SmaniaRock by Roberto

La discoteca di cineSmania

2020

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Have a good trip, have Rock!
rubrica a cura di Roberto Gaudenzi

 

𝐋𝐄𝐃 𝐙𝐄𝐏𝐏𝐄𝐋𝐈𝐍 𝐈𝐕
𝐋𝐞𝐝 𝐙𝐞𝐩𝐩𝐞𝐥𝐢𝐧 (𝟏𝟗𝟕𝟏)


𝑇ℎ𝑒𝑟𝑒'𝑠 𝑎 𝑙𝑎𝑑𝑦 𝑤ℎ𝑜'𝑠 𝑠𝑢𝑟𝑒 𝑎𝑙𝑙 𝑡ℎ𝑎𝑡 𝑔𝑙𝑖𝑡𝑡𝑒𝑟𝑠 𝑖𝑠 𝑔𝑜𝑙𝑑
𝐴𝑛𝑑 𝑠ℎ𝑒'𝑠 𝑏𝑢𝑦𝑖𝑛𝑔 𝑎 𝑠𝑡𝑎𝑖𝑟𝑤𝑎𝑦 𝑡𝑜 ℎ𝑒𝑎𝑣𝑒𝑛
𝑊ℎ𝑒𝑛 𝑠ℎ𝑒 𝑔𝑒𝑡𝑠 𝑡ℎ𝑒𝑟𝑒 𝑠ℎ𝑒 𝑘𝑛𝑜𝑤𝑠, 𝑖𝑓 𝑡ℎ𝑒 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑒𝑠 𝑎𝑟𝑒 𝑎𝑙𝑙 𝑐𝑙𝑜𝑠𝑒𝑑
𝑊𝑖𝑡ℎ 𝑎 𝑤𝑜𝑟𝑑 𝑠ℎ𝑒 𝑐𝑎𝑛 𝑔𝑒𝑡 𝑤ℎ𝑎𝑡 𝑠ℎ𝑒 𝑐𝑎𝑚𝑒 𝑓𝑜𝑟
𝑂𝑜ℎ, 𝑜𝑜ℎ, 𝑎𝑛𝑑 𝑠ℎ𝑒'𝑠 𝑏𝑢𝑦𝑖𝑛𝑔 𝑎 𝑠𝑡𝑎𝑖𝑟𝑤𝑎𝑦 𝑡𝑜 ℎ𝑒𝑎𝑣𝑒𝑛


Ricordi?
Quanto ci ha incantato quel riff pesante, quel Black Dog, Umore Nero, che partiva dopo l’esplosione della voce di Plant che “a cappella” richiamava la nostra attenzione: “Hey hey mama said the way you move/gonna make you sweat, gonna make you move”. Non un canto ma frasi lanciate con veemenza e un senso vagamente erotico sottinteso, a noi piaceva la voce dal potente falsetto di Plant e quel riff micidiale. Erano i primi Led Zeppelin che ascoltavamo ma loro erano già al quarto album, da qui avremmo risalito la corrente per sapere cosa era venuto prima. Comunque niente come Black Dog perché i Led Zeppelin non si ripetevano e comunque quel pezzo ci è rimasto fuso nei timpani e sarebbe diventato una sorta di jingle.

Ricordi?
Fiero dell’acquisto aprivamo la copertina del disco dove su un muro sbrecciato pende un quadro con un vecchio curvo appoggiato a un bastone sotto il carico di una fascina di legna, si vedono palazzi di la dal muro, una periferia urbana: non ci sono scritte. E poi l’interno! L’interno della copertina ci spiazzava perché dovevamo guardarla verticalmente, tutta aperta, e in cima a una rupe a picco su un paesaggio gotico, un vecchio saggio incappucciato regge una lanterna e guarda in basso.
Ecco il nero umore che tinge in monocromia quel paesaggio misterioso e il suo osservatore silenzioso.

E poi arrivava 𝐑𝐨𝐜𝐤 𝐚𝐧𝐝 𝐑𝐨𝐥𝐥, e il disco prendeva fuoco. Già il titolo è un emblema: ““𝑓𝑎𝑚𝑚𝑖 𝑡𝑜𝑟𝑛𝑎𝑟𝑒, 𝑡𝑖 𝑝𝑟𝑒𝑔𝑜, 𝑓𝑎𝑚𝑚𝑖 𝑡𝑜𝑟𝑛𝑎𝑟𝑒 𝑑𝑎 𝑑𝑜𝑣𝑒 𝑝𝑟𝑜𝑣𝑒𝑛𝑔𝑜”, sembra strano ma vi è già della nostalgia in un pezzo come questo, è rock and roll puro ma con una timbrica e un feeling mai sentiti prima. Il ritmo è serrato, Bonham dà subito il via ma la chitarra sembra frenare, allunga gli accordi, sembra tirare indietro come il testo suggerisce, soltanto nell’assolo si concede una breve corsa e la voce di Plant eccheggia dalle lontananze del tempo.

Ricordi che incuriositi sentivamo giungere da lontano e crescere note di mandolino e ci chiedevamo ma questi che arrivano dopo un pezzo scatenato chi sono? Si sentiva un sapore di folk, la voce di Plant duttile quanto mai... però ascoltando con attenzione non era lo stesso timbro, qualcuno lo accompagna, una voce femminile: Sandy Denny: già cantante dei Fairport Convention band di folk-rock, morirà nel ’78 a soli 31 anni. Plant ha un falsetto tale da distinguerlo a fatica dalla voce squillante di lei. 𝐓𝐡𝐞 𝐁𝐚𝐭𝐭𝐥𝐞 𝐨𝐟 𝐄𝐯𝐞𝐫𝐦𝐨𝐫𝐞, L’eterna battaglia, la guerra perenne tra il bene e il male, tra la luce e il buio. Riferimenti folkloristici, epica arturiana evocata con un accenno ad Avalon la mitica isola di re Artù e a leggere attentamente già si poteva scorgere accenni al Signore degli Anelli di Tolkien. Folklore celtico, rune come antichi graffiti: qui in questo disco convivono anime diverse, in tre brani siamo passati attraverso tre umori distinti: un Hard Rock dalle tinte dark, un ritorno alle origini con un Rock and Roll classico e qui sapori acustici di altri tempi.

Ma la meraviglia che in una pozione alchemica mescola e amalgama tutto questo arriva con quell’inconfondibile arpeggio di chitarra acustica e una misteriosa “𝑠𝑖𝑔𝑛𝑜𝑟𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑒̀ 𝑠𝑖𝑐𝑢𝑟𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑐𝑖𝑜̀ 𝑐ℎ𝑒 𝑙𝑢𝑐𝑐𝑖𝑐𝑎 𝑒̀ 𝑜𝑟𝑜”: 𝐒𝐭𝐚𝐢𝐫𝐰𝐚𝐲 𝐭𝐨 𝐇𝐞𝐚𝐯𝐞𝐧 ci lascia incantati con il suo crescendo e quel tema di flauto. Un testo enigmatico di sentieri che si biforcano, di parole che possono avere due significati, di un uccello che canta su un ramo e di pensieri sospetti. Intanto che la chitarra arpeggia e il flauto ricama la sua melodia. Tutto questo mi stupisce, canta Plant, e di un sentimento strano quando si guarda a ovest, dove il sole tramonta e dove sono dirette le anime dei morti. Frutto di una scrittura automatica la canzone si arricchisce di riferimenti favolistici, mitici, sostenuta da un’acustica lieve ma incisiva che si alimenta facendosi più elettrica: la ballata con un retrogusto folkloristico si trasforma un rock duro e vigoroso, Bonham incide il ritmo intervenendo con il suo drumming poderoso, Page imbraccia la sei corde elettrificata e noi ci prepariamo per la festa della regina di maggio: un accenno alla primavera dove apprendiamo che la scala della signora giace sul vento che sussurra. Page cuce con un assolo misurato l’ultima parte alle premesse che si alza di tono e declama strofe su un popolo che scende in strada con le ombre più lunghe delle anime a seguire la signora che continua a dimostrare che tutto può trasformarsi in oro. Una delle più belle canzoni di sempre si conclude invocando una speranza di ritorno al tutto per essere una roccia e non rotolare: facile gioco di parole con il Rock and Roll, o il Like a Rolling Stone Dylaniano, o forse accenno diretto in negativo al Rolling Stones?

Forse il disco sarebbe potuto finire qui, non ci saremmo aspettati niente di meglio ma 𝐌𝐢𝐬𝐭𝐲 𝐌𝐨𝐮𝐧𝐭𝐚𝐢𝐧 𝐇𝐨𝐩 ci portava avanti con uno di quei riff che potresti non toglierti dalle orecchie per tanto tempo, un Rock Blues robusto che narra di una persona smarrita che si aggira tra gente con i fiori nei capelli che ti offre roba, poliziotti che cercano di metterti in riga. Un testo che procede con versi lunghi, faticosi come chi si aggira tra ciò che non conosce e accumula sensazioni e pensieri e il giro di note prosegue scoccando note come frecce, scandisce un passo pesante. La montagna nebbiosa è un rifugio dove vola lo spirito: la scala verso il cielo si tramuta in montagna.

Anche 𝐅𝐨𝐮𝐫 𝐒𝐭𝐢𝐜𝐤𝐬 è strutturata su un riff semplice dalle tonalità cupe: “𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑡𝑖 𝑠𝑒𝑛𝑡𝑖𝑟𝑒𝑠𝑡𝑖 𝑠𝑒 𝑖 𝑓𝑖𝑢𝑚𝑖 𝑠𝑐𝑜𝑟𝑟𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑜 𝑎𝑠𝑐𝑖𝑢𝑡𝑡𝑖?” Anche le tastiere che armonizzano il pezzo comunicano un senso di dramma incombente: “𝑐’𝑒̀ 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑡𝑟𝑎𝑛𝑎 𝑠𝑒𝑛𝑠𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑝𝑟𝑒𝑛𝑑𝑒 𝑝𝑖𝑒𝑑𝑒...𝑠𝑒 𝑙𝑒 𝑐𝑖𝑣𝑒𝑡𝑡𝑒 𝑝𝑖𝑎𝑛𝑔𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑜 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑛𝑜𝑡𝑡𝑒...𝑠𝑒 𝑖 𝑝𝑖𝑛𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑖𝑛𝑐𝑖𝑎𝑠𝑠𝑒𝑟𝑜 𝑎 𝑝𝑖𝑎𝑛𝑔𝑒𝑟𝑒...𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑡𝑖 𝑠𝑒𝑛𝑡𝑖𝑟𝑒𝑠𝑡𝑖?”

Così tornando ai climi di una ballata acustica 𝐆𝐨𝐢𝐧𝐠 𝐭𝐨 𝐂𝐚𝐥𝐢𝐟𝐨𝐫𝐧𝐢𝐚 stempera la tensione e riappacifica con colori malinconici. La California costante miraggio, eterna terra di confine dove l’estate dei figli dei fiori non si è ancora del tutto spenta, limite ideale prima che il sogno svanisca del tutto, dove il tramonto che infuoca le sue sponde è prossimo a diventare simbolo di una fine permanente. “𝑇𝑟𝑜𝑣𝑎𝑟𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑟𝑒𝑔𝑖𝑛𝑎 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑟𝑒...𝑐𝑒𝑟𝑐𝑜 𝑑𝑖 𝑡𝑟𝑜𝑣𝑎𝑟𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑑𝑜𝑛𝑛𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑒̀ 𝑚𝑎𝑖 𝑛𝑎𝑡𝑎” . L’ideale prende consistenza in un amore impossibile: “𝑎𝑣𝑟𝑒𝑖 𝑝𝑜𝑡𝑢𝑡𝑜 𝑎𝑓𝑓𝑜𝑛𝑑𝑎𝑟𝑒, 𝑙𝑎𝑛𝑐𝑖𝑎𝑚𝑖 𝑢𝑛𝑎 𝑐𝑜𝑟𝑑𝑎”. Ancora una collina, come in Misty Mountain Hop, un’altura su cui rifugiarsi: l’eremita dell’interno della copertina che guarda in basso con una lanterna in mano: Diogene che cerca l’uomo.

Ma incombe un pericolo che la batteria apre come preludio duro e crudo e ancora un riff e l’armonica blues che ricama un imminente disastro. 𝐖𝐡𝐞𝐧 𝐭𝐡𝐞 𝐋𝐞𝐯𝐞𝐞 𝐁𝐫𝐞𝐚𝐤𝐬 incombe come un destino. La diga che rischia di crollare se continuerà a piovere: una chitarra che urla e il giro di note che ci ricorda l’imminenza del disastro. “𝑃𝑖𝑎𝑛𝑔𝑒𝑟𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑡𝑖 𝑎𝑖𝑢𝑡𝑒𝑟𝑎̀, 𝑝𝑟𝑒𝑔𝑎𝑟𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑡𝑖 𝑝𝑜𝑟𝑡𝑒𝑟𝑎̀ 𝑛𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑑𝑖 𝑏𝑢𝑜𝑛𝑜. 𝑄𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑙𝑎 𝑑𝑖𝑔𝑎 𝑠𝑖 𝑟𝑜𝑚𝑝𝑒 𝑑𝑒𝑣𝑖 𝑎𝑛𝑑𝑎𝑟𝑡𝑒𝑛𝑒”.

Ricordi?
I Led Zeppelin erano nel novero delle tre band che hanno inventato l’Hard Rock con i Deep Purple e i Black Sabbath. Loro si inserivano tra i due colorandosi di tinte folk acustiche. A differenza degli altri due che hanno lasciato il solco per futuri eredi, i Led Zeppelin forse hanno avuto meno epigoni, forse nessuno perché l’originalità del loro sound rischia di identificare ogni loro successore come un puro imitatore.

Ricordi chi sono?
Come non saperlo!
𝐑𝐨𝐛𝐞𝐫𝐭 𝐏𝐥𝐚𝐧𝐭 – voce principale, tamburello, armonica a bocca (traccia 8)
𝐉𝐢𝐦𝐦𝐲 𝐏𝐚𝐠𝐞 – chitarra elettrica, chitarra folk, pedal steel guitar, cori, mandolino (traccia 3)
𝐉𝐨𝐡𝐧 𝐏𝐚𝐮𝐥 𝐉𝐨𝐧𝐞𝐬 – basso, EMS VCS3, flauti dolci, mellotron, organo, pianoforte, pianoforte elettrico, cori, chitarra folk (traccia 3), mandolino (traccia 7)
𝐉𝐨𝐡𝐧 𝐁𝐨𝐧𝐡𝐚𝐦 – batteria, timpani, cori.


foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 18 dicembre 2020

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𝟖 𝐝𝐢𝐜𝐞𝐦𝐛𝐫𝐞 𝟏𝟗𝟖𝟎


𝐼𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑒 𝑡ℎ𝑒𝑟𝑒'𝑠 𝑛𝑜 ℎ𝑒𝑎𝑣𝑒𝑛
𝐼𝑡'𝑠 𝑒𝑎𝑠𝑦 𝑖𝑓 𝑦𝑜𝑢 𝑡𝑟𝑦
𝑁𝑜 ℎ𝑒𝑙𝑙 𝑏𝑒𝑙𝑜𝑤 𝑢𝑠
𝐴𝑏𝑜𝑣𝑒 𝑢𝑠 𝑜𝑛𝑙𝑦 𝑠𝑘𝑦
𝐼𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑒 𝑎𝑙𝑙 𝑡ℎ𝑒 𝑝𝑒𝑜𝑝𝑙𝑒 𝑙𝑖𝑣𝑖𝑛𝑔 𝑓𝑜𝑟 𝑡𝑜𝑑𝑎𝑦

𝐼𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑒 𝑡ℎ𝑒𝑟𝑒'𝑠 𝑛𝑜 𝑐𝑜𝑢𝑛𝑡𝑟𝑖𝑒𝑠
𝐼𝑡 𝑖𝑠𝑛'𝑡 ℎ𝑎𝑟𝑑 𝑡𝑜 𝑑𝑜
𝑁𝑜𝑡ℎ𝑖𝑛𝑔 𝑡𝑜 𝑘𝑖𝑙𝑙 𝑜𝑟 𝑑𝑖𝑒 𝑓𝑜𝑟
𝐴𝑛𝑑 𝑛𝑜 𝑟𝑒𝑙𝑖𝑔𝑖𝑜𝑛 𝑡𝑜𝑜
𝐼𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑒 𝑎𝑙𝑙 𝑡ℎ𝑒 𝑝𝑒𝑜𝑝𝑙𝑒 𝑙𝑖𝑣𝑖𝑛𝑔 𝑙𝑖𝑓𝑒 𝑖𝑛 𝑝𝑒𝑎𝑐𝑒, 𝑦𝑜𝑢

𝑌𝑜𝑢 𝑚𝑎𝑦 𝑠𝑎𝑦 𝐼'𝑚 𝑎 𝑑𝑟𝑒𝑎𝑚𝑒𝑟
𝐵𝑢𝑡 𝐼'𝑚 𝑛𝑜𝑡 𝑡ℎ𝑒 𝑜𝑛𝑙𝑦 𝑜𝑛𝑒
𝐼 ℎ𝑜𝑝𝑒 𝑠𝑜𝑚𝑒 𝑑𝑎𝑦 𝑦𝑜𝑢'𝑙𝑙 𝑗𝑜𝑖𝑛 𝑢𝑠
𝐴𝑛𝑑 𝑡ℎ𝑒 𝑤𝑜𝑟𝑙𝑑 𝑤𝑖𝑙𝑙 𝑏𝑒 𝑎𝑠 𝑜𝑛𝑒

