamente prestabilito. Scoprite il viaggio che è fatto per voi man mano che esplorate.
Partite per scoprire nuove dimensioni, nuovi paesi, nuove relazioni. Nuovi voi stessi.
Perché se restate sempre nella vostra attuale zona di comfort il vostro orizzonte resta limitato.
Anzi spesso un orizzonte non c'è. L'orizzonte è schiacciato, pochi metri davanti ai vostri occhi.
Fisico. I palazzi di fronte.
Mentale. Le vostre attuali convinzioni.
Affettivo. Le vostre attuali relazioni.
C'è un mondo là fuori da conoscere. Voi che appartenete al mondo fortunato, quello che può per motivi economico-politici andare ovunque, quello che può avere un passaporto turistico per qualsiasi luogo, denaro per comprare biglietti e letti in ostelli (ostelli vi prego, non hotel o villaggi turistici), avete il dovere di farlo.
Ci sono milioni di ragazzi nel mondo che quell'orizzonte non potranno mai cambiarlo. Ma voi Sì.
Fatelo. Per voi stessi. Per portare dentro di voi esperienze che vi cambieranno, nuovi modi di essere che a volte vi spiazzeranno ma che, una volta tornati a casa, si integreranno ai preesistenti rendendovi persone nuove. Migliori.
Se siete in quarta superiore e lo fate, sarà forse il primo viaggio così e sarà quindi magari più breve ma sarà un allenamento per il prossimo anno.
Se siete in quinta quel viaggio deve attendere un altro mese. Ma dopo l'esame riempite quello zaino e partite. Viaggiate a lungo. Senza troppe sicurezze.
Sicurezza.
Che parola a doppio taglio. Una calda coperta e una camicia di forza.
Quella zona di comfort dove quasi nulla di inaspettato può accadere è una prigione ben più grande della scuola.
Ci avete mai pensato?
Dopo 13 anni di scuola forse vi siete convinti che per essere liberi basta NON andare a scuola?
È una distorsione. La scuola dovrebbe aiutarvi ad aprire le menti.
Dovrebbe abbattere pareti e sbarre.
Non vi è sembrato così? Non siete stati fortunati.
Ma di quali pareti parli?
Quali sbarre?
Le sbarre delle gabbie mentali in cui ci siamo rinchiusi.
Quelle delle Playstation che fanno vivere nuove realtà ma virtuali. Quelle delle infinite serie di Netflix che vi fanno assistere alla vita di altri. Ma vi impediscono la vostra. Quello delle infinite sere tutte uguali agli APE a bere e ridere e a parlare di quando farete.
Quando.... Fateci caso.
Quando guardate i personaggi su uno schermo, le persone che li interpretano stanno facendo una cosa che amano.
Voi assistete alla loro soddisfazione rimandando la vostra.
Rimandandola a quando?
Iniziate a rompere lo schema del “lo farò domani".
Iniziate a vivere nel presente.
Oggi.
Partite per tornare o andare per la prima volta da voi stessi.
Partite per fare un viaggio prima di tutto dentro voi stessi.
E se volete un consiglio per una lettura durante questo viaggio eccovelo.
E' un libro che non vi dirà magari tutto immediatamente ma che se rileggerete tra 5 anni vi dirà il resto.
E' un libro su un viaggio, reale ed interiore.
Un libro di un autore che con la sua storia potrebbe darvi coraggio nel raggiungere i vostri obiettivi. Perché, pensate, il suo romanzo, pur essendo un best seller mondiale, prima di essere stampato fu rifiutato da bel 121 editori! Il record assoluto di rifiuti e il record assoluto di fiducia nel proprio sogno.
Il titolo: Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta. Di Pirsig.
Il giorno giusto per iniziare il viaggio è oggi.
Anzi (solo per questo caso) domani.