𝐼𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑒 𝑛𝑜 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑠
𝐼 𝑤𝑜𝑛𝑑𝑒𝑟 𝑖𝑓 𝑦𝑜𝑢 𝑐𝑎𝑛
𝑁𝑜 𝑛𝑒𝑒𝑑 𝑓𝑜𝑟 𝑔𝑟𝑒𝑒𝑑 𝑜𝑟 ℎ𝑢𝑛𝑔𝑒𝑟
𝐴 𝑏𝑟𝑜𝑡ℎ𝑒𝑟ℎ𝑜𝑜𝑑 𝑜𝑓 𝑚𝑎𝑛
𝐼𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑒 𝑎𝑙𝑙 𝑡ℎ𝑒 𝑝𝑒𝑜𝑝𝑙𝑒 𝑠ℎ𝑎𝑟𝑖𝑛𝑔 𝑎𝑙𝑙 𝑡ℎ𝑒 𝑤𝑜𝑟𝑙𝑑, 𝑦𝑜𝑢

𝑌𝑜𝑢 𝑚𝑎𝑦 𝑠𝑎𝑦 𝐼'𝑚 𝑎 𝑑𝑟𝑒𝑎𝑚𝑒𝑟
𝐵𝑢𝑡 𝐼'𝑚 𝑛𝑜𝑡 𝑡ℎ𝑒 𝑜𝑛𝑙𝑦 𝑜𝑛𝑒
𝐼 ℎ𝑜𝑝𝑒 𝑠𝑜𝑚𝑒 𝑑𝑎𝑦 𝑦𝑜𝑢'𝑙𝑙 𝑗𝑜𝑖𝑛 𝑢𝑠
𝐴𝑛𝑑 𝑡ℎ𝑒 𝑤𝑜𝑟𝑙𝑑 𝑤𝑖𝑙𝑙 𝑏𝑒 𝑎𝑠 𝑜𝑛𝑒


Il Dakota building con l’ingresso sulla 72a strada ovest, offre una facciata su Central Park West la grande Avenue che costeggia l’omonimo parco dal lato occidentale e proprio all’ingresso del parco su quel lato un mosaico reca la scritta 𝐈𝐦𝐚𝐠𝐢𝐧𝐞.
Chi ci aveva esortato ad immaginare un mondo senza paradiso, senza inferno, senza religioni e nessuno che per esse deva morire, un tragico e beffardo destino ha voluto che soccombesse proprio in modo violento, la stessa violenza che aveva sempre aborrito lo ha atteso al rientro a casa personificata da un pazzo mitomane e dalla bocca da fuoco di una pistola.
𝐉𝐨𝐡𝐧 𝐋𝐞𝐧𝐧𝐨𝐧 si spegne di li a poco e con lui si spegne definitivamente un’epoca.
Con la sua morte vediamo sfumarsi in lontananza vent’anni e più che hanno assistito al nascere e l’evolversi di una musica che ha rinnovato i nostri ascolti. Dopo la storia continua, è chiaro, ma con una maturità diversa. Lennon è stato uno dei pionieri che ha dato vita ad un gruppo che ha contribuito a dare una spallata ai nostri gusti musicali, e la sua tragica e assurda fine sancisce la dissoluzione definitiva dei Beatles.
Scioltisi dieci anni prima, i quattro di Liverpool, come da molti erano e sono conosciuti, avevano rimescolato le sette note ognuno a modo loro nelle rispettive carriere soliste e ormai a due lustri di distanza una riunione era impensabile anche se ogni tanto veniva ventilata da qualcuno a corto di argomenti musicali. Lo stesso Lennon assolutamente considerava assurda solo l’ipotesi un ricompattamento del quartetto, giudicandolo inutile, anacronistico e soprattutto per giovare a chi? I Beatles avevano detto, per ciò che li riguardava, tutto ciò che c’era da dire: perché tornare assieme? Per qualche nostalgico? Per suonare per chi allora non c’era? I Beatles appartenevano alla storia e la storia non si ripete.
Tuttavia, anche se si era consapevoli che una reunion dei quattro era impossibile, pure il loro fantasma aleggiava all’intorno; con la morte di Lennon si è avuta la certezza che ormai ogni sia pure velleitaria speranza si dissolveva definitivamente: ora si era sicuri che i Beatles assieme, sia pure soltanto per realizzare un servizio fotografico, per essere intervistati coralmente e rinverdire la domanda sciocca di un loro ritorno, veniva a esalare l’ultimo respiro con colui che era stato con McCartney il plasmatore della magia.
E la magia si concretizza nel brano di apertura del secondo album solista di Lennon dopo lo scioglimento della band: 𝐈𝐦𝐚𝐠𝐢𝐧𝐞 che dà il titolo al disco del 1971.

A mio parere una delle canzoni più belle di sempre, anche perché costruita con una semplicità disarmante: un pianoforte vellutato che ripete un giro di accordi, che culla l’ascoltatore e lo accompagna in un viaggio anarcoide dove si immagina un mondo senza strutture. Interviene una sezione di archi me è lontana e come dissipata nella nebbia, una foschia leggera che sa di utopia, che vela nella distanza il mondo immaginato in una manciata di versi.

A mio parere una delle canzoni più belle di sempre, anche perché costruita con una semplicità disarmante: un pianoforte vellutato che ripete un giro di accordi, che culla l’ascoltatore e lo accompagna in un viaggio anarcoide dove si immagina un mondo senza strutture. Interviene una sezione di archi me è lontana e come dissipata nella nebbia, una foschia leggera che sa di utopia, che vela nella distanza il mondo immaginato in una manciata di versi.

“𝑃𝑢𝑜𝑖 𝑑𝑖𝑟𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑢𝑛 𝑠𝑜𝑔𝑛𝑎𝑡𝑜𝑟𝑒, 𝑚𝑎 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑖𝑙 𝑠𝑜𝑙𝑜.”
Puoi farlo, te lo concedo e so che hai ragione, in fondo, ma il sogno deve proseguire, infatti la parola più ripetuta nel testo è proprio il titolo: Immagina. Immaginare è un verbo che ha costruito storie da quando esiste l’umanità e nel mondo immaginato da Lennon nella canzone, così privo di tensioni, così libero da strutture, forse verrebbe a mancare il materiale necessario per costruire storie, per immaginare appunto.

Puoi farlo, te lo concedo e so che hai ragione, in fondo, ma il sogno deve proseguire, infatti la parola più ripetuta nel testo è proprio il titolo: Immagina. Immaginare è un verbo che ha costruito storie da quando esiste l’umanità e nel mondo immaginato da Lennon nella canzone, così privo di tensioni, così libero da strutture, forse verrebbe a mancare il materiale necessario per costruire storie, per immaginare appunto.

“𝐼𝑚𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑐𝑖 𝑠𝑖𝑎 𝑖𝑙 𝑝𝑎𝑟𝑎𝑑𝑖𝑠𝑜, 𝑠𝑜𝑝𝑟𝑎 𝑑𝑖 𝑛𝑜𝑖 𝑠𝑜𝑙𝑜 𝑖𝑙 𝑐𝑖𝑒𝑙𝑜 𝑒 𝑠𝑜𝑡𝑡𝑜 𝑛𝑒𝑠𝑠𝑢𝑛 𝑖𝑛𝑓𝑒𝑟𝑛𝑜”.
Subito Lennon spoglia completamente l’universo umano di ogni mito, sopra esiste solo il cielo, la visione non è più impedita da artificiali costruzioni teoriche, i cieli mobili delle visioni medievali, del paradiso dantesco; sembra anche suggerire un allontanamento dalla stessa osservazione scientifica.

“𝐼𝑚𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑎 𝑙𝑎 𝑔𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑣𝑖𝑣𝑒𝑟𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑙’𝑜𝑔𝑔𝑖”.
Non c’è una visione di futuro, forse neppure memoria, infatti
“𝑖𝑚𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑒𝑠𝑖𝑠𝑡𝑎𝑛𝑜 𝑛𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖, 𝑛𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑐𝑢𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑏𝑎𝑡𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑜 𝑚𝑜𝑟𝑖𝑟𝑒 𝑒 𝑛𝑒𝑠𝑠𝑢𝑛𝑎 𝑟𝑒𝑙𝑖𝑔𝑖𝑜𝑛𝑒”.

La canzone si nutre delle sue stesse contraddizioni: se non vi è nulla per cui combattere, confini da difendere, viene a mancare anche il concetto di Storia, quindi di racconto, di immaginazione.
Lennon qui ci ha disarmati, ci fa vagare nella bruma del nulla, nel vuoto: perché se privi l’uomo di ciò che lo rende uomo, cosa resta? “Immagina nessun possesso”, forse la cosa più difficile da pensare: possiamo fare a meno di molte cose ma privarci di quanto possediamo è molto difficile. I detrattori qui hanno buon gioco: proprio uno come lui predica il “non possesso” lui che occupa tre appartamenti nel più esclusivo palazzo di New York? Lui che nuota nei soldi? Critica applicabile ad un numero svariato di categorie umane, ad istituzioni ma che non danneggiano lo spirito che le sostiene e che non prenderò in considerazione.
Qui c’è un mondo bianco come un foglio da scrivere. Siamo oltre i mondi immaginari teorizzati da Campanella da Tommaso Moro che pure prevedevano una struttura: qui non siamo più nella “Città del Sole” teorizzata dal primo o nel mondo di “Utopia” teorizzato dal secondo, qui siamo ai primordi, al Big Bang, al brodo primordiale in cui si è crogiolata la vita.
Canzone densa di negazioni, privativa, fa una tabula rasa di ciò di cui si nutre l’umanità, nel bene e nel male, in ultima analisi una canzone che annulla se stessa.
Che Lennon all’epoca avesse voluto suggerire un nichilismo conseguente alla rottura dei Beatles? Vi erano dissapori tra lui e McCartney, l’altro pilastro dei quattro, che aveva citato i compagni in tribunale e a cui è dedicata una sarcastica canzone dell’album. Capita che ragioni molto prosaiche diano il “la” per scrivere cose che trascendono la pura contingenza. Mark David Chapman all’ingresso del Dakota Building attese il rientro di John Lennon, al quale aveva chiesto l’autografo quattro ore prima, e della moglie Yoko Ono, lo chiamò per nome per attirare la sua attenzione e gli esplose cinque colpi di pistola quattro dei quali andarono a segno.

“𝐼 𝑤𝑎𝑠 𝑠ℎ𝑜𝑡...”, ebbe il tempo di mormorare, “𝑚𝑖 ℎ𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑠𝑝𝑎𝑟𝑎𝑡𝑜...”.
Questo successe alle 22:52, alle 23:15 Lennon venne dichiarato morto. Venti minuti durante i quali non sapremo mai a cosa avesse pensato, ma forse non fece in tempo a pensare a nulla: un proiettile colpì l’aorta e la morte fu quasi istantanea.
Come un fermo immagine tragico, uno scatto che congela un istante, vedo Chapman con in mano una pistola fumante leggere “𝐼𝑙 𝐺𝑖𝑜𝑣𝑎𝑛𝑒 𝐻𝑜𝑙𝑑𝑒𝑛”, il romanzo di Salinger che portava con sé, indifferente, in attesa della polizia; Yoko Ono terrorizzata che forse guarda il suo uomo sanguinante a terra, o forse l’assassino con una domanda muta negli occhi e John che in quel momento realizza che il mondo di Imagine può esistere solo se si raggiunge la condizione in cui si trova.


foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 8 dicembre 2020

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𝐓𝐑𝐀𝐍𝐒 𝐄𝐔𝐑𝐎𝐏𝐄 𝐄𝐗𝐏𝐑𝐄𝐒𝐒 
𝐊𝐫𝐚𝐟𝐭𝐰𝐞𝐫𝐤 (𝟏𝟗𝟕𝟕)


𝐴 𝑦𝑜𝑢𝑛𝑔 𝑚𝑎𝑛 𝑠𝑡𝑒𝑝𝑝𝑒𝑑 𝑖𝑛𝑡𝑜 𝑡ℎ𝑒 ℎ𝑎𝑙𝑙 𝑜𝑓 𝑚𝑖𝑟𝑟𝑜𝑟𝑠
𝑊ℎ𝑒𝑟𝑒 ℎ𝑒 𝑑𝑖𝑠𝑐𝑜𝑣𝑒𝑟𝑒𝑑 𝑎 𝑟𝑒𝑓𝑙𝑒𝑐𝑡𝑖𝑜𝑛 𝑜𝑓 ℎ𝑖𝑚𝑠𝑒𝑙𝑓 .

𝑆𝑜𝑚𝑒𝑡𝑖𝑚𝑒𝑠 ℎ𝑒 𝑠𝑎𝑤 ℎ𝑖𝑠 𝑟𝑒𝑎𝑙 𝑓𝑎𝑐𝑒
𝐴𝑛𝑑 𝑠𝑜𝑚𝑒𝑡𝑖𝑚𝑒𝑠 𝑎 𝑠𝑡𝑟𝑎𝑛𝑔𝑒𝑟 𝑎𝑡 ℎ𝑖𝑠 𝑝𝑙𝑎𝑐𝑒

𝐻𝑒 𝑓𝑒𝑙𝑙 𝑖𝑛 𝑙𝑜𝑣𝑒 𝑤𝑖𝑡ℎ 𝑡ℎ𝑒 𝑖𝑚𝑎𝑔𝑒 𝑜𝑓 ℎ𝑖𝑚𝑠𝑒𝑙𝑓
𝐴𝑛𝑑 𝑠𝑢𝑑𝑑𝑒𝑛𝑙𝑦 𝑡ℎ𝑒 𝑝𝑖𝑐𝑡𝑢𝑟𝑒 𝑤𝑎𝑠 𝑑𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑡𝑒𝑑

𝐸𝑣𝑒𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑔𝑟𝑒𝑎𝑡𝑒𝑠𝑡 𝑠𝑡𝑎𝑟𝑠
𝐷𝑖𝑠𝑙𝑖𝑘𝑒 𝑡ℎ𝑒𝑚𝑠𝑒𝑙𝑣𝑒𝑠 𝑖𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑙𝑜𝑜𝑘𝑖𝑛𝑔 𝑔𝑙𝑎𝑠𝑠

𝐻𝑒 𝑚𝑎𝑑𝑒 𝑢𝑝 𝑡ℎ𝑒 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛 ℎ𝑒 𝑤𝑎𝑛𝑡𝑒𝑑 𝑡𝑜 𝑏𝑒
𝐴𝑛𝑑 𝑐ℎ𝑎𝑛𝑔𝑒𝑑 𝑖𝑛𝑡𝑜 𝑎 𝑛𝑒𝑤 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎𝑙𝑖𝑡𝑦

𝑇ℎ𝑒 𝑎𝑟𝑡𝑖𝑠𝑡 𝑖𝑠 𝑙𝑖𝑣𝑖𝑛𝑔 𝑖𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑚𝑖𝑟𝑟𝑜𝑟
𝑊𝑖𝑡ℎ 𝑡ℎ𝑒 𝑒𝑐ℎ𝑜𝑒𝑠 𝑜𝑓 ℎ𝑖𝑚𝑠𝑒𝑙𝑓

𝐸𝑣𝑒𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑔𝑟𝑒𝑎𝑡𝑒𝑠𝑡 𝑠𝑡𝑎𝑟𝑠
𝐹𝑖𝑥 𝑡ℎ𝑒𝑖𝑟 𝑓𝑎𝑐𝑒 𝑖𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑙𝑜𝑜𝑘𝑖𝑛𝑔 𝑔𝑙𝑎𝑠𝑠
𝐸𝑣𝑒𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑔𝑟𝑒𝑎𝑡𝑒𝑠𝑡 𝑠𝑡𝑎𝑟𝑠
𝐹𝑖𝑥 𝑡ℎ𝑒𝑖𝑟 𝑓𝑎𝑐𝑒 𝑖𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑙𝑜𝑜𝑘𝑖𝑛𝑔 𝑔𝑙𝑎𝑠𝑠
(𝑇ℎ𝑒 𝐻𝑎𝑙𝑙 𝑜𝑓 𝑀𝑖𝑟𝑟𝑜𝑟𝑠)


Può un treno che attraversa l’Europa essere il motore che trascina un’esperienza musicale? Certo, può. Se quattro tipi tedeschi dall’aria rigida, fredda, si mettono a smanettare sugli strumenti che la tecnologia mette a disposizione: generatori di frequenze, moog, sintetizzatori sono al servizio di questi signori che in essi si immedesimano al punto da trasformarsi in macchine programmate, automi dotati di creatività ma può la creatività essere caratteristica di un automa? Diremmo di no e allora i 𝐊𝐫𝐚𝐟𝐭𝐰𝐞𝐫𝐤 diventano una provocazione, un ironico distacco dalla tecnologia che nel tentativo di piegarla ai propri voleri ne vengono assorbiti, ne diventano parte integrante.
𝐑𝐚𝐥𝐟 𝐇𝐮̈𝐭𝐭𝐞𝐫 - voce, tastiere, sintetizzatori, sequencer, vocoder, effetti sonori. 𝐅𝐥𝐨𝐫𝐢𝐚𝐧 𝐒𝐜𝐡𝐧𝐞𝐢𝐝𝐞𝐫 - sintetizzatori, sequencer, effetti sonori, voce, vocoder. 𝐊𝐚𝐫𝐥 𝐁𝐚𝐫𝐭𝐨𝐬 - sintetizzatori, percussioni elettroniche, effetti sonori. 𝐖𝐨𝐥𝐟𝐠𝐚𝐧𝐠 𝐅𝐥𝐮̈𝐫 - percussioni elettroniche.

I Kraftwerk sono i loro suoni sequenziati, i loro generatori di ritmo che sostituiscono alle pelli dei tamburi e al suono cristallino dei piatti, transistor e circuiti integrati, scorrere di elettroni su piste di circuiti stampati. La musica si è alimentata negli ultimi cinquant’anni di elettricità, il rock non è quasi concepibile senza strumenti elettrificati. E allora il nome della band è azzeccatissino: Kraftwerk, in italiano centrale elettrica. Se si toglie l’energia elettrica non è pensabile nessuna esecuzione dal vivo e tanto meno l’ascolto da casa. L’estetica di tutta la musica che abbiamo trattato e che tratteremo (salvo qualche eccezione) è possibile grazie alla produzione forzata di energia: ma tutti gli artisti hanno usato l’energia (elettrica ed elettronica) non ne sono stati usati: i Kraftwerk ne sembrano asserviti, essi stessi hanno subito una mutazione trasformandosi in energia stessa, in circuiti programmati: hanno amalgamato loro stessi alla loro estetica, direi quasi che si sono fatti suonare.
Ogni nota, diremmo ogni frequenza qui vede oscillare il DNA umano. Ogni suono qui sembra generato con la fredda consapevolezza di portare con sé un po’ di genoma umano e restituirlo in una ripetitività automatica, discioglierlo in graffianti cumuli di accordi.

Ogni nota, diremmo ogni frequenza qui vede oscillare il DNA umano. Ogni suono qui sembra generato con la fredda consapevolezza di portare con sé un po’ di genoma umano e restituirlo in una ripetitività automatica, discioglierlo in graffianti cumuli di accordi. I testi non sembrano canzoni ma citazioni, cartelloni pubblicitari, slogan di una società alienata nella 𝐄𝐮𝐫𝐨𝐩𝐞 𝐄𝐧𝐝𝐥𝐞𝐬𝐬, l’infinita Europa la vita è infinita, si divide tra “𝑐𝑎𝑟𝑡𝑜𝑙𝑖𝑛𝑒 𝑒 𝑣𝑖𝑡𝑎 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑒” 𝑡𝑟𝑎 “𝑒𝑙𝑒𝑔𝑎𝑛𝑧𝑎 𝑒 𝑑𝑒𝑐𝑎𝑑𝑒𝑛𝑧𝑎”, in “𝑝𝑎𝑟𝑐ℎ𝑖, 𝐻𝑜𝑡𝑒𝑙𝑠 𝑒 𝑝𝑎𝑙𝑎𝑧𝑧𝑖” “𝑣𝑖𝑡𝑎 𝑒 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜 𝑖𝑛𝑓𝑖𝑛𝑖𝑡𝑖”, arrivano dopo una lunga introduzione a cavallo di una melodia leggera e metallica che sposa l’elettronica ad un Pop raffinato, scintillante: siamo lungo strade ricche di luminarie, vetrine luccicanti, viali di una città infinita “𝑒𝑙𝑒𝑔𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑒 𝑑𝑒𝑐𝑎𝑑𝑒𝑛𝑡𝑒”, ecco la parola magica: decadenza che ci riporta ai primi anni del secolo scorso, quando l’Europa così infinita sarebbe precipitata nel baratro della prima guerra mondiale.
Infatti un gioco di specchi rimanda immagini distorte dove le “stelle” intese come figure del divismo si innamorano della propria immagine. Con un tema molto meno rassicurante del precedente, 𝐓𝐡𝐞 𝐇𝐚𝐥𝐥 𝐨𝐟 𝐌𝐢𝐫𝐫𝐨𝐫𝐬 ripropone il mito di Narciso per la società moderna con la differenza che ora ognuno ha la possibilità di costruire la propria immagine e di cambiarla all’occorrenza ricevendo come soluzione un rispecchiamento continuo, straniante: “𝐿’𝑎𝑟𝑡𝑖𝑠𝑡𝑎 𝑣𝑖𝑣𝑒 𝑖𝑛 𝑢𝑛𝑜 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑐ℎ𝑖𝑜 𝑐𝑜𝑛 𝑙’𝑒𝑐𝑜 𝑑𝑖 𝑠𝑒 𝑠𝑡𝑒𝑠𝑠𝑜”, il ruolo dell’artista si frammenta in rimandi di immagine, l’artista come creatore vive in uno specchio e deve ogni poco ritrovare la sua vera immagine. Un rimprovero allo star system che spersonalizza, l’artista come emblema dell’uomo moderno che sembra avanzare nel brano con passo lento e pesante riprodotto dal battito in sottofondo che lo accompagna fino alla fine. Il tema che torna è come allucinato, fisso ad un orizzonte irraggiungibile perché perduto in mille riflessi.

In questa Europa senza fine, fatta di luccicanti richiami ci si riduce a 𝐒𝐡𝐨𝐰𝐫𝐨𝐨𝐦 𝐃𝐮𝐦𝐦𝐢𝐞𝐬, manichini da vetrina, corpi in esposizione, fatti per essere guardati. Immediatamente introdotti con un tema che si sposta su e giù di un’ottava su un battere implacabile e echi sullo sfondo. Ma c’è un tentativo di ribellione quando i manichini decidono di muoversi e rompono la vetrina, escono per la città, entrano in una sala da ballo e iniziano a danzare, sembra non esserci via d’uscita se non manifestare se stessi nel ballo, nel corpo che si muove e che esprime la propria indipendenza; nella danza i manichini diventano umani, l’anima del movimento li scuote. Anche se tutto questo prende corpo in una musica prigioniera dei propri accordi che si scioglie in variazioni per rientrare nella gabbia di ritmi allucinati e melodie meccaniche, voci distorte e prive di emotività. I Kraftwerk si presentano come macchine, androidi asserviti ad una coscienza che li ha programmati.

Poi arriva con accordi in crescendo il 𝐓𝐫𝐚𝐧𝐬 𝐄𝐮𝐫𝐨𝐩𝐞 𝐄𝐱𝐩𝐫𝐞𝐬𝐬: signori in carrozza in una corsa annunciata da voci metalliche: un recitato che è un annuncio: sarà una corsa di 14 minuti divisa in tre parti da cui non c’è scampo, senza stazioni intermedie. Lasciamo Parigi in mattinata: è una fuga ma sembra di essere su un convoglio di deportati con un tema che si propone ad intervalli con praticamente impercettibili variazioni. Una macchina che corre inesorabile su binari che apparentemente attraversano il nostro continente, in pratica ci mostrano una società disumanizzata che corre non si sa dove come la scena musicale dell’epoca che vedeva esplodere il Punk e la grande storia che portava verso la fine di un decennio straordinario e violento. Il testo, impersonale come un annuncio, dice di una sosta a Vienna in un caffè notturno poi “𝑠𝑡𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑜𝑝𝑜 𝑠𝑡𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒” (𝐒𝐭𝐚𝐭𝐢𝐨𝐧 𝐭𝐨 𝐒𝐭𝐚𝐭𝐢𝐨𝐧 titolo dell’album di 𝐃𝐚𝐯𝐢𝐝 𝐁𝐨𝐰𝐢𝐞 pubblicato l’anno precedente) accenna ad un incontro a Dusseldorf (sede degli studi dove registravano i Kraftwerk) con Bowie appunto e Iggy Pop. Sembra quasi di percepire qui l’odore di fuliggine tipico dei treni tanto è concreta e realistica la ricostruzione sintetica della corsa di un convoglio, sembra quasi di essere cullati dalle giunture dei binari che a ritmici intervalli passano sotto le ruote. Fintanto che il convoglio con stridore di freni si ferma...e non sappiamo dove siamo finiti, quale stazione è la nostra destinazione: sappiamo che il viaggio non ha offerto grandi paesaggi, non ha attraversato luoghi ameni e anche i passaggi nelle città nominate non ci hanno mostrato le loro bellezze, abbiamo solo viaggiato in una lunga galleria.

𝐅𝐫𝐚𝐧𝐳 𝐒𝐜𝐡𝐮𝐛𝐞𝐫𝐭 con il riferimento al compositore austriaco ci rimanda idealmente nel periodo romantico. Su un loop ritmico prendono vita cluster di accordi che sembrano rimbalzare come echi, perdersi svolazzanti su un paesaggio primaverile e sbiadito con un cielo pieno di nubi sfilacciate foriere di pioggia da cui filtrano sporadici raggi di sole. Il tutto sfuma nelle voci filtrate, metalliche, robotizzate che recitano Endless, senza fine, a riprendere il brano di apertura.

La musica di avanguardia si colora di popolarità e trasforma un suono di élite in qualcosa di più fruibile ma pur sempre attento alla ricerca. I Kraftwerk costruiscono composizioni minimaliste, spoglie, monocromatiche, tenute su timbri e sfumature di colore blu elettrico..


foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 4 dicembre 2020

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𝐅𝐫𝐚𝐧𝐜𝐨 𝐁𝐚𝐭𝐭𝐢𝐚𝐭𝐨 (𝟏𝟗𝟕𝟒)


𝑃𝑒𝑟 𝑐𝑜𝑛𝑜𝑠𝑐𝑒𝑟𝑒 𝑀𝑒 𝑒 𝑙𝑒 𝑚𝑖𝑒 𝑣𝑒𝑟𝑖𝑡𝑎̀
𝐼𝑜 ℎ𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑏𝑎𝑡𝑡𝑢𝑡𝑜 𝐹𝑎𝑛𝑡𝑎𝑠𝑚𝑖 𝑑𝑖 𝑎𝑛𝑔𝑜𝑠𝑐𝑒
𝐶𝑜𝑛 𝑝𝑒𝑟𝑑𝑖𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑖𝑜 𝑃𝑒𝑟 𝑑𝑖𝑠𝑡𝑟𝑢𝑔𝑔𝑒𝑟𝑒 𝑉𝑒𝑐𝑐ℎ𝑖𝑒 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑡𝑎̀
𝐻𝑜 𝑔𝑎𝑙𝑙𝑒𝑔𝑔𝑖𝑎𝑡𝑜 𝑆𝑢 𝑚𝑎𝑟𝑖 𝑑𝑖 𝑖𝑟𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑎𝑙𝑖𝑡𝑎̀
𝐻𝑜 𝑑𝑜𝑟𝑚𝑖𝑡𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑛𝑜𝑛 𝑚𝑜𝑟𝑖𝑟𝑒
𝐵𝑢𝑡𝑡𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑖 𝑚𝑖𝑒𝑖 𝑚𝑖𝑡𝑖 𝑑𝑖 𝑐𝑎𝑟𝑡𝑎
𝑆𝑢 𝑐𝑖𝑒𝑙𝑖 𝑑𝑖 𝑠𝑐ℎ𝑖𝑧𝑜𝑓𝑟𝑒𝑛𝑖𝑎

(𝑁𝑜 𝑈 𝑇𝑢𝑟𝑛 - 𝐹. 𝐵𝑎𝑡𝑡𝑖𝑎𝑡𝑜).


Scordiamoci il Battiato che verrà più avanti, il Battiato che costruisce canzoni, il più conosciuto, il più venduto (ovviamente), il più accattivante, il Battiato melodicamente strutturato, e avventuriamoci in quello elettronico, digitale, sperimentale, forse ironico, che ci meraviglia con sintetizzatori, strumenti i più disparati, dimentichiamoci per un po’ l’idea classica e canonica di musica, saltiamo al suo quarto album. 𝐂𝐋𝐈𝐂.

Lo scatto di un interruttore, il suono che dovrebbe accendere dei circuiti mentali diversi, tortuosi forse ma affascinanti; labirinti tra gangli neurali: qui non si balla, non si canticchiano melodie, si è immersi in quanto di meno commerciale possa esserci in ambito musicale. D’altronde non è una novità assoluta, lo è per l’Italia perché oltre le Alpi in quella Germania elettronica che ci ha fornito l’impropriamente detto 𝑲𝒓𝒂𝒖𝒕-𝑹𝒐𝒄𝒌 già band avanguardistiche come i 𝑪𝒂𝒏, , Can, i 𝑵𝒆𝒖, i 𝑭𝒂𝒖𝒔𝒕 solo per citarne alcuni, si sono cimentati in universi musicali paralleli, e lo stesso Battiato ha esordito con cose tutt’altro che di maniera.
Cose sorprendenti, collage musicali, recitativi, andando a pescare in altri territori, combinando melodie conosciute. Quello spirito libero di Gaber gli diede lo slancio e propose di accorciare il suo nome in Franco (invece di Francesco) per non essere confuso con l’allora nastro nascente Guccini. Ma Battiato con il cantautore ha poco da spartire e meno ancora lo si può confondere.

Con il Battiato di Clic si scende nelle profondità di noi stessi, nelle viscere della terra: suoni eterei, un sax gracchiante che entra a disturbare cacciato via da note di pianoforte poi un Sequencer che entra a rendere solido il tutto con il suo giro cupo. E’ un tappeto sonoro, una galassia che ruota compiendo un giro non in milioni di anni ma in pochi minuti: il tempo astronomico accelerato. 𝐈 𝐂𝐚𝐧𝐜𝐞𝐥𝐥𝐢 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐌𝐞𝐦𝐨𝐫𝐢𝐚 si aprono davanti a noi e ci mostrano la nostra casa comune, quell’inconscio contenitore collettivo dove accumuliamo scorie, frammenti. Battiato sembra suggerirci questo, molta musica elettronica lo fa: pochi anni prima era la psichedelia, i 𝐏𝐢𝐧𝐤 𝐅𝐥𝐨𝐲𝐝 prima maniera ad esplorare il nascosto e lo facevano a colori vivaci, tinte rutilanti, caleidoscopi abbacinanti; l’elettronica ci ha insegnato ad essere più meditativi, la discesa nell’inconscio avviene con lunghi respiri, ad occhi chiusi.

Non c’è possibilità, non per ora, non mentre percorri questa strada, di tornare indietro: 𝐍𝐨 𝐔 𝐓𝐮𝐫𝐧, nessuna inversione di marcia, devi proseguire lungo questa direzione. Qui si intromettono suoni estranei, lamiere percosse e la voce che recita un testo rovesciato (non è un caso) che il prezioso libro di 𝐅𝐚𝐛𝐢𝐨 𝐙𝐮𝐟𝐟𝐚𝐧𝐭𝐢 su Battiato (Battiato La Voce del Padrone ed. arcana 2018) ci informa essere evocativo di scene di solitudine cittadina con un rimprovero ad un innominato ministro. Un ritmo sequenziato prende piede sull’unico pezzo cantato che intona stati d’animo: “𝑓𝑎𝑛𝑡𝑎𝑠𝑚𝑖 𝑑𝑖 𝑎𝑛𝑔𝑜𝑠𝑐𝑒...𝑠𝑢 𝑐𝑖𝑒𝑙𝑖 𝑑𝑖 𝑠𝑐ℎ𝑖𝑧𝑜𝑓𝑟𝑒𝑛𝑖𝑎” una follia che si risolve musicalmente in ripetitive sequenze sonore, ossessioni di note e toni.

Ritorna la suggestione tedesca nel successivo 𝐈𝐥 𝐌𝐞𝐫𝐜𝐚𝐭𝐨 𝐝𝐞𝐠𝐥𝐢 𝐃𝐞𝐢: i teutonici 𝐏𝐨𝐩𝐨𝐥 𝐕𝐮𝐡 echeggiano con delicate melodie di piano su tappeti sonori riprendendo un po' l’atmosfera del primo pezzo. Passi, frinire di cicale, qualcuno che si ferma per svuotare la vescica e abbaiare di cani con un suono cupo in sottofondo a suggerire un paesaggio notturno; buio e note sparse di piano. Poi i passi riprendono e si ode lo squillo di un campanello, una porta si apre, note di trombone, una voce che sussurra, un battere di mani su motivi accennati, un maestro che scandisce il tempo su note di piano, gente che ridacchia su note di archi e un vociare come di accompagnamento al crescere degli accordi fino a giungere ad un accenno al 𝐕𝐚𝐥𝐳𝐞𝐫 𝐨𝐩. 𝟔𝟒 𝐧.𝟏 𝐢𝐧 𝐑𝐞 𝐛𝐞𝐦𝐨𝐥𝐥𝐞 𝐝𝐢 𝐂𝐡𝐨𝐩𝐢𝐧, al termine il suono secco di qualcosa che si chiude: il coperchio della tastiera del piano.

E’ un collage 𝐑𝐢𝐞𝐧 𝐧𝐞 𝐯𝐚 𝐏𝐥𝐮𝐬 - 𝐀𝐧𝐝𝐚𝐧𝐭𝐞, che ho cercato di descrivere ma che andrebbe vissuto come la breve sequenza di un film dove la componente mancante è lo sguardo fisico, concreto, che andrebbe sostituito dall’occhio della mente, e questo vale per tutto l’album e penso possa valere per ogni composizione di questo genere. L’esperienza di questo ascolto richiede un passo ulteriore rispetto a ciò che abitualmente intendiamo per musica: qui le immagini (non a caso parlo di immagini, qualcosa di figurativo) si fanno più vive e non così astratte ed evanescenti come in un classico brano di musica.