Articolo di ©Gianni Caminiti- 6 giugno 2019

 

NON SIETE
LA VOSTRA PAGELLA

Manca una settimana esatta alla fine della scuola.
Tra poco i "verdetti" di un anno di fatiche.
Vorrei dire qualcosa, tratto dalle conferenze sull'autostima appena tenute a Cernusco sul Naviglio, sui voti.
Il voto positivo è un "effetto collaterale desiderato" di altro.
Non l'obiettivo principale da raggiungere.
Della passione per certi argomenti. Della voglia di padroneggiare strumenti che ritengo utili e "attaccati alla vita". Dell'autostima che ho già ricavato da altre attività. Della relazione con un docente motivato ed empatico.
Se qualcuno si disinteressasse del voto completamente e avesse a cuore queste cose alla fine dell'anno si ritroverebbe anche con valutazioni positive, molto positive.
Solo in ultima analisi il voto positivo, molto positivo, è merito dell'impegno o meglio della forza di volontà.
So che è controintuitivo. Ma ci abbiamo provato a più riprese ad "impegnarli" maggiormente. Noi e i docenti.
Proviamo a fare altro.
Proviamo, come dice magistralmente Galimberti, a "sedurli con la cultura". E con attività gratificanti.
Ai ragazzi chiedo sempre di non concentrarsi su una unica attività, la scuola, ma di impegnarsi a fondo anche in altre, altrettanto importanti e anch'esse finalizzate ad obiettivi.
Agli sportivi, per esempio, chiedo sempre di lavorare sodo per puntare alle olimpiadi.
Ai genitori consiglio sempre di non chiedere ai figli di abbandonare le "altre attività" per concentrarsi sulla scuola.
Ci sono tanti motivi per non farlo. Ne dico solo alcuni.
Perché i ragazzi scoprono di colpo di essere stati "presi in giro" quando erano piccoli e li avevamo iscritti a tanti corsi.
Perché puntare su una sola attività riduce solo a quella la possibilità di ricavarne autostima e al primo crollo ci si ritrova a terra.
Perché ognuno di noi ha più "anime" ed ognuna di esse merita il rispetto e la possibilità di manifestarsi.
Sono proprio i ragazzi impegnati in più versanti ad avere risultati brillanti e contemporaneamente ad essere felici e "protetti" da rischi evolutivi.
In bocca al lupo ragazzi.
Spero abbiate una vita ricca di contenuti, attività entusiasmanti, risultati importanti e relazioni significative.

Articolo di ©Gianni Caminiti- 1 giugno 2019

 

QUELLO CHE DESIDERI
E' DALL'ALTRO LATO
DELLA PAURA

Io ho sempre avuto paura.
Magari non sembra a sentirmi parlare in conferenza, ma è così.
Spaventato a morte da quello che io stesso faccio.
Paura di non riuscire.
Paura di finire la benzina.
Ho un sacco di paure.
Paura di me, in fondo.
Senza paura non avrei terminato le cose che ho fatto. O ne sarei stato sconfitto più facilmente.
E non ne riuscirei a farne di nuove probabilmente.
In montagna ho portato sempre la pelle a casa perché desideravo scalare e contemporaneamente ne avevo molta paura. E per la paura in certi momenti restavo attaccato con le unghie e i denti alla parete di roccia o di ghiaccio.
Senza quella paura forse sarei morto.
La paura è un'ottima compagna se decidi di non girarle le spalle e tornare indietro.
La paura è un sintomo che sei fuori dalla tua zona di comfort.
La paura è un sentimento che ti dice che stai facendo qualcosa che non sai già fare.
La paura è un segnale che stai facendo qualcosa di importante.
Importante come quando stai per dare il primo bacio o stai per dire il primo "ti amo". Perché anche se tutto te stesso ti dice che è la stessa cosa anche per la persona cui lo dirai e tutti gli altri lo vedono chiaramente che vi amate, tu hai paura lo stesso. Perché è importante. E se una cosa è importante hai sempre paura.
La paura o ti blocca o ti spinge ad andare oltre.
Non ci sono SuperEroi. Almeno, io non ne ho mai conosciuti. Quelli che mi sembravano tali ho scoperto, conoscendoli meglio, che avevano le mie stesse paure.
Avevano paura Sì, ma ci provavano comunque.
Nonostante la paura. O forse grazie a questa.
E siccome poi quando riuscivano nelle loro "imprese" alla fine ridevano, a tutti sembrava che non ne avessero avute di paure.
Invece le loro risate erano dovute all'adrenalina. Anche per lo scampato pericolo. Quella che ti fa ridere a crepapelle appena ti rialzi dopo un lancio col paracadute, prima del quale eri semplicemente terrorizzato.
Per questo dobbiamo riflettere sui nostri desideri e poi sulle paure che abbiamo di realizzarli.
Hai capito bene: "di realizzarli".
Perché la paura di riuscire a volte è più forte di quella di non riuscire.
Perché se riesci a superare le paure poi ti rendi conto che è possibile fare altre cose, di cui hai altrettanta paura.
Ed è scomodo continuare a fare cose nuove soprattutto quando, per non fartene fare altre, ti viene ogni volta in soccorso una nuova paura.
La paura è questo.
Valle incontro con un sorriso anche se le gambe ti tremano.
Perché quello che desideri è proprio lì:
dall'altra parte della paura.

Articolo di ©Gianni Caminiti- 28 maggio 2019

 

IMPEGNO O AMORE?

di ©Gianni Caminiti- 22 maggio 2019

Propongo di sostituire alla parole "maggiore impegno", "sacrificio" e "forza di volontà" quelle come "piacere" e "amore" per quanto riguarda la scuola.
Proprio in questi giorni finali di scuola si sente troppo spesso dire frasi che assomigliano al famoso refrain:
"E’ intelligente ma non si impegna".
Certe frasi sottintendono la convinzione che i ragazzi che non riescono a raggiungere risultati siano, solo loro, svogliati.
Una questione morale, quindi.
Ed ecco il richiamo al "maggiore impegno".
Ma siamo sicuri che sia solo una questione di "sacrificio", "volontà" e "impegno"?
Se fosse altro?
Una persona mette a disposizione le proprie risorse quando fa qualcosa ma le mette a disposizione tutte soprattutto nelle attività che ama.
Facciamo tutti indubbiamente anche cose che non ci piacciono ma quelle che amiamo ci riescono meglio.
E se la maggior parte delle cose che facciamo le amiamo, quelle che non amiamo ci risultano meno pesanti e ci riescono meglio.
Non ho mai visto un ragazzo o una ragazza lesinare impegno e sudore nelle attività che amano.
A meno che non si siano bloccati nel circolo negativo dell'autostima.
Fa parte della vita quel sudore.
Quando quello che "studiano" è ritenuto utile, comprensibile, attaccato alla vita reale, persino entusiasmante, sono attentissimi e impegnati. I loro occhi diventano magnetici e come spugne assorbono e sopportano qualsiasi mole di lavoro.
Dobbiamo prima di tutto chiederci perchè non amano più imparare ciò che viene loro proposto a scuola o l'imparare nei modi proposti dalla scuola.
Dobbiamo chiederci, come educatori, genitori e docenti, se siamo entusiasmati ed entusiasmanti quando proponiamo loro qualcosa. Quando siamo così diamo loro modo di ritrovare amore per l'apprendimento, quello che da piccoli naturalmente avevano e che magari hanno perso strada facendo.
Non è solo o sempre "colpa" loro.
Non "impegno". O almeno non evochiamo solo quello.
Insegniamo l'Amore per l'apprendimento amando l'insegnamento. A scuola, a casa, nello sport, ovunque.
Quando c'è di nuovo Amore per l'apprendimento le cose tornano a girare per il verso giusto.

 

LA MATERNITA'

La maternità.
É abbracciare cosi forte da render capaci un giorno di volare via.

Aforisma di ©Gianni Caminiti- 12 maggio 2019

 

TARPARE LE ALI
IN BUONA FEDE

Tentare di frenare qualcuno, pur in buona fede, nel raggiungimento della propria auto realizzazione, parla più delle nostre ansietà, paure, fallimenti o, peggio, del nostro non averci mai provato piuttosto che della reale impossibilità per quel qualcuno di raggiungere i propri obiettivi.
Questo diventa ancor più grave quando lo facciamo a persone a noi vicine. Spesso lo facciamo inconsapevolmente ai nostri figli o ai nostri allievi.