La sigla della trasmissione 𝐭𝐠𝟐 𝐃𝐨𝐬𝐬𝐢𝐞𝐫 fa di 𝐏𝐫𝐨𝐩𝐫𝐢𝐞𝐝𝐚𝐝 𝐏𝐫𝐨𝐡𝐢𝐛𝐢𝐝𝐚 orse l’unico pezzo conosciuto ai più del disco. Su un tappeto cupo e distorto si snodano campiture sonore come pennellate elettroniche, i sintetizzatori sanno tingere la musica di colori ora vibranti ora opachi fino ad introdursi una sequenza ritmica doppiata da un oboe su cui si sovrappone un violino, sfuma il tutto per riprendere l’onda sonora che ha aperto il pezzo. Un piccolo gioiello elettronico che impreziosisce di sfumature un album già ricco di suggestioni e riferimenti.

Nel 𝐂𝐚𝐧𝐭𝐢𝐞𝐫𝐞 𝐝𝐢 𝐮𝐧’𝐈𝐧𝐟𝐚𝐧𝐳𝐢𝐚 ci introduce nei meandri dei ricordi, un cunicolo dove udiamo voci infantili, echi, vociferare incomprensibile e onde sonore che riverberano da lontano, una sorta di scansione di slogan introduce un intervento di mandole fino a sfumare in un’onda sonora. Le voci infantili sono anche queste in reverse e apprendiamo sempre dal prezioso volume di 𝐙𝐮𝐟𝐟𝐚𝐧𝐭𝐢 (che ha potuto ascoltarle nella giusta “direzione”) che vengono pronunciate frasi al limite dell’assurdo. Ovviamente far capire il senso delle frasi non era nelle intenzioni di Battiato (altrimenti perché registrarle a rovescio?) e qui penso che interessasse il suono delle voci, il loro contrappuntare con le armonie elettroniche.

Il sintonizzarsi di una radio e un tema che apprendiamo essere il segnale dell’intervallo di radio Bucarest, poi una ricerca di frequenze dove udiamo suoni che sanno di Arabia, canti popolari, l’intrufolarsi di un frammento di una canzone del 1937 di 𝐍𝐢𝐧𝐨 𝐅𝐨𝐧𝐭𝐚𝐧𝐚, Scrivimi, “𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑡𝑢 𝑠𝑒𝑖 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑖𝑡𝑎, 𝑚𝑖 𝑑𝑜𝑛𝑎𝑠𝑡𝑖 𝑢𝑛𝑎 𝑟𝑜𝑠𝑎" cantata da un concorrente della Corrida, (popolare trasmissione radiofonica di dilettanti allo sbaraglio, ripresa in anni più recenti dalla tv) poi il recitare di un radio dramma con l’attore che ostenta un forte accento inglese, poi voci e una cornamusa, interventi del 𝐷𝑢𝑐𝑒, il discorso della 𝑅𝑒𝑔𝑖𝑛𝑎 𝐸𝑙𝑒𝑛𝑎 𝑑𝑖 𝑆𝑎𝑣𝑜𝑖𝑎 sulla marcia trionfale dell’𝐴𝑖𝑑𝑎 𝑑𝑖 𝑉𝑒𝑟𝑑𝑖 finché la voce di Battiato ci augura la buonanotte seguita dall’inno nazionale che sfuma in una nota dissonante.

E’ 𝐄𝐭𝐡𝐢𝐤𝐚 𝐅𝐨𝐧 𝐄𝐭𝐡𝐢𝐜𝐚, un collage sonoro, frammenti di sintonia che ha come predecessore 𝐉𝐨𝐡𝐧 𝐂𝐚𝐠𝐞 che con 𝐒𝐭𝐨𝐜𝐤𝐡𝐚𝐮𝐬𝐞𝐧, 𝐒𝐜𝐡𝐨𝐧𝐛𝐞𝐫𝐠, 𝐁𝐚𝐫𝐭𝐨𝐤 sono tra gli autori di musica contemporanea che vengono sovente citati come riferimenti.
Anche in questo caso ovviamente non si deve cercare un’esperienza esclusivamente musicale ma oserei dire totale: il pezzo scorre nelle nostre orecchie e ci si presenta agli occhi della mente come uno spezzone di pellicola della durata di quasi 4 minuti ed è come uno scorrere di pensieri senza trama, lampi e suggerimenti. Una radio che si sintonizza presuppone in fondo una ricerca: forse è questo che voleva fare il Battiato dell’epoca, dirci che dobbiamo guardarci attorno prima di trovare la giusta sintonia: lui lo stava facendo.


foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 27 novembre 2020

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𝐑𝐀𝐃𝐈𝐂𝐈
𝐅𝐫𝐚𝐧𝐜𝐞𝐬𝐜𝐨 𝐆𝐮𝐜𝐜𝐢𝐧𝐢 (𝟏𝟗𝟕𝟐)


Tempo fa con un amico si parlava di cantautori e ho dovuto confessare quanto il mio orecchio fosse a digiuno in questo campo. Dylan è stato il mio faro, poi Neil Young, Joni Mitchell, Nick Drake. ...E italiani? Il mio imbarazzo è stato notevole: ascolti saltuari, cose qua e là. Accidenti mi sono detto: un Nobel lo ha pur vinto un cantautore! E il cantautorato è pure un genere musical-letterario che merita grande attenzione. Attenzione che mi riprometto di dedicare d’ora in poi, per colmare lacune, per approfondire ascolti distratti.

Voglio iniziare con un album che mi porto dietro dalla scuola, e che da tempo non ascoltavo, un disco italiano, di quello che forse è il re dei cantautori italiani (e qui già compio un’eresia: non De Andrè) parlo di 𝐅𝐫𝐚𝐧𝐜𝐞𝐬𝐜𝐨 𝐆𝐮𝐜𝐜𝐢𝐧𝐢 che nel 1972 esce con il suo quarto 33 giri: 𝐑𝐀𝐃𝐈𝐂𝐈.
Guccini all’epoca ha 32 anni, ma sembra che l’età delle illusioni giovanili per lui sia già finita. La copertina, in un antico color seppia, ritrae un’austera famiglia contadina, un gruppo di avi, radici appunto, come se già ci fosse nel nostro una maturità tale da fargli volgere indietro il capo per recuperare nella saggezza degli avi suggerimenti che la pienezza disillusa del tempo vissuto non gli consente più di trovare.

Così “𝑙𝑎 𝑐𝑎𝑠𝑎 𝑑𝑒𝑖 𝑟𝑖𝑐𝑜𝑟𝑑𝑖” siede “𝑠𝑢𝑙 𝑐𝑜𝑛𝑓𝑖𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑒𝑟𝑎”, dice Guccini, ed è sempre la stessa: una pietra antica che tace o forse pronuncia “𝑠𝑢𝑙 𝑐𝑜𝑛𝑓𝑖𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑒𝑟𝑎”. Guccini porta con sé il senso antico degli antenati, volge indietro lo sguardo, oscilla il pensiero e la canzone è un altalenare di possibilità, perplessità, domande senza risposta ma che giungono alla conclusione che trasforma la casa in un "𝑝𝑢𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑚𝑒𝑚𝑜𝑟𝑖𝑎”, una sede per le proprie radici, una fonte di saggezza.

𝐋𝐚 𝐋𝐨𝐜𝐨𝐦𝐨𝐭𝐢𝐯𝐚, uno scarno classico accompagnamento di chitarra e la voce chiara e scandita ci narrano di un anarchico ferroviere che si lancia con una locomotiva “𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑜 𝑢𝑛 𝑡𝑟𝑒𝑛𝑜 𝑑𝑖 𝑠𝑖𝑔𝑛𝑜𝑟𝑖”. La giustizia proletaria che si precipita contro un convoglio per compiere una strage, sembra prefigurare la violenza di sinistra che nel decennio di fuoco ha manifestato per le piazze. Unica canzone di colore nettamente politico della raccolta, vede una macchina “𝑚𝑖𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠𝑜” lanciata contro coloro che quel progresso hanno alimentato a scapito del sudore di tanti lavoratori, un gesto estremo che si ritorce contro chi lo mette in atto. Non penso che Guccini approvasse una strage e quindi la canzone è da leggere come metafora di una forza “𝑙𝑎𝑛𝑐𝑖𝑎𝑡𝑎 𝑎 𝑏𝑜𝑚𝑏𝑎 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑜 𝑙’𝑖𝑛𝑔𝑖𝑢𝑠𝑡𝑖𝑧𝑖𝑎”: la locomotiva verrà deviata su un binario morto dove troverà la distruzione e la morte del suo conducente.

Stupisce forse che Guccini abbia voluto inserire una canzone così spiccatamente militante in un album che trova la sua forza in una certa intimità di temi, dove una malinconia non tanto velata sembra fare il paio con un senso di perdita, forse di rammarico. Ma a ben vedere c’è qui anche una ricerca di senso e dunque la locomotiva cerca la strada in una idea di giustizia che seppure sbagliata nei metodi resta valida nelle intenzioni

Una ricerca di significato che si ferma di fronte all’oceano, sulle riflessioni della 𝐂𝐚𝐧𝐳𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐁𝐚𝐦𝐛𝐢𝐧𝐚 𝐏𝐨𝐫𝐭𝐨𝐠𝐡𝐞𝐬𝐞 contro “𝑙’𝑜𝑟𝑔𝑜𝑔𝑙𝑖𝑜 𝑐𝑖𝑒𝑐𝑜” di chi conosce “𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑙𝑒𝑔𝑔𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑠𝑒”. Canzone divisa in due diverse sfumature musicali: una sorta di invettiva nella prima parte con il cantato che prende l’avvio “a cappella”, senza accompagnamento. “𝐸 𝑝𝑜𝑖, 𝑒 𝑝𝑜𝑖...” un avverbio ripetuto come se fossimo nel mezzo di un discorso già avviato, che presuppone qualcosa che stava prima, un cicaleccio, una confusione di verità, “𝑑𝑖 𝑓𝑜𝑟𝑚𝑢𝑙𝑒 𝑣𝑢𝑜𝑡𝑒”, “𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑓𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑎 𝑐ℎ𝑖 𝑝𝑎𝑟𝑙𝑎 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑓𝑜𝑟𝑡𝑒” . In mezzo a tutto questo la Bambina Portoghese è sola di fronte all’oceano, senza parole, “𝑟𝑢𝑚𝑜𝑟𝑖 𝑠𝑜𝑙𝑡𝑎𝑛𝑡𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑣𝑜𝑐𝑖 𝑠𝑜𝑟𝑝𝑟𝑒𝑠𝑒”, anche le voci degli amici vicino vengono sommerse dalla voce del mare: le parole inutili si zittiscono davanti ai suoni primordiali e alla consapevolezza di essere “𝑢𝑛 𝑝𝑢𝑛𝑡𝑜 𝑎𝑙 𝑙𝑖𝑚𝑖𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑖𝑛𝑒𝑛𝑡𝑒”. La bambina nel caldo del sole svanisce, di lei resta il bikini amaranto ed il mare. Guccini non ci dice che ne è di lei, il poeta che è in lui ci lascia sospesi come la bambina nel suo stupore: di lei resta la consapevolezza della velocità delle stagioni, di “𝑞𝑢𝑒𝑙 𝑣𝑖𝑧𝑖𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑡𝑖 𝑢𝑐𝑐𝑖𝑑𝑒𝑟𝑎̀” che “𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑎𝑟𝑎̀ 𝑓𝑢𝑚𝑎𝑟𝑒 𝑜 𝑏𝑒𝑟𝑒”ma qualcosa che ci portiamo dentro, che è connaturato in noi e che è vivere.

Tra amarezza e rimpianto, 𝐏𝐢𝐜𝐜𝐨𝐥𝐚 𝐂𝐢𝐭𝐭𝐚̀ (Modena) si muove tra amore e odio, “𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑞𝑢𝑖 𝑛𝑒𝑖 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑖𝑒𝑟𝑖 𝑙𝑒 𝑠𝑡𝑟𝑎𝑑𝑒 𝑑𝑖 𝑖𝑒𝑟𝑖”: una presenza ingombrante, diroccata nel dopoguerra, ricca di amori adolescenziali e voci e profumi. Ma Guccini vede il passato come “𝑠𝑐𝑖𝑜𝑐𝑐𝑎 𝑎𝑑𝑜𝑙𝑒𝑠𝑐𝑒𝑛𝑧𝑎”, una “𝑠𝑡𝑢𝑝𝑖𝑑𝑎 𝑖𝑛𝑛𝑜𝑐𝑒𝑛𝑧𝑎” che corre “𝑣𝑒𝑟𝑠𝑜 𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑎𝑡𝑒𝑟𝑖𝑎, 𝑡𝑟𝑎 𝑙𝑎 𝑣𝑖𝑎 𝐸𝑚𝑖𝑙𝑖𝑎 𝑒 𝑖𝑙 𝑊𝑒𝑠𝑡”; la pianura emiliana si trasforma in uno spazio sconfinato che consuma un “𝑣𝑢𝑜𝑡𝑜 𝑚𝑖𝑡𝑜 𝑎𝑚𝑒𝑟𝑖𝑐𝑎𝑛𝑜 𝑑𝑖 𝑡𝑒𝑟𝑧𝑎 𝑚𝑎𝑛𝑜”. Tra queste vie prendono forma suoni e odori e tutto sembra stare stretto: “𝑝𝑖𝑎𝑛𝑔𝑜 𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑟𝑖𝑚𝑝𝑖𝑎𝑛𝑔𝑜 𝑙𝑎 𝑡𝑢𝑎 𝑝𝑜𝑙𝑣𝑒𝑟𝑒, 𝑖𝑙 𝑡𝑢𝑜 𝑓𝑎𝑛𝑔𝑜”: mestizia per la giovinezza andata, liberazione dalle catapecchie, dalle pietre, dalle liti e la miseria.

E' una filastrocca 𝐋𝐚 𝐂𝐚𝐧𝐳𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐢 𝐃𝐨𝐝𝐢𝐜𝐢 𝐌𝐞𝐬𝐢 arricchita di colori che dipingono i mesi dell’anno declamati dalla voce seria e accigliata, inconfondibile con la erre francese, di questo signore che dalla Osteria delle Dame di Modena dava i suoi spettacoli dal vivo tra un fiasco di vino e l’altro. Tempo che passa “𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑔𝑙𝑖 𝑎𝑛𝑛𝑖 𝑑𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑜 𝑚𝑎 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑔𝑙𝑖 𝑎𝑛𝑛𝑖 𝑢𝑔𝑢𝑎𝑙𝑒, 𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑎 𝑚𝑎𝑛𝑜 𝑑𝑖 𝑡𝑎𝑟𝑜𝑐𝑐ℎ𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑎𝑖 𝑚𝑎𝑖 𝑔𝑖𝑜𝑐𝑎𝑟𝑒”. Ma Guccini sapeva quale mano giocare e ha scelto le carte del poeta che si accompagna con scarni arrangiamenti e sembra dirci che non lontano si scopre il mondo, non in un west falso e costruito c’è un altrove ma dentro noi stessi, nelle nostre radici appunto risiede il mondo che ci appartiene: nella “𝑝𝑖𝑐𝑐𝑜𝑙𝑎 𝑐𝑖𝑡𝑡𝑎̀, 𝑏𝑎𝑠𝑡𝑎𝑟𝑑𝑜 𝑝𝑜𝑠𝑡𝑜”, nella “𝑐𝑎𝑠𝑎 𝑠𝑢𝑙 𝑐𝑜𝑛𝑓𝑖𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑒𝑟𝑎” oppure nell’incontro con un amore finito dove una coppia si rivede dopo anni circondata dalla nebbia, tra macchine ferme, nell’immobilità, nel silenzio di frasi non dette, tra “𝑐𝑎𝑟𝑡𝑒 𝑒 𝑣𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑣𝑜𝑙𝑎𝑛𝑜 𝑣𝑖𝑎 𝑑𝑎 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑡𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒, 𝑣𝑒𝑐𝑐ℎ𝑖 𝑚𝑢𝑟𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑜𝑛𝑔𝑜𝑛𝑜 𝑛𝑢𝑜𝑣𝑖 𝑒𝑟𝑜𝑖” : bozzetti che descrivono magistralmente un ambiente, che immergono i due protagonisti in un’atmosfera che rispecchia le loro malinconie. Dove “𝑙𝑎 𝑡𝑟𝑖𝑠𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 𝑝𝑜𝑖 𝑐𝑖 𝑎𝑣𝑣𝑜𝑙𝑠𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑚𝑖𝑒𝑙𝑒” che restituisce un’immagine vischiosa che avviluppa nel dolce-amaro di una sostanza, il miele, che fa il paio con un sentimento umano non rappresentabile se non attraverso immagini. Ed è qui la forza evocativa di questo album: nell’incontro tra immagini ora focalizzate, “𝑠𝑡𝑜𝑣𝑖𝑔𝑙𝑖𝑒 𝑐𝑜𝑙𝑜𝑟 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑎𝑙𝑔𝑖𝑎” e le aperture oceaniche sul confine di un continente, tra la via Emilia e il West.

𝐈𝐥 𝐕𝐞𝐜𝐜𝐡𝐢𝐨 𝐞 𝐢𝐥 𝐁𝐚𝐦𝐛𝐢𝐧𝐨 mette a confronto generazioni su uno scenario di catastrofe. Un sintetizzatore apre il pezzo più struggente dell’album, un’ocarina fa da introduzione a una coppia che vediamo di spalle incontro alla sera e una polvere rossa in un’immensa pianura, e torri di fumo. Ci viene presentato qui uno spettacolo di distruzione che oltre al senso letterale di una reale catastrofe nucleare che all’epoca disturbava i sogni di molti, si legge la metafora della vecchiaia a cui sono stati rubati i sogni e che può solo osservare spettacoli di desolazione. Ma malgrado questo il bambino richiede altre storie, esorta il vecchio, in chiusura della canzone, a raccontarne altre come per rinnovare nel racconto la vita che in quel paesaggio è spenta.