Articolo di ©Gianni Caminiti- 4 maggio 2019

 

CE LA FAI O CE LA FARAI

Per aiutare qualcuno a fare qualcosa si possono dire due tipi di cose.
Complimentarsi e festeggiare con qualcuno quando ce l'ha fatta.
Sostenerlo quando non ce l'ha ancora fatta e ricordargli che, se continuerà ad amare ciò che sta provando a fare, ce la farà.
Ovvero dire che o lo sai fare o lo saprai fare.
Vale per un genitore.
Vale per un docente.

Articolo di ©Gianni Caminiti- 3 maggio 2019

 

I BUONI LIBRI

Scegliete quei libri che una volta terminati continueranno a leggersi da soli dentro, fino a cambiarvi.

Aforisma di ©Gianni Caminiti- 23 aprile 2019

 

MIO FIGLIO E' STATO RIMANDATO O BOCCIATO

Articolo scritto per Ed. Pearson


È arriva
ta la fine della scuola e con questa le sentenze per i nostri ragazzi.
Per alcuni sono sentenze negative definitive, per l’anno in corso; per altri, moltissimi, sono previsti appelli a settembre.
Bocciature e debiti formativi sono gli eventi in fondo a un anno scolastico che provocano emozioni negative nei ragazzi e nelle loro famiglie, sia per chi deve metabolizzare una bocciatura sia per chi dovrà affrontare un periodo di studio estivo per recuperare le lacune.
In entrambi i casi si verifica per i ragazzi un picco negativo di autostima, soprattutto per coloro che si fossero impegnati nello studio.
E questo influirà sulla loro vita: se sarà un influsso solo nell'immediato o più duraturo nel tempo dipenderà da come verrà affrontato questo momento difficile.
Cercherò allora di descrivere che cosa capita a livello psicologico nello studente, così da permettere ai genitori di affiancarlo nel modo migliore.


La metafora della gamba ingessata
Considererò innanzitutto alcuni strumenti a cui si ricorre per colmare le lacune scolastiche.
E lo farò parlando di autostima.
Utilizzerò una metafora per facilitare la comprensione, metafora che sarà utile ora, per affrontare questo momento difficile, ma anche per organizzare il prossimo anno scolastico.
Immaginiamo che un atleta si fratturi una gamba: verrà sottoposto a ingessatura e poi a un ciclo di fisioterapia.
Passato questo momento critico l'atleta si dedicherà ad allenamenti di rinforzo, magari con un allenatore specifico, e successivamente tornerà a essere autonomo.
Per lo studente è lo stesso: se non è “infortunato”, non occorrono allenatori di rinforzo. Invece molte famiglie affiancano per tutto l'anno al figlio un tutor, di solito uno studente universitario o un professore, per “rinforzarlo”. Questo non solo non è positivo ma può anzi causare problemi.
Chi ingesserebbe una gamba sana? La gamba immobilizzata regredirebbe quanto a forza e muscolatura.
Analogamente lo studente sempre affiancato tende ad attribuire i propri successi alla diade, ovvero “per forza ho preso un bel voto, è merito di...”, e ad attribuire a se stesso l'insuccesso: “devo proprio essere stupido se anche affiancato non riesco”.
Morale: bisogna scegliere gli aiuti giusti al momento giusto.
In questa fase dell’anno siamo proprio nel momento in cui occorre stabilire, per bocciati e rimandati, le “ingessature” e le “fisioterapie” necessarie.
E una non vale l'altra.