Raccontare per restare in vita è il tema portante delle Mille e una Notte, la raccolta di storie orientale dove la narratrice Sharazade racconta storie per ritardare la sentenza di morte che pende su di lei. Forse Guccini ha voluto intendere questo, un narratore, e un cantautore prima che musicista è un narratore, crea storie per la sopravvivenza.




foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 20 novembre 2020

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𝐈𝐍 𝐎𝐆𝐍𝐈 𝐋𝐔𝐎𝐆𝐎
𝐅𝐢𝐧𝐢𝐬𝐭𝐞𝐫𝐫𝐞 (1999)


“𝑆𝑢 𝑐𝑖𝑜̀ 𝑑𝑖 𝑐𝑢𝑖 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑖 𝑒̀ 𝑖𝑛 𝑔𝑟𝑎𝑑𝑜 𝑑𝑖 𝑝𝑎𝑟𝑙𝑎𝑟𝑒, 𝑠𝑖 𝑑𝑒𝑣𝑒 𝑡𝑎𝑐𝑒𝑟𝑒”
(𝐿𝑢𝑑𝑤𝑖𝑔 𝑊𝑖𝑡𝑡𝑔𝑒𝑛𝑠𝑡𝑒𝑖𝑛)

Guardate la copertina di questo album: un giovane profilo coperto da una maschera di creta asciutta, secca, venata di crepe come un terreno arido e il nome della band scritto in corsivo. Potrebbe sbriciolarsi quella pelle, vorrebbe apparire vecchia ma è solo una maschera; oppure è lo sgretolarsi dell’involucro di una crisalide? Ma forse è una statua che prende vita, o una vita che si sta solidificando in una statua. In ogni luogo, ovunque la si consideri potrebbe richiamare un significato.
Spesso mi sono domandato: quali sono i personali criteri che mi fanno dire “questo disco mi piace e questo no”? Me lo sono chiesto ascoltando 𝐈𝐧 𝐨𝐠𝐧𝐢 𝐥𝐮𝐨𝐠𝐨, terzo album del 1999 dei 𝐅𝐢𝐧𝐢𝐬𝐭𝐞𝐫𝐫𝐞, gruppo italiano di Genova attivo dal 1993 con quattro album in studio e due dal vivo dal 1994 al 2004 e che si sono ritrovati in studio nel 2019 per riincidere il loro primo disco nel 25° anniversario della sua uscita.
Loro sono: 𝐒𝐭𝐞𝐟𝐚𝐧𝐨 𝐌𝐚𝐫𝐞𝐥𝐥𝐢 (chitarra, voce), 𝐁𝐨𝐫𝐢𝐬 𝐕𝐚𝐥𝐥𝐞 (tastiere), 𝐀𝐠𝐨𝐬𝐭𝐢𝐧𝐨 𝐌𝐚𝐜𝐨𝐫 (tastiere), 𝐅𝐚𝐛𝐢𝐨 𝐙𝐮𝐟𝐟𝐚𝐧𝐭𝐢 (basso), 𝐀𝐧𝐝𝐫𝐞𝐚 𝐎𝐫𝐥𝐚𝐧𝐝𝐨 (batteria); ospiti: 𝐅𝐫𝐚𝐧𝐜𝐞𝐬𝐜𝐚 𝐋𝐚𝐠𝐨 (voce), 𝐄𝐝𝐦𝐨𝐧𝐝𝐨 𝐑𝐨𝐦𝐚𝐧𝐨 (fiati), 𝐒𝐞𝐫𝐠𝐢𝐨 𝐂𝐚𝐩𝐮𝐭𝐨 (strumenti a corda).

Dicevo dei criteri, non li saprei definire se non con termini impressionistici, per così dire. Sovente si parla di colore della musica, di gusto musicale, ma sono termini che coinvolgono una diversa sede sensoriale che non è l’udito: quindi potremmo dire che l’ascolto è l’operazione che maggiormente coinvolge i sensi, attraverso l’udito passano messaggi che suscitano inevitabilmente una risposta ampia e variegata. Questo mi succede per tutto ciò che ascolto e credo che succeda a ognuno di noi. Inoltre la musica è un’arte la cui fruizione è dinamica: è lei che guida l’ascoltatore attraverso una linea temporale e detta il tempo di ascolto, in questo senso è come il cinema. Per un’opera letteraria è il lettore che detta il ritmo con la sua velocità di lettura; un’opera figurativa è statica, si lascia guardare, non ha la dinamicità di fruizione di una sequenza di note o dello scorrere di fotogrammi, si lascia per così dire girare attorno, ha un certo grado di passività, mentre l’ascolto di un pezzo musicale esige che tu ti metta al suo passo, certo puoi fermarti su ogni nota ma non sarebbe più la stessa cosa. In ogni caso lo riascolti e può accadere che il coinvolgimento dei sensi vada in un’altra direzione, sovente evoca sensazioni indefinite, inafferrabili.

Finisterre con questo disco quasi totalmente strumentale, hanno portato sensorialmente a pomeriggi tiepidi di primavera, assolati, hanno portato in quel luogo che il loro nome richiama, Finisterre: località della Spagna, nella Galizia dove apprendo esserci un faro che si affaccia sull’Atlantico, un faro che pone fine alla strada del pellegrino verso Santiago di Compostela. La fine delle terre conosciute per l’antichità. Può ricordare anche la nostra S. Maria di Leuca, l’estrema punta del tacco italiano dove la terra finisce.

E il viaggio che parte con 𝐓𝐞𝐦𝐩𝐢 𝐌𝐨𝐝𝐞𝐫𝐧𝐢 prende il via con echi e richiami, vedi figure avanzare da lontano, il passo si snoda veloce poi rallenta come a riprendere fiato, riparte. Il titolo porta alla mente il film di Chaplin, l’omino negli ingranaggi, tutt’uno la macchina, cinghia di trasmissione egli stesso.

E il cinema è presente ancora in 𝐒𝐧𝐚𝐩𝐨𝐫𝐚𝐳. Chi ha visto La Città delle Donne di F. Fellini sa che questo è il nome del protagonista della pellicola interpretato da Marcello Mastroianni e qui il testo del brano è costituito da dialoghi presi da La Dolce Vita, capolavoro del maestro che penso non abbia bisogno di presentazioni. Un omaggio al cinema, a Fellini che della settima arte è stato uno dei più originali rappresentanti e che Fish, ex cantante dei Marillion, nel 2001 omaggerà con il suo album solista intitolato al riminese, Fellini Days, riprendendo lo stilema trovato qui dai Finisterre di inserire dialoghi di film e interviste (era Fish a conoscenza di questo pezzo?)

I Finisterre ci sanno portare a 𝐍𝐢𝐧𝐢𝐯𝐞, antica città mesopotamica, ricca di storia, anche qui sotto un tiepido sole che rischiara antiche rovine, reperti risalenti a qualche migliaio di anni or sono. Suscitano con i titoli viaggi esotici e la coda di questo pezzo sa sollevare il velo del tempo con un paesaggio intravisto tremolante in un caldo medio oriente.

E infatti 𝐈𝐧 𝐨𝐠𝐧𝐢 𝐥𝐮𝐨𝐠𝐨 che dà il titolo al disco trasforma il pomeriggio assolato in un “respiro lento” come recita il testo cantato dalla voce di Francesca Lago. Possiamo trovarci veramente ovunque qui tra luci e calde penombre, estenuati, “𝑖𝑛 𝑠𝑖𝑙𝑒𝑛𝑧𝑖𝑜”.

Sanno anche essere duri e scaldarti alla canicola i Finisterre, portarti dove il mare è un confine da ammirare e lì fermarsi attoniti ad ammirare l’orizzonte oppure tornare indietro di corsa. Poi ti arresti perché un segnale come un telegrafo impazzito si trasmette dal 𝐂𝐨𝐫𝐨 𝐄𝐥𝐞𝐭𝐭𝐫𝐢𝐜𝐨 e sospendi attonito il viaggio. Lo riprendi con echi orientaleggianti: forse l’Africa scaldata dal deserto attende con una danza dove un derviscio ruota senza fine.

Sanno anche essere duri e scaldarti alla canicola i Finisterre, portarti dove il mare è un confine da ammirare e lì fermarsi attoniti ad ammirare l’orizzonte oppure tornare indietro di corsa. Poi ti arresti perché un segnale come un telegrafo impazzito si trasmette dal 𝐂𝐨𝐫𝐨 𝐄𝐥𝐞𝐭𝐭𝐫𝐢𝐜𝐨 e sospendi attonito il viaggio. Lo riprendi con echi orientaleggianti: forse l’Africa scaldata dal deserto attende con una danza dove un derviscio ruota senza fine.

E riprendiamo il discorso fatto poc’anzi: 𝐀𝐠𝐥𝐢 𝐀𝐦𝐢𝐜𝐢 𝐒𝐢𝐧𝐞𝐬𝐭𝐞𝐭𝐢𝐜𝐢 brano che richiama nel titolo l’interferenza sensoriale. Qui siamo sempre in ogni luogo come fossimo ubiqui, arpeggi come interrogazioni che sfociano in melodie leggere. Percepiamo anche l’accenno ad una marcetta conosciuta. Abbiamo il sole che inizia ad allungare le ombre sul finale, e 𝐏𝐞𝐭𝐞𝐫’𝐬 𝐇𝐨𝐮𝐬𝐞 attende accogliente con umore rockeggiante su un tappeto uniforme fino ad aprire la porta per accoglierci.

Già il sole scende e davanti a noi sull’orizzonte striature rosse fluttuano sull’oceano. E’ 𝐂𝐨𝐧𝐭𝐢𝐧𝐮𝐢𝐭𝐚̀𝐝𝐢𝐥𝐚𝐫𝐚𝐧𝐞𝐥𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨, titolo senza soluzione di continuità, appunto, che evoca tonalità calde con un retrogusto jazz da locale notturno fumoso. Torna la voce di Francesca Lago larga e dolente. Peter’s House è forse la taverna che accoglie il nostro peregrinare e ancora siamo attoniti, fermati da arpeggi che sbloccano una chitarra distorta in una coda melodica.

𝐖𝐢𝐭𝐭𝐠𝐞𝐧𝐬𝐭𝐞𝐢𝐧 𝐌𝐨𝐧 𝐀𝐦𝐨𝐮𝐫 chiude con un omaggio all’autore del Tractatus logico-philosophicus affidando al suono baritonale di uno strumento a fiato una melodia quasi come una ninna nanna adulta, ripetuta senza variazioni, davanti ad un sole già ridotto a un semicerchio sull’orizzonte infuocato. Forse ora ho la risposta alla mia domanda iniziale: quali sono i criteri che mi guidano e mi fanno dire, questa musica mi piace? Quando nei timpani entrano sequenze di note che sollecitano la mente, dove tutti i sensi convergono e creano immagini, sapori, sensazioni.
E i Finisterre ci riescono..



foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 13 novembre 2020

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𝐏𝐀𝐋𝐄 𝐂𝐎𝐌𝐌𝐔𝐍𝐈𝐎𝐍
𝐎𝐩𝐞𝐭𝐡 (2014)


𝐴𝑠𝑙𝑒𝑒𝑝 𝑖𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑟𝑎𝑖𝑛
𝐴 𝑐ℎ𝑖𝑙𝑑 𝑜𝑛𝑐𝑒 𝑎𝑔𝑎𝑖𝑛
𝐴𝑛𝑑 𝑡ℎ𝑒 𝑔ℎ𝑜𝑠𝑡 𝑖𝑛 𝑚𝑦 ℎ𝑒𝑎𝑑
𝐻𝑎𝑠 𝑓𝑜𝑟𝑔𝑖𝑣𝑒𝑛 𝑚𝑒
𝐿𝑖𝑓𝑡𝑒𝑑 ℎ𝑖𝑠 𝑐𝑢𝑟𝑠𝑒 𝑢𝑝𝑜𝑛 𝑚𝑒
(𝐹𝑎𝑖𝑡ℎ 𝑖𝑛 𝑂𝑡ℎ𝑒𝑟 )

Gli 𝐎𝐩𝐞𝐭𝐡 sono svedesi, si sono formati a Stoccolma nel 1990 e nel 1995 registrano il loro primo album Orchid. Nascono come band di Death Metal ma la loro evoluzione è stata continua, Steven Wilson nel 2001 ci ha messo lo zampino e una band già con caratteristiche proprie e distinguibili decolla definitivamente.
Nel 2014 arriviamo a questo 𝐏𝐚𝐥𝐞 𝐂𝐨𝐦𝐦𝐮𝐧𝐢𝐨𝐧, loro undicesimo album, la Comunione Pallida, e certo che per una banda di death metal non è male intitolare un disco al pallore post vita che ci accoglie in un unico destino.

𝑂𝑝𝑒𝑡 è la mitica “𝐶𝑖𝑡𝑡𝑎̀ 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑙𝑢𝑛𝑎” di un romanzo di Wilbur Smith del 1972 da cui la band ha tratto il proprio nome aggiungendo una H, e Opet è anche festa sacra egiziana dedicata al dio Amon: sembra che il mito voglia essere già la cifra della band che qui sembra rivelarsi già dall’inizio con 𝑬𝒕𝒆𝒓𝒏𝒂𝒍 𝑹𝒂𝒊𝒏𝒔 𝑾𝒊𝒍𝒍 𝑪𝒐𝒎𝒆.

Scenderanno piogge eterne, il mito del diluvio distruttore, il castigo divino che scende incessante con un’intro movimentata che crea confusione e sgomento, poi si appiana riflessiva, una pausa nello scrosciare incessante nella ricerca del tema che entra con una chitarra delicata per sciogliersi in un organo che ci accerchia.
“𝑉𝑒𝑟𝑟𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑙𝑒 𝑝𝑖𝑜𝑔𝑔𝑒 𝑒𝑡𝑒𝑟𝑛𝑒...𝑒 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑖𝑙 𝑑𝑖𝑙𝑢𝑣𝑖𝑜 𝑣𝑒𝑟𝑟𝑎̀ 𝑎𝑑 𝑎𝑛𝑛𝑒𝑔𝑎𝑟𝑐𝑖 𝑛𝑜𝑛 𝑝𝑜𝑡𝑟𝑒𝑚𝑜 𝑓𝑎𝑟𝑒 𝑛𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒”
Una chiara visione catastrofica, che non offre riparo e che da una band di death metal ci potremmo aspettare risolta in un sound estremo, brutale: invece abbiamo qui una voce sdoppiata quasi dolente, un tono generale che sembra accettare l’ineluttabile: “𝑑𝑜𝑣𝑟𝑒𝑚𝑚𝑜 𝑑𝑖𝑟𝑒 𝑎𝑑𝑑𝑖𝑜 𝑒 𝑠𝑜𝑓𝑓𝑟𝑖𝑟𝑒 𝑑𝑎 𝑠𝑜𝑙𝑖... 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑜𝑙𝑎𝑡𝑒𝑣𝑖 𝑖𝑛 𝑐𝑖𝑜̀ 𝑐ℎ𝑒 𝑒𝑟𝑎”. Uno sguardo indietro fa accettare l’ora presente.

Decolla con una ritmica molto heavy 𝑪𝒖𝒔𝒑 𝒐𝒇 𝒆𝒕𝒆𝒓𝒏𝒊𝒕𝒚 e si mantiene su un basso pulsante mitigato solo da un coro vocale come un’invocazione che separa le strofe. Una bambina nata in autunno in un mondo di inganni e di morte e in una terra di ghiaccio...attraversa il paese e tiene la testa alta sotto la pioggia. Viene al mondo qualcuno nel diluvio e un tono epico pervade il pezzo. Una madre si guarda indietro, una scena della sua memoria. Ancora è presente lo sguardo al passato; l’attesa di una chiamata che la porti al culmine dell’eternità sembra qui essere il motivo di consolazione.

Si tiene in equilibrio tra cupezze e momenti lirici, introspettivi 𝑴𝒐𝒐𝒏 𝑨𝒃𝒐𝒗𝒆, 𝑺𝒖𝒏 𝑩𝒆𝒍𝒐𝒘: la luna in alto e il sole in basso, il pezzo più lungo, una notte continua, il sole c’è ma si trova nel punto basso, “𝑛𝑜𝑛 𝑟𝑖𝑒𝑠𝑐𝑜 𝑎 𝑟𝑖𝑐𝑜𝑟𝑑𝑎𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑠𝑜𝑙𝑒 𝑠𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑝𝑒𝑙𝑙𝑒” perennemente immersi nel buio. Oscilla il sound tra altezze e profondità come se in questo scorcio di ventunesimo secolo fosse difficile arrancare: “𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑡𝑟𝑎𝑑𝑎 𝑡𝑜𝑟𝑡𝑢𝑜𝑠𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑚𝑖 𝑟𝑖𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎 𝑎 𝑐𝑎𝑠𝑎 𝑒 𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑐𝑎𝑠𝑎 𝑒̀ 𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑡𝑜𝑚𝑏𝑎”.
Cupezza di maniera? Una posa da “metallari” dove il tema d’oltretomba diventa un pretesto per fare colpo? Direi di no, non colgo indulgenze e autocompiacimenti ma il proseguire dolce amaro verso una meta irrevocabile. “𝑁𝑜𝑛 𝑐’𝑒̀ 𝑎𝑖𝑢𝑡𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑑𝑖𝑠𝑠𝑖𝑝𝑎𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑑𝑜𝑙𝑜𝑟𝑒. 𝑁𝑜𝑛 𝑐’𝑒̀ 𝑎𝑖𝑢𝑡𝑜, 𝑎𝑙𝑐𝑢𝑛𝑖 𝑠𝑖 𝑎𝑔𝑔𝑟𝑎𝑝𝑝𝑎𝑛𝑜 𝑎𝑛𝑐𝑜𝑟𝑎 𝑎 𝑢𝑛 𝑓𝑎𝑛𝑡𝑎𝑠𝑚𝑎. 𝑁𝑜𝑛 𝑐’𝑒̀ 𝑎𝑖𝑢𝑡𝑜, 𝑠𝑜𝑙𝑜 𝑐𝑒𝑟𝑐ℎ𝑖 𝑛𝑒𝑙𝑙’𝑎𝑐𝑞𝑢𝑎”. Solo cerchi nell’acqua viene reiterato fino al termine del brano: un sommovimento che si appiana per tornare quello che era: uno sconvolgimento senza risultati. Sembra una resa alla sorte, una inutilità di lotta: si può solo sconvolgere una superficie calma ma non si giunge a nulla.

Una ballata semi acustica, 𝑬𝒍𝒚𝒔𝒊𝒂𝒏 𝑾𝒐𝒆𝒔, che ci porta in uno strano luogo mitologico che affianca il termine “woes” guai, calamità, alla parola Elisi che dovrebbe evocare i campi dove venivano accolte le anime amate dagli dei. Si capovolge qui la mitologia e diventa un luogo di guai, problemi: “𝐸 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑑𝑖𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑙𝑒 𝑠𝑖𝑡𝑢𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑠𝑎𝑟𝑎̀ 𝑓𝑖𝑛𝑖𝑡𝑎 𝑛𝑜𝑛 𝑐’𝑒̀ 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑛𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑎 𝑐𝑢𝑖 𝑎𝑔𝑔𝑟𝑎𝑝𝑝𝑎𝑟𝑠𝑖”. Sugli arpeggi di chitarra sostenuti da un tappeto evocativo di tastiere, prendono corpo domande senza risposta: stiamo assistendo alla distruzione? Ci si domanda se l’intenzione era seguire una strada fino alla fine anche se la fine era un mondo di dolore. “𝑁𝑜𝑛 𝑣𝑜𝑔𝑙𝑖𝑜 𝑚𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑎 𝑛𝑢𝑑𝑜 𝑙𝑒 𝑚𝑖𝑒 𝑐𝑖𝑐𝑎𝑡𝑟𝑖𝑐𝑖 𝑝𝑒𝑟 𝑡𝑒”: le ferite devono restare nascoste, la canzone evoca un pudore che sembra prendere corpo nel brano successivo lo strumentale 𝑮𝒐𝒃𝒍𝒊𝒏 che reitera un riff come se fosse indeciso, come un balbettio che tenta di esprimersi e ritorna su se stesso per interrompersi improvviso.

𝑹𝒊𝒗𝒆𝒓 prosegue il discorso di Elisyan Woes: una ballata acustica che si risolve però in un tono più movimentato sul finale con riff serrati e ricami chitarristici. Si apre come una canzone d’amore ma troviamo corpi che galleggiano sul fiume verso oceani di morte. Tutte le cose verranno annullate: quindi perché disperarsi? Arriva un momento in cui il fiume si prosciuga. Arriva l’inverno che sacrificherà le nostre vite. Nel fluire degli assolo scorre un fiume in secca.

Con incedere cupo e un vago sapore orientale la nebbia dorme sull’acqua e l’inverno si nasconde nei cuori, il tradimento della mente e dell’anima, l’eco di un fallimento e l’amore è un fantasma che ride: 𝑽𝒐𝒊𝒄𝒆 𝒐𝒇 𝑻𝒓𝒆𝒂𝒔𝒐𝒏. Il brano sembra prendere una consistenza disperata che si espande in tre interrogativi declamati a tutta voce: “𝐻𝑎𝑖 𝑚𝑎𝑖 𝑎𝑣𝑢𝑡𝑜 𝑙𝑎 𝑠𝑒𝑛𝑠𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑛𝑜 𝑑𝑜𝑙𝑜𝑟𝑒? 𝑆𝑒𝑖 𝑚𝑎𝑖 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑜 𝑙𝑎 𝑟𝑎𝑔𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑐𝑢𝑖 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑝𝑒𝑟𝑎𝑛𝑧𝑎 𝑣𝑖𝑒𝑛𝑒 𝑚𝑒𝑛𝑜? 𝐻𝑎𝑖 𝑚𝑎𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑣𝑎𝑡𝑜 𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑒𝑔𝑢𝑒𝑛𝑧𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙’𝑎𝑟𝑟𝑒𝑛𝑑𝑒𝑟𝑠𝑖?"  Poi la musica scende e il mellotron espande tappeti evocativi che richiamano altre domande: “𝐶𝑖 𝑠𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑎𝑟𝑟𝑒𝑠𝑖? 𝐸’ 𝑓𝑖𝑛𝑖𝑡𝑎? 𝑇𝑖 𝑠𝑒𝑖 𝑎𝑟𝑟𝑒𝑠𝑜? 𝐿’𝑖𝑛𝑣𝑒𝑟𝑛𝑜 𝑠𝑖 𝑐𝑒𝑙𝑎 𝑛𝑒𝑙 𝑡𝑢𝑜 𝑐𝑢𝑜𝑟𝑒?”

Su questi punti interrogativi il brano si spegne sfumando su note di piano, poi come un grande respiro emerge dal profondo un mellotron che potrebbe richiamare le larghe vedute dei King Crimson dei primi tempi. Alla rabbia segue una quieta disperazione evocata dalle tastiere: senza soluzione di continuità emerge 𝑭𝒂𝒊𝒕𝒉 𝒊𝒏 𝑶𝒕𝒉𝒆𝒓𝒔 a chiudere in bellezza il disco, cresce e cattura una solenne orchestra che stende un tema come un tappeto: “𝐿𝑎 𝑡𝑜𝑚𝑏𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑎 𝑔𝑖𝑜𝑣𝑖𝑛𝑒𝑧𝑧𝑎 𝑒̀ 𝑖𝑛 𝑙𝑜𝑛𝑡𝑎𝑛𝑎𝑛𝑧𝑎... 𝑐𝑖 𝑚𝑢𝑜𝑣𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑖𝑛 𝑐𝑖𝑟𝑐𝑜𝑙𝑖 𝑑𝑖 𝑑𝑖𝑠𝑝𝑒𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑟𝑒𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑎 𝑎𝑠𝑝𝑒𝑡𝑡𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑖𝑙 𝑠𝑜𝑙𝑒”, si girano pietre per trovarvi delle prove ma tutto si nasconde nei recessi dei nostri cuori. Poche note di piano accompagnano un cantato con un sussurro represso: “𝑎𝑛𝑛𝑖 𝑓𝑟𝑒𝑑𝑑𝑖 𝑠𝑡𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑎𝑟𝑟𝑖𝑣𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑙𝑒 𝑣𝑖𝑡𝑡𝑖𝑚𝑒 𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑑𝑒𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟𝑖𝑜”.
Prende piede un secondo tema sulla sei corde, poi un vocalizzo dolente sembra emergere da freddi recessi finché una voce che sembra già giungere dall’aldilà narra di avere attraversato lande squallide con un innato bisogno di possesso. Non c’è fede nella croce, tu cerchi di afferrare la mia mano ma è solo ghiaccio che si scioglie. La soluzione è tornare bambini: “𝑒 𝑖𝑙 𝑓𝑎𝑛𝑡𝑎𝑠𝑚𝑎 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑡𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑚𝑖 ℎ𝑎 𝑝𝑒𝑟𝑑𝑜𝑛𝑎𝑡𝑜 ℎ𝑎 𝑡𝑜𝑙𝑡𝑜 𝑙𝑎 𝑚𝑎𝑙𝑒𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑠𝑢 𝑑𝑖 𝑚𝑒.” Il tema dolente ci porta alla fine, ci accompagna come una ninna nanna, si scioglie nella certezza dell’innocenza.

𝐌𝐢𝐤𝐚𝐞𝐥 𝐀̊𝐤𝐞𝐫𝐟𝐞𝐥𝐝𝐭 (voce, chitarra, mellotron), 𝐅𝐫𝐞𝐝𝐫𝐢𝐤 𝐀̊𝐤𝐞𝐬𝐬𝐨𝐧 (chitarra) Martin 𝐌𝐚𝐫𝐭𝐢𝐧 𝐌𝐞𝐧𝐝𝐞𝐳 (basso), 𝐉𝐨𝐚𝐤𝐢𝐦 𝐒𝐯𝐚𝐥𝐛𝐞𝐫𝐠 (mellotron, organo, pianoforte, tastiere), 𝐌𝐚𝐫𝐭𝐢𝐧 𝐀𝐱𝐞𝐧𝐫𝐨𝐭 (batteria, percussioni), danno vita a uno di quei dischi, a mio parere, da portare con sé in caso di naufragio e penso che in questo scorcio di millennio che ci costringe a rivedere stili di vita, a combattere contro un virus subdolo, in definitiva a proteggerci dai danni da noi provocati nei decenni trascorsi, meditare su quel “Pallido destino comune” sia necessario se non altro per esorcizzarne lo spettro; e guardare indietro soprattutto per recuperare se non tutta almeno parte dell’innocenza perduta.



foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 6 novembre 2020

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𝐓𝐇𝐄 𝐀𝐁𝐒𝐄𝐍𝐂𝐄 𝐎𝐅 𝐏𝐑𝐄𝐒𝐄𝐍𝐂𝐄
Kansas (2020)


𝑆𝑒𝑛𝑑 𝑡ℎ𝑒𝑠𝑒 𝑚𝑒𝑚𝑜𝑟𝑖𝑒𝑠 𝑑𝑜𝑤𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑙𝑖𝑛𝑒
𝐹𝑜𝑟 𝑓𝑢𝑡𝑢𝑟𝑒 𝑔𝑒𝑛𝑒𝑟𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛𝑠
𝑆𝑒𝑛𝑑 𝑡ℎ𝑒𝑠𝑒 𝑚𝑒𝑚𝑜𝑟𝑖𝑒𝑠 𝑑𝑜𝑤𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑙𝑖𝑛𝑒
𝐿𝑒𝑠𝑠𝑜𝑛𝑠 𝑙𝑜𝑐𝑘𝑒𝑑 𝑖𝑛𝑠𝑖𝑑𝑒
𝐺𝑖𝑣𝑒 𝑡ℎ𝑒𝑚 𝑎 𝑓𝑖𝑔ℎ𝑡𝑖𝑛𝑔 𝑐ℎ𝑎𝑛𝑐𝑒
𝑇𝑜 𝑘𝑛𝑜𝑤 𝑡ℎ𝑎𝑡 𝑤𝑒 𝑡𝑟𝑖𝑒𝑑
𝑆𝑒𝑛𝑑 𝑡ℎ𝑒𝑠𝑒 𝑚𝑒𝑚𝑜𝑟𝑖𝑒𝑠 𝑑𝑜𝑤𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑙𝑖𝑛𝑒
(𝑀𝑒𝑚𝑜𝑟𝑖𝑒𝑠 𝑑𝑜𝑤𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑙𝑖𝑛𝑒 - 𝐾𝑎𝑛𝑠𝑎𝑠)


Il Kansas è uno stato del midwest degli Stati Uniti d’America, sulla cartina è un rettangolo dai confini tracciati con una nettezza euclidea, è un’immensa tavola che occuperebbe due terzi della superficie italiana con poco meno di 3 milioni di abitanti. Nell’immaginario collettivo richiama pianure sconfinate dove pascolano bisonti e dove un tempo scorrazzavano i Sioux e dalla lingua di questa tribù deriva il nome: Kansa che significa “popolo del vento del sud”. Possiamo immaginarci strade come nastri che attraversano i campi e in certe stagioni dell’anno trombe d’aria che si attorcigliano sotto un cielo cupo, corrono a spirale e risucchiano ciò che incontrano con qualche temerario fotografo che dà loro la caccia tra ranch sparsi qua e là. La capitale è Topeka e da qui provengono i membri fondatori della band che prenderà il nome dello stato.

I 𝐊𝐚𝐧𝐬𝐚𝐬 si formano nel lontano 1974. Da allora c’è chi è andato e chi si è aggregato. Della band originale rimangono il batterista e un chitarrista. Sono in sette: due tastieristi, tre chitarristi uno dei quali anche al violino, più sezione ritmica.
𝐏𝐡𝐢𝐥 𝐄𝐡𝐚𝐫𝐭 batteria dalla formazione originale; 𝐁𝐢𝐥𝐥𝐲 𝐆𝐫𝐞𝐞𝐫 basso e voce; 𝐓𝐨𝐦 𝐁𝐫𝐢𝐬𝐥𝐢𝐧 tastiere; 𝐑𝐨𝐧𝐧𝐢𝐞 𝐏𝐥𝐚𝐭𝐭 tastiere e voce; 𝐃𝐚𝐯𝐢𝐝 𝐑𝐚𝐠𝐬𝐝𝐚𝐥𝐞 violino, chitarra; 𝐙𝐚𝐤 𝐑𝐢𝐳𝐯𝐢 chitarra; 𝐑𝐢𝐜𝐡𝐚𝐫𝐝 𝐖𝐢𝐥𝐥𝐢𝐚𝐦𝐬 chitarra dalla formazione originale.

Pur essendo d’oltre oceano la loro “cucina” ha un sapore 𝒑𝒓𝒐𝒈𝒓𝒆𝒔𝒔𝒊𝒗𝒆 in una musica dove l’ingrediente principale sa di America profonda. La loro musica varia su strutture più complesse, cambi di tempo, melodie corali a più voci e una vena blues stemperata, disciolta.
Autori di 16 album in studio, 6 live più varie antologie, i Kansas hanno sfornato a gennaio di questo nefasto 2020 𝐓𝐡𝐞 𝐀𝐛𝐬𝐞𝐧𝐜𝐞 𝐨𝐟 𝐏𝐫𝐞𝐬𝐞𝐧𝐜𝐞, un bell’ossimoro: l’assenza di una presenza“𝑠𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑐𝑖 𝑠𝑒𝑖 𝑚𝑎 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑒𝑖 𝑑𝑎𝑣𝑣𝑒𝑟𝑜 𝑞𝑢𝑖”, recita un verso del brano omonimo di apertura che si annuncia accennando un tema di violino dopo isolate note di piano, un ampio respiro su ritmi incisivi, tastiere a tratti evocative con interventi del violino che mi ricordano i 𝐁𝐢𝐠 𝐁𝐢𝐠 𝐓𝐫𝐚𝐢𝐧, grande band inglese con una spiccata vena folk.

Onore a questa band che sa iniettarsi dosi di modernità senza ripudiare il passato. 𝑻𝒉𝒓𝒐𝒘𝒊𝒏𝒈 𝑴𝒐𝒖𝒏𝒕𝒂𝒊𝒏 è decisamente hard con quel riff di chitarra ammorbidito dall’intervento sempre del violino.

Onore a questa band che sa iniettarsi dosi di modernità senza ripudiare il passato. 𝑻𝒉𝒓𝒐𝒘𝒊𝒏𝒈 𝑴𝒐𝒖𝒏𝒕𝒂𝒊𝒏 è decisamente hard con quel riff di chitarra ammorbidito dall’intervento sempre del violino.

Con un intro al pianoforte di sapore classico 𝑱𝒆𝒕𝒔 𝑶𝒗𝒆𝒓𝒉𝒆𝒂𝒅 vira verso il folk e 𝑷𝒓𝒐𝒑𝒖𝒍𝒔𝒊𝒐𝒏 1 dà una spinta strumentale prima di 𝑴𝒆𝒎𝒐𝒓𝒊𝒆𝒔 𝑫𝒐𝒘𝒏 𝒕𝒉𝒆 𝑳𝒊𝒏𝒆 una ballad con gusto anni ’80 e ancora quel rivolo folk che serpeggia sempre.
“𝑆𝑝𝑒𝑑𝑖𝑠𝑐𝑖 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑒 𝑚𝑒𝑚𝑜𝑟𝑖𝑒 𝑠𝑢 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑎 𝑙𝑎 𝑙𝑖𝑛𝑒𝑎 𝑝𝑒𝑟 𝑙𝑒 𝑔𝑒𝑛𝑒𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑓𝑢𝑡𝑢𝑟𝑒...
𝑑𝑎𝑖 𝑙𝑜𝑟𝑜 𝑢𝑛𝑎 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑖𝑏𝑖𝑙𝑖𝑡𝑎̀ 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑏𝑎𝑡𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑠𝑎𝑝𝑒𝑟𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑐𝑖 𝑎𝑏𝑏𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑝𝑟𝑜𝑣𝑎𝑡𝑜”
Senza rammarico queste note rimarcano il valore dell’esperienza e i Kansas, anziani testimoni di un’epoca, in questa ballata lanciano un messaggio di speranza.

Nel circo dell’illusione siamo sotto un incantesimo. 𝑪𝒊𝒓𝒄𝒍𝒆 𝒐𝒇 𝑰𝒍𝒍𝒖𝒔𝒊𝒐𝒏 sa trasportare all’interno di un tendone dove le fruste del domatore si rompono e i leoni vengono confinati in gabbia dopo essere saltati nel cerchio di fuoco. Prendendo le mosse da un tema evocatore il cantato sembra raccontare amichevolmente, il sound è sempre pieno, la musica sembra inciampare per trovare poi un equilibrio, una dimensione che viene riordinata dal tema che il violino ricama. Siamo sbalzati in un incantesimo dove si fatica a trovare un’uscita.

Tastiere convulse, un andamento ondivago, gli animali sul tetto sanno la verità, si distinguono dai tempi della loro giovinezza, non sono mai stati quelli che correvano con la folla. Cito liberamente il testo di 𝑨𝒏𝒊𝒎𝒂𝒍𝒔 𝒐𝒏 𝒕𝒉𝒆 𝑹𝒐𝒐𝒇 dove vi trovo una dichiarazione di indipendenza dalla massa informe che è la folla.

𝑵𝒆𝒗𝒆𝒓 volge lo sguardo indietro con un’altra ballad sulla scia di rimpianti che attempati signori si possono concedere senza tuttavia indulgere in autocommiserazioni. E’ usuale chiedersi se si fosse potuto fare diversamente, se in un universo parallelo le scelte non compiute avessero potuto torcere la nostra vita in un altro modo, ma c’è una volontà che accetta e spinge a cambiare, una tenace spinta a proseguire: “𝑛𝑜𝑛 𝑣𝑜𝑔𝑙𝑖𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑖𝑙 𝑚𝑜𝑛𝑑𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑖𝑎 𝑢𝑛 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑜 𝑔𝑖𝑟𝑜 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑑𝑖 𝑚𝑒.”

Brano con un breve preludio enfatico, 𝑻𝒉𝒆 𝑺𝒐𝒏𝒈 𝒕𝒉𝒆 𝑹𝒊𝒗𝒆𝒓 𝑺𝒂𝒏𝒈 sembra stilisticamente uscire dalla compattezza del resto del disco, si tende nella parte strumentale finale con una ritmica scandita a rimarcare una sorta di invettiva.

Sarò sincero: ho sempre ascoltato i Kansas sporadicamente, non sono mai stato un fan di quella corrente che è stata battezzata 𝐀𝐫𝐞𝐧𝐚 𝐑𝐨𝐜𝐤: gruppi che fondono rock duro ma orecchiabile per riempire gli stadi e che noi, che cerchiamo in questo mondo musicale un respiro più ampio e libero e a cui la definizione di Rock inteso in senso stretto ci risulta limitante, abbiamo considerato con una sorta di snobismo. Ora, con il trascorrere degli anni, ci ricrediamo e apprezziamo uno stile che possiede una sua compattezza e che non è così stereotipato come ci sembrava..




foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 30 ottobre 2020

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FAITH
The Cure (1981)


𝐶𝑎𝑡𝑐ℎ 𝑚𝑒 𝑖𝑓 𝐼 𝑓𝑎𝑙𝑙, 𝐼'𝑚 𝑙𝑜𝑠𝑖𝑛𝑔 ℎ𝑜𝑙𝑑
𝐼 𝑐𝑎𝑛'𝑡 𝑗𝑢𝑠𝑡 𝑐𝑎𝑟𝑟𝑦 𝑜𝑛 𝑡ℎ𝑖𝑠 𝑤𝑎𝑦
𝐴𝑛𝑑 𝑒𝑣𝑒𝑟𝑦 𝑡𝑖𝑚𝑒 𝐼 𝑡𝑢𝑟𝑛 𝑎𝑤𝑎𝑦
𝐼 𝑙𝑜𝑠𝑒 𝑎𝑛𝑜𝑡ℎ𝑒𝑟 𝑏𝑙𝑖𝑛𝑑 𝑔𝑎𝑚𝑒
𝑇ℎ𝑒 𝑖𝑑𝑒𝑎 𝑜𝑓 𝑝𝑒𝑟𝑓𝑒𝑐𝑡𝑖𝑜𝑛 ℎ𝑜𝑙𝑑𝑠 𝑚𝑒
(𝑇ℎ𝑒 𝐶𝑢𝑟𝑒 - 𝐹𝑎𝑖𝑡ℎ)

Torniamo a parlare dei 𝐂𝐮𝐫𝐞 con l’album successivo e in fondo parente stretto del precedente 𝐒𝐞𝐯𝐞𝐧𝐭𝐞𝐞𝐧 𝐒𝐞𝐜𝐨𝐧𝐝𝐬. Dal titolo della prima traccia e dell’ultima omonima, 𝐅𝐚𝐢𝐭𝐡, che esce nell’aprile del 1981, sembra racchiudere un processo religioso, stante il significato principale che il termine fede inevitabilmente evoca. Aggiungiamo poi il dichiarato proposito di Robert Smith di avere voluto ricreare un suono come se si fosse all’interno di una cattedrale ricco di echi ed evocativo di alte volte, navate e pareti riverberanti.
In questi tempi nefasti di pandemia una dose di fede se non religiosa, per lo meno intesa nell’accezione di fiducia verso le autorità scientifiche e perché no politiche, è necessaria, ma certo all’epoca queste cose erano ben lontane dall’essere immaginate.

I 17 secondi che nel disco precedente sono la misura della vita, il breve lasso di tempo sufficiente a cambiare il tuo essere, lasciano un vuoto che la fede o meglio, come ci piace più immaginare e come del resto i Cure intendono, la fiducia, contribuisce a colmare. Ma questa fiducia va conquistata, nel vuoto si impone una ricerca di senso. 𝑻𝒉𝒆 𝑯𝒐𝒍𝒚 𝑯𝒐𝒖𝒓 vorrebbe essere una ricerca di spiritualità trascendente: “𝑚𝑖 𝑖𝑛𝑔𝑖𝑛𝑜𝑐𝑐ℎ𝑖𝑜 𝑒 𝑎𝑠𝑝𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑖𝑛 𝑠𝑖𝑙𝑒𝑛𝑧𝑖𝑜....𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑛𝑜𝑡𝑡𝑒” il buio che già precedentemente era così spesso evocato, torna qui. ““𝑈𝑛𝑎 𝑝𝑟𝑜𝑚𝑒𝑠𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝑠𝑎𝑙𝑣𝑒𝑧𝑧𝑎 𝑚𝑖 𝑓𝑎 𝑟𝑒𝑠𝑡𝑎𝑟𝑒”, i bambini giocano, torna l’infanzia ma la voce di chi prega è un pianto, un urlo senza parole che si rompe contro una pietra antica. L’inizio affidato al basso dà l’avvio a un tema largo e soffuso alle tastiere che sembra voler intraprendere un percorso interiore. Il brano termina con lugubri rintocchi funebri di campana che seguono la sincope della batteria che ha spento la scansione ritmica, precisa e sostenuta.

“𝑃𝑖𝑢̀ 𝑎𝑛𝑑𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑙𝑜𝑛𝑡𝑎𝑛𝑜
𝑝𝑖𝑢̀ 𝑖𝑛𝑣𝑒𝑐𝑐ℎ𝑖𝑎𝑚𝑜
𝑒 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑠𝑎𝑝𝑝𝑖𝑎𝑚𝑜
𝑚𝑒𝑛𝑜 𝑚𝑜𝑠𝑡𝑟𝑖𝑎𝑚𝑜”
ad un aumento corrisponde una sottrazione. Su un cantato che rincorre il tempo in 𝑷𝒓𝒊𝒎𝒂𝒓𝒚 c’è la sorpresa dell’innocenza addormentata. Un viso appena intravisto e una musica a cui si cambia la melodia; un corpo appena sfiorato e un racconto che troppo in fretta giunge alla conclusione. Il brano ha un andamento nervoso, una rincorsa verso l’inevitabile decadimento.

Uno spazio pieno di echi, un basso che ripete in solitaria la stessa frase poi un urlo strozzato.
“𝑆𝑢𝑠𝑠𝑢𝑟𝑟𝑜 𝑖𝑙 𝑡𝑢𝑜 𝑛𝑜𝑚𝑒 𝑖𝑛 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑡𝑎𝑛𝑧𝑎 𝑣𝑢𝑜𝑡𝑎”:
la vacuità sempre presente. Qui torna una vaga e vana ricerca di assoluto, un rumore lontano: 𝑶𝒕𝒉𝒆𝒓 𝑽𝒐𝒊𝒄𝒆𝒔. Rumori e voci lontane dicono: “𝐶𝑎𝑚𝑏𝑖𝑎 𝑖𝑑𝑒𝑎, 𝑡𝑖 𝑠𝑏𝑎𝑔𝑙𝑖 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒”.
La ricerca di assoluto che in The Holy Our sembrava dissolversi in un limbo qui sembra concretizzarsi in un vuoto approccio rituale: “𝑉𝑖𝑒𝑛𝑖 𝑖𝑛 𝑔𝑖𝑟𝑜 𝑎 𝑁𝑎𝑡𝑎𝑙𝑒... 𝑢𝑛 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑟𝑜𝑚𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑓𝑒𝑠𝑡𝑖𝑣𝑜.”

In un ritmo circolare veniamo intrappolati nelle grotte dove una cupa melodia riecheggia rimbalzando su pareti irregolari. “𝑁𝑜𝑛 𝑎𝑣𝑟𝑒𝑖 𝑚𝑎𝑖 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑎𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑡𝑟𝑜𝑣𝑎𝑟𝑚𝑖 𝑛𝑒𝑙 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑜 𝑙𝑒 𝑝𝑖𝑒𝑡𝑟𝑒.” 𝑨𝒍𝒍 𝑪𝒂𝒕𝒔 𝒂𝒓𝒆 𝑮𝒓𝒆𝒚 è una discesa negli inferi dove Ade, divinità infernale, si presenta in un universo di pietra dove le “𝑐𝑜𝑙𝑜𝑛𝑛𝑒 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑢𝑜𝑚𝑖𝑛𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑖𝑚𝑝𝑙𝑜𝑟𝑎𝑛𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑠𝑐ℎ𝑖𝑎𝑐𝑐𝑖𝑎𝑟𝑚𝑖. 𝑁𝑒𝑠𝑠𝑢𝑛𝑎 𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎 𝑠𝑜𝑙𝑐𝑎 𝑔𝑙𝑖 𝑜𝑠𝑐𝑢𝑟𝑖 𝑙𝑎𝑔ℎ𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑓𝑜𝑛𝑑𝑖”. 𝑁𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑔𝑟𝑜𝑡𝑡𝑒 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑖 𝑔𝑎𝑡𝑡𝑖 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑔𝑟𝑖𝑔𝑖” ” non esiste più colore nell’Ade, tutto è indistinto, ““𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑐𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑜𝑟𝑡𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑜𝑙𝑎 𝑛𝑜𝑡𝑎 𝑠𝑢𝑜𝑛𝑎 𝑎𝑛𝑐𝑜𝑟𝑎 𝑒 𝑎𝑛𝑐𝑜𝑟𝑎 𝑒 𝑎𝑛𝑐𝑜𝑟𝑎”, tutto è scarnificato, forse chi canta è già morto rimane solo una voce lontana e quasi sussurrata. Termina il pezzo su cupe, isolate note di piano, come le campane funebri del pezzo di apertura.

Su un tappeto di tastiere 𝑻𝒉𝒆 𝑭𝒖𝒏𝒆𝒓𝒂𝒍 𝑷𝒂𝒓𝒕𝒚 procede come un lungo e mesto corteo, “𝑑𝑢𝑒 𝑝𝑎𝑙𝑙𝑖𝑑𝑒 𝑓𝑖𝑔𝑢𝑟𝑒 𝑠𝑜𝑓𝑓𝑟𝑜𝑛𝑜 𝑖𝑛 𝑠𝑖𝑙𝑒𝑛𝑧𝑖𝑜 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜”. Non si sa di chi è il feretro perché non si tratta di un essere umano ma di marionette che si muovono senza passato in un teatrino, “...𝑏𝑎𝑙𝑙𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑎𝑙 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑦 𝑑𝑒𝑙 𝑓𝑢𝑛𝑒𝑟𝑎𝑙𝑒.”

𝑫𝒐𝒖𝒃𝒕 è urlata, tagliente, crudele, in pochi minuti si consuma un femminicidio, un orribile assassinio. Se Killing an Arab mostrava un distaccato omicidio senza scopo, qui un odio feroce su scaglia su un altro essere. Il dubbio non porta alla stasi ma alla violenza, all’emissione del sangue.
I Cure in questo album compongono brani che intrappolano al loro interno, chiudono cerchi ritmici in cui la melodia echeggia, sorge e svanisce. La musica crea un recinto, ci racchiude in una cripta piena di melodie eteree e ritmi ossessivi dove la voce ora emerge dolente, ora quasi sussurra, ora urla angosciata dimostrando la duttilità vocale di Robert Smith.

Se Doubt sembra già prefigurare le invettive che saranno nel successivo Pornography, 𝑻𝒉𝒆 𝑫𝒓𝒐𝒘𝒏𝒊𝒏𝒈 𝑴𝒂𝒏 torna alle atmosfere grigie che colorano tutto l’album: una chitarra disperde pochi accordi e il cantato è diviso su due canali come due istanze che si confrontano. L’acqua accoglie in un abbraccio mortale l’essere che “𝑟𝑒𝑠𝑝𝑖𝑟𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑢𝑛𝑜 𝑝𝑟𝑜𝑠𝑠𝑖𝑚𝑜 𝑎𝑑 𝑎𝑛𝑛𝑒𝑔𝑎𝑟𝑒” annaspa in mezzo all’oceano mentre una figura femminile si erge sopra al diluvio per affondare, mentre i suoi ricordi svaniscono. Una relazione finita male che lascia senza fiato, un battesimo che porta a fondo. Mi ha ricordato il finale di 𝐌𝐚𝐫𝐭𝐢𝐧 𝐄𝐝𝐞𝐧, capolavoro di 𝐉𝐚𝐜𝐤 𝐋𝐨𝐧𝐝𝐨𝐧, dove il protagonista mette fine ai suoi giorni spingendosi a fondo nel mare, annegando volontariamente perché svuotato di ogni desiderio e meta; e come dimenticare la tragica fine della fidanzata di Amleto, Ofelia annegata nel fiume.

𝑭𝒂𝒊𝒕𝒉 arriva nel finale e sembra un segno di speranza. “𝐴𝑓𝑓𝑒𝑟𝑟𝑎𝑚𝑖 𝑠𝑒 𝑐𝑎𝑑𝑜, 𝑠𝑡𝑜 𝑝𝑒𝑟𝑑𝑒𝑛𝑑𝑜 𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑎...” ma subito dopo: “𝐿’𝑖𝑑𝑒𝑎 𝑑𝑖 𝑝𝑒𝑟𝑓𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑚𝑖 𝑡𝑟𝑎𝑡𝑡𝑖𝑒𝑛𝑒”, e poco più avanti: “Violentami come un bambino/battezzato nel sangue/ dipinto come un santo sconosciuto”, sembra non essere rimasto altro se non la fede in una ricerca disperata ma: “𝑙𝑎 𝑡𝑢𝑎 𝑣𝑜𝑐𝑒 𝑒̀ 𝑚𝑜𝑟𝑡𝑎 𝑒 𝑣𝑒𝑐𝑐ℎ𝑖𝑎 𝑒 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑣𝑢𝑜𝑡𝑎.”“𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑢𝑛 𝑐𝑙𝑜𝑤𝑛 𝑏𝑖𝑎𝑛𝑐𝑜 𝑟𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑖𝑛 𝑝𝑖𝑒𝑑𝑖 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑖𝑛 𝑢𝑛𝑎 𝑓𝑜𝑙𝑙𝑎 𝑓𝑒𝑙𝑖𝑐𝑒.” Non si accenna a religioni qui e in questa folla felice “𝑛𝑒𝑠𝑠𝑢𝑛𝑜 𝑠𝑜𝑙𝑙𝑒𝑣𝑎 𝑙𝑒 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑒 𝑚𝑎𝑛𝑖, 𝑛𝑒𝑠𝑠𝑢𝑛𝑜 𝑠𝑜𝑙𝑙𝑒𝑣𝑎 𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖 𝑜𝑐𝑐ℎ𝑖, 𝑔𝑖𝑢𝑠𝑡𝑖𝑓𝑖𝑐𝑎𝑡𝑎 𝑐𝑜𝑛 𝑝𝑎𝑟𝑜𝑙𝑒 𝑣𝑢𝑜𝑡𝑒 𝑙𝑎 𝑓𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑑𝑖𝑣𝑒𝑛𝑡𝑎 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑏𝑒𝑙𝑙𝑎”. In The Funeral Party si accenna già nel titolo a incontri ludici in opposizione col luttuoso evento, e nel finale di Faith quel cantato dolente che recita: “𝑚𝑒 𝑛𝑒 𝑎𝑛𝑑𝑎𝑖 𝑑𝑎 𝑠𝑜𝑙𝑜, 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑛𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑙𝑎 𝑓𝑒𝑑𝑒” sembra la chiusa del corteo che accompagna una bara vuota.

La copertina astratta, grigia, dove il retro corrisponde al negativo della parte frontale, sembra volere riprodurre una contraddizione, due diversi aspetti di una stessa idea. La fede qui non è una religione vuota ridotta ad un party, piuttosto un’idea laica di fiducia, di speranza.

I Cure in questo album sono in tre dopo la defezione del tastierista 𝐌𝐚𝐭𝐭𝐡𝐢𝐞𝐮 𝐇𝐚𝐫𝐭𝐥𝐞𝐲 presente nel disco precedente e in tre resteranno anche nell’album successivo: 𝐑𝐨𝐛𝐞𝐫𝐭 𝐒𝐦𝐢𝐭𝐡 (chitarra voce e tastiere); 𝐒𝐢𝐦𝐨𝐧 𝐆𝐚𝐥𝐥𝐮𝐩 (basso); 𝐋𝐚𝐮𝐫𝐞𝐧𝐜𝐞 𝐓𝐨𝐥𝐡𝐮𝐫𝐬𝐭 (batteria).




foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 23 ottobre 2020

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𝐂𝐀𝐍𝐓𝐄𝐑𝐁𝐔𝐑𝐘 𝐓𝐀𝐋𝐄𝐒 
𝐏𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐒𝐞𝐜𝐨𝐧𝐝𝐚


𝑌𝑜𝑢 𝑙𝑜𝑜𝑘 𝑑𝑖𝑓𝑓𝑒𝑟𝑒𝑛𝑡 𝑒𝑣𝑒𝑟𝑦 𝑡𝑖𝑚𝑒 𝑦𝑜𝑢 𝑐𝑜𝑚𝑒
𝐹𝑟𝑜𝑚 𝑡ℎ𝑒 𝑓𝑜𝑎𝑚-𝑐𝑟𝑒𝑠𝑡𝑒𝑑 𝑏𝑟𝑖𝑛𝑒
𝐼𝑡'𝑠 𝑦𝑜𝑢𝑟 𝑠𝑘𝑖𝑛 𝑠ℎ𝑖𝑛𝑖𝑛𝑔 𝑠𝑜𝑓𝑡𝑙𝑦 𝑖𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑚𝑜𝑜𝑛𝑙𝑖𝑔ℎ𝑡
𝑃𝑎𝑟𝑡𝑙𝑦 𝑓𝑖𝑠ℎ, 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑙𝑦 𝑝𝑜𝑟𝑝𝑜𝑖𝑠𝑒, 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑙𝑦 𝑏𝑎𝑏𝑦 𝑠𝑝𝑒𝑟𝑚 𝑤ℎ𝑎𝑙𝑒

(𝑅𝑜𝑏𝑒𝑟𝑡 𝑊𝑦𝑎𝑡𝑡 - 𝑆𝑒𝑎 𝑆𝑜𝑛𝑔)


(𝙻𝚊 𝚜𝚌𝚘𝚛𝚜𝚊 𝚟𝚘𝚕𝚝𝚊 𝚊𝚋𝚋𝚒𝚊𝚖𝚘 𝚕𝚊𝚜𝚌𝚒𝚊𝚝𝚘 𝚒 𝚍𝚞𝚎 𝚊𝚖𝚒𝚌𝚒 𝚙𝚛𝚘𝚜𝚜𝚒𝚖𝚒 𝚊𝚍 𝚊𝚟𝚟𝚒𝚌𝚒𝚗𝚊𝚛𝚎 𝚒𝚕 𝚜𝚒𝚐𝚗𝚘𝚛𝚎 𝚒𝚗 𝚌𝚊𝚛𝚛𝚘𝚣𝚣𝚎𝚕𝚕𝚊 𝚏𝚎𝚛𝚖𝚘 𝚜𝚞𝚕𝚕𝚊 𝚛𝚒𝚟𝚊 𝚍𝚎𝚕 𝚕𝚊𝚐𝚑𝚎𝚝𝚝𝚘 𝚒𝚗 𝚌𝚘𝚗𝚝𝚎𝚖𝚙𝚕𝚊𝚣𝚒𝚘𝚗𝚎. 𝙼𝚊 𝚞𝚗𝚘 𝚍𝚎𝚒 𝚍𝚞𝚎 𝚎̀ 𝚒𝚖𝚋𝚊𝚛𝚊𝚣𝚣𝚊𝚝𝚘, 𝚗𝚘𝚗 𝚟𝚘𝚛𝚛𝚎𝚋𝚋𝚎 𝚍𝚒𝚜𝚝𝚞𝚛𝚋𝚊𝚛𝚎 𝚚𝚞𝚎𝚕𝚕’𝚊𝚝𝚝𝚎𝚖𝚙𝚊𝚝𝚘 𝚎 𝚋𝚊𝚛𝚋𝚞𝚝𝚘 𝚜𝚒𝚐𝚗𝚘𝚛𝚎 𝚌𝚘𝚗 𝚍𝚘𝚖𝚊𝚗𝚍𝚎 𝚒𝚗𝚘𝚙𝚙𝚘𝚛𝚝𝚞𝚗𝚎, 𝚎 𝚜𝚝𝚛𝚊𝚝𝚝𝚘𝚗𝚊 𝚕’𝚊𝚕𝚝𝚛𝚘 𝚌𝚑𝚎 𝚌𝚘𝚗 𝚜𝚕𝚊𝚗𝚌𝚒𝚘 𝚝𝚎𝚗𝚝𝚊 𝚍𝚒 𝚊𝚟𝚟𝚒𝚌𝚒𝚗𝚊𝚛𝚜𝚒.)

𝑵𝒐, 𝒅𝒂𝒊 𝒏𝒐𝒏 𝒎𝒊 𝒔𝒆𝒎𝒃𝒓𝒂 𝒊𝒍 𝒄𝒂𝒔𝒐: 𝒏𝒆𝒑𝒑𝒖𝒓𝒆 𝒍𝒐 𝒄𝒐𝒏𝒐𝒔𝒄𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒆 𝒐𝒓𝒂 𝒂𝒏𝒅𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒍𝒊̀ 𝒂 𝒄𝒉𝒊𝒆𝒅𝒆𝒓𝒆 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒔𝒖𝒂 𝒄𝒐𝒏𝒅𝒊𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆, 𝒄𝒐𝒔𝒊̀, 𝒄𝒐𝒎𝒆 𝒔𝒆 𝒏𝒊𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒇𝒐𝒔𝒔𝒆.

Non ti devi preoccupare, stai tranquillo che non manderà via nessuno, io lo conosco.

𝑳𝒐 𝒄𝒐𝒏𝒐𝒔𝒄𝒊? 𝑺𝒆𝒆𝒆...𝒅𝒂𝒊 𝒔𝒖𝒐𝒊 𝒅𝒊𝒔𝒄𝒉𝒊 𝒍𝒐 𝒄𝒐𝒏𝒐𝒔𝒄𝒊.

Fidati, vieni, vedrai che non ti manderà a quel paese.

𝑵𝒆𝒍𝒍’𝒖𝒅𝒊𝒓𝒆 𝒒𝒖𝒂𝒍𝒄𝒖𝒏𝒐 𝒂𝒗𝒗𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒓𝒔𝒊, “𝑨𝒍𝒇𝒊𝒆 𝒔𝒆𝒊 𝒕𝒖?” 𝒅𝒊𝒄𝒆 𝒔𝒆𝒏𝒛𝒂 𝒗𝒐𝒍𝒕𝒂𝒓𝒔𝒊 𝒊𝒍 𝒔𝒊𝒈𝒏𝒐𝒓𝒆 𝒃𝒂𝒓𝒃𝒖𝒕𝒐 𝒆 𝒂𝒗𝒂𝒏𝒕𝒊 𝒄𝒐𝒏 𝒈𝒍𝒊 𝒂𝒏𝒏𝒊.
“𝑺𝒄𝒖𝒔𝒂𝒄𝒊 𝑹𝒐𝒃𝒆𝒓𝒕, 𝒕𝒊 𝒅𝒊𝒔𝒕𝒖𝒓𝒃𝒊𝒂𝒎𝒐?”
𝑳’𝒖𝒐𝒎𝒐 𝒗𝒐𝒍𝒕𝒂 𝒍𝒂 𝒄𝒂𝒓𝒓𝒐𝒛𝒛𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒄𝒐𝒏 𝒍’𝒂𝒃𝒊𝒍𝒊𝒕𝒂̀ 𝒅𝒊 𝒄𝒉𝒊 𝒍𝒂 𝒎𝒂𝒏𝒐𝒗𝒓𝒂 𝒅𝒂 𝒂𝒏𝒏𝒊 𝒆 𝒅𝒊𝒄𝒆: “𝑨𝒉 𝒔𝒆𝒊 𝒕𝒖? 𝑷𝒆𝒏𝒔𝒂𝒗𝒐 𝒇𝒐𝒔𝒔𝒆 𝒎𝒊𝒂 𝒎𝒐𝒈𝒍𝒊𝒆.
𝑨𝒍𝒍𝒐𝒓𝒂, 𝒄𝒐𝒎𝒆 𝒗𝒂?”
“𝑩𝒆𝒏𝒆 𝒈𝒓𝒂𝒛𝒊𝒆, 𝒂𝒏𝒄𝒉𝒆 𝒕𝒖 𝒕𝒖𝒕𝒕𝒐 𝒃𝒆𝒏𝒆 𝒗𝒆𝒅𝒐.”
“𝑵𝒐𝒏 𝒎𝒊 𝒍𝒂𝒎𝒆𝒏𝒕𝒐” 𝒊𝒍 𝒔𝒖𝒐 𝒔𝒐𝒓𝒓𝒊𝒔𝒐 𝒆̀ 𝒃𝒐𝒏𝒂𝒓𝒊𝒐. “𝑸𝒖𝒆𝒔𝒕𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒈𝒖𝒂𝒓𝒅𝒂 𝒎𝒆𝒓𝒂𝒗𝒊𝒈𝒍𝒊𝒂𝒕𝒐 𝒆̀ 𝒖𝒏 𝒕𝒖𝒐 𝒂𝒎𝒊𝒄𝒐? 𝑮𝒖𝒂𝒓𝒅𝒂 𝒄𝒉𝒆 𝒏𝒐𝒏 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒖𝒏 𝒇𝒂𝒏𝒕𝒂𝒔𝒎𝒂....𝑳𝒐 𝒉𝒂𝒊 𝒑𝒐𝒓𝒕𝒂𝒕𝒐 𝒂 𝒗𝒊𝒔𝒊𝒕𝒂𝒓𝒆 𝒍𝒂 𝒏𝒐𝒔𝒕𝒓𝒂 𝒄𝒂𝒎𝒑𝒂𝒈𝒏𝒂?”
“𝑪𝒆𝒓𝒕𝒐, 𝒗𝒐𝒍𝒆𝒗𝒂 𝒂𝒔𝒄𝒐𝒍𝒕𝒂𝒓𝒆 𝒅𝒂 𝒗𝒊𝒄𝒊𝒏𝒐 𝒊 𝒔𝒖𝒐𝒏𝒊 𝒄𝒉𝒆 𝒑𝒓𝒐𝒗𝒆𝒏𝒊𝒗𝒂𝒏𝒐 𝒅𝒂 𝒒𝒖𝒊, 𝒆̀ 𝒔𝒕𝒂𝒕𝒐 𝒂𝒕𝒕𝒓𝒂𝒕𝒕𝒐 𝒄𝒐𝒎𝒆 𝒖𝒏𝒂 𝒄𝒂𝒍𝒂𝒎𝒊𝒕𝒂.”
“𝑫𝒊𝒓𝒆𝒊 𝒄𝒉𝒆 𝒆̀ 𝒓𝒊𝒎𝒂𝒔𝒕𝒐 𝒂𝒅𝒅𝒊𝒓𝒊𝒕𝒕𝒖𝒓𝒂 𝒊𝒑𝒏𝒐𝒕𝒊𝒛𝒛𝒂𝒕𝒐: 𝒔𝒄𝒉𝒊𝒐𝒄𝒄𝒂 𝒍𝒆 𝒅𝒊𝒕𝒂, 𝒇𝒂𝒊 𝒒𝒖𝒂𝒍𝒄𝒐𝒔𝒂 𝒑𝒆𝒓 𝒔𝒗𝒆𝒈𝒍𝒊𝒂𝒓𝒍𝒐...”
“𝑺𝒂𝒊, 𝒗𝒐𝒍𝒆𝒗𝒂 𝒔𝒂𝒑𝒆𝒓𝒆 𝒄𝒐𝒎𝒆 𝒎𝒂𝒊, 𝒕𝒖 𝒃𝒂𝒕𝒕𝒆𝒓𝒊𝒔𝒕𝒂, 𝒕𝒊 𝒕𝒓𝒐𝒗𝒊...”
“𝑺𝒖 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒐 𝒎𝒆𝒛𝒛𝒐 𝒅𝒊 𝒕𝒓𝒂𝒔𝒑𝒐𝒓𝒕𝒐? 𝑫𝒊𝒈𝒍𝒊 𝒅𝒊 𝒏𝒐𝒏 𝒑𝒓𝒆𝒐𝒄𝒄𝒖𝒑𝒂𝒓𝒔𝒊, 𝒏𝒐𝒏 𝒗𝒐𝒈𝒍𝒊𝒐 𝒊𝒏𝒗𝒆𝒔𝒕𝒊𝒓𝒍𝒐... 𝒔𝒖 𝒓𝒂𝒈𝒂𝒛𝒛𝒐, 𝒄𝒐𝒔𝒂 𝒕𝒊 𝒉𝒂 𝒅𝒆𝒕𝒕𝒐 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒐 𝒒𝒖𝒂 𝒑𝒆𝒓 𝒎𝒂𝒏𝒅𝒂𝒓𝒕𝒊 𝒊𝒏 𝒕𝒓𝒂𝒏𝒄𝒆? 𝑺𝒆 𝒔𝒆𝒊 𝒄𝒐𝒔𝒊̀ 𝒑𝒆𝒓𝒔𝒐 𝒏𝒐𝒏 𝒔𝒆𝒏𝒕𝒊 𝒒𝒖𝒆𝒍𝒍𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒅𝒊𝒄𝒐.”
“𝑵𝒐 𝒏𝒐, 𝒍𝒂 𝒔𝒕𝒐 𝒂𝒔𝒄𝒐𝒍𝒕𝒂𝒏𝒅𝒐!”
“𝑬 𝒍𝒂𝒔𝒄𝒊𝒂 𝒑𝒆𝒓𝒅𝒆𝒓𝒆 𝒊𝒍 𝒍𝒆𝒊. 𝑪𝒐𝒎𝒖𝒏𝒒𝒖𝒆...𝒆𝒓𝒐 𝒖𝒃𝒓𝒊𝒂𝒄𝒐, 𝒖𝒏𝒐 𝒔𝒕𝒂𝒕𝒐 𝒒𝒖𝒂𝒔𝒊 𝒑𝒓𝒐𝒔𝒔𝒊𝒎𝒐 𝒂𝒍 𝒅𝒆𝒍𝒊𝒓𝒊𝒐...𝒔𝒂𝒑𝒆𝒕𝒆 𝒂 𝒒𝒖𝒂𝒍𝒄𝒖𝒏𝒐 𝒉𝒐 𝒅𝒆𝒕𝒕𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒄𝒐𝒔𝒊̀ 𝒄𝒐𝒎𝒆 𝒊 𝑺𝒐𝒇𝒕 𝑴𝒂𝒄𝒉𝒊𝒏𝒆 𝒎𝒊 𝒂𝒗𝒆𝒗𝒂𝒏𝒐 𝒔𝒄𝒂𝒓𝒕𝒂𝒕𝒐, 𝒄𝒐𝒔𝒊̀ 𝒊𝒐 𝒎𝒊 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒍𝒆𝒕𝒕𝒆𝒓𝒂𝒍𝒎𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒃𝒖𝒕𝒕𝒂𝒕𝒐 𝒗𝒊𝒂. 𝑬𝒓𝒂𝒗𝒂𝒎𝒐 𝒂𝒅 𝒖𝒏 𝒑𝒂𝒓𝒕𝒚 𝒆 𝒒𝒖𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒇𝒊𝒏𝒆𝒔𝒕𝒓𝒂 𝒂𝒑𝒆𝒓𝒕𝒂 𝒎𝒊 𝒉𝒂 𝒕𝒆𝒏𝒕𝒂𝒕𝒐 𝒄𝒐𝒔𝒊̀ 𝒍’𝒉𝒐 𝒄𝒆𝒏𝒕𝒓𝒂𝒕𝒂 𝒆 𝒎𝒊 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒕𝒓𝒐𝒗𝒂𝒕𝒐 𝒕𝒓𝒆 𝒑𝒊𝒂𝒏𝒊 𝒑𝒊𝒖̀ 𝒔𝒐𝒕𝒕𝒐, 𝒔𝒖𝒍𝒍𝒂 𝒅𝒖𝒓𝒂 𝒕𝒆𝒓𝒓𝒂. 𝑰 𝒎𝒆𝒅𝒊𝒄𝒊 𝒎𝒊 𝒉𝒂𝒏𝒏𝒐 𝒅𝒆𝒕𝒕𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒔𝒆 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒂𝒏𝒄𝒐𝒓𝒂 𝒗𝒊𝒗𝒐 𝒍𝒐 𝒅𝒆𝒗𝒐 𝒑𝒓𝒐𝒑𝒓𝒊𝒐 𝒂𝒍𝒍𝒐 𝒔𝒕𝒂𝒕𝒐 𝒅𝒊 𝒖𝒃𝒓𝒊𝒂𝒄𝒉𝒆𝒛𝒛𝒂: 𝒔𝒆 𝒎𝒊 𝒇𝒐𝒔𝒔𝒊 𝒊𝒓𝒓𝒊𝒈𝒊𝒅𝒊𝒕𝒐 𝒏𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒄𝒂𝒅𝒖𝒕𝒂 𝒂 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕’𝒐𝒓𝒂 𝒏𝒐𝒏 𝒔𝒂𝒓𝒆𝒊 𝒒𝒖𝒊 𝒂 𝒓𝒂𝒄𝒄𝒐𝒏𝒕𝒂𝒓𝒍𝒐, 𝒊𝒏𝒗𝒆