Che cosa succede in un ragazzo quando non riesce in una materia?
Il picco negativo di autostima provocato da un esito negativo a fine anno – che sia bocciatura o debito formativo – non è l’unico nella vita scolastica dei nostri ragazzi, ma si inserisce in uno storico che si forma e consolida durante l’intero anno scolastico.
Quello che introdurrò ora è un principio controintuitivo.
Perché gli studenti tendono a non impegnarsi nelle materie che dovrebbero recuperare?
Perché a nessuno piace sentirsi inadeguato e spesso il senso di inefficacia che si accompagna a prestazioni scadenti porta lo studente a fare l'esatto contrario di quello che dovrebbe per superare la difficoltà.
Tutti, professori e genitori, gli richiedono maggiore impegno.
Ma per impegnarsi maggiormente lo studente deve affrontare di più proprio quella materia che al momento non gli riesce.
Di solito il ragazzo percepisce questa richiesta in termini soprattutto quantitativi, ovvero impiegare un maggior tempo dedicato, ma anche in senso qualitativo, cioè legato al metodo di studio.
Lo studente subisce un effetto tipico della diminuzione di autostima: sentirsi inefficaci una prima volta, magari per aver preso una grave insufficienza, porta di solito, nell'immediato, a un maggiore impegno.
Ma che cosa succede quando alla prova successiva, dopo uno sforzo supplementare, le cose non migliorano?
Lo studente si sente incapace e può reagire in modi diversi; e molte di queste reazioni sono riconducibili all’istinto di conservazione della propria autostima: è come se lo studente, inconsapevolmente, smettesse di applicarsi alla disciplina che ha generato in lui la sensazione di essere incapace.
Tenderà anzi a studiare di più le materie in cui riesce bene, perché nutrono la sua autostima, e posticiperà o tralascerà del tutto quella che gli ha prodotto sensazioni negative.
E naturalmente questo innesca un circolo vizioso in cui i risultati sono sempre più negativi e l’autostima decresce parallelamente.


Se una cosa piace, la si fa meglio
Per disinnescare questo meccanismo sia gli insegnanti sia i genitori dovrebbero dunque attivare strategie diverse, non limitandosi a richiedere al ragazzo un incremento dell'impegno.
Ma cosa fare concretamente?
In genere quando i risultati scolastici non migliorano la soluzione più frequente sono le cosiddette ripetizioni.
Partiamo proprio da questa parola.
Quando insegnavo invitavo sempre i miei studenti a fare la domanda giusta.
Se mi chiedevano: “Non ho capito, me lo ripete?”, rispondevo loro: “Siate onesti: se eravate disattenti ripeto volentieri. Se eravate attenti e non avete capito, allora fate la domanda giusta”. Ovvero: “Non ho capito, me lo direbbe in un modo diverso e magari con un esempio o una applicazione pratica?”.
Sì, perché non serve “ripetere”.
Serve fare in un modo diverso le cose che non ci sono riuscite.
La prima cosa allora che un genitore o un insegnante dovrebbe chiedersi di fronte a un ragazzo in difficoltà a scuola è se non ci sia una mancanza di piacere, più che di motivazione.
Per quanto una materia possa non essere interessante per uno studente, non ne conosco nessuno che non provi piacere nel padroneggiarla.
E questo è un bene, perché quando ti vengono bene dieci cose, puoi permetterti di capire che cosa ti viene bene e anche ti piace e che cosa invece ti viene solo bene ma non necessariamente ti piace.
Succede infatti che se uno studente riesce bene solo in una o due cose tenderà a dedicarsi, negli studi futuri e poi nella scelta della professione, a un settore solo perché gli riesce, anche se magari non è ciò che più gli piace.
Quindi come genitori e come docenti dobbiamo impegnarci affinché i ragazzi riescano bene nel maggior numero di attività. Perché possano scegliere dove applicarsi di più nel futuro, ricavandone non solo successo ma anche piacere.
Se una cosa piace ci si dedica più tempo, la si fa meglio, con minor fatica e con migliori risultati e soddisfazioni.
La motivazione a fare bene è scritta nel nostro DNA.
Se non la si sente più, significa che è avvenuto qualche incidente.
Ogni studente può riuscire a padroneggiare sufficientemente tutte le discipline.
E riuscendo in tutte, poi, sceglierà quella che più gli piace.
Questo ha poco a che vedere con il solo impegno – che certamente serve ma che spesso è l'unico aspetto considerato – ma piuttosto con il piacere.
Ai nostri ragazzi non fa paura, per esempio, la fatica degli allenamenti quando fanno uno sport agonistico piacevole.
Dunque quando un ragazzo si trova di fronte a qualche difficoltà in una materia l’aiuto consiste nel fargli cambiare approccio nell’affrontarla, così da avvicinarlo in modo diverso, cambiando prospettiva, alla disciplina.

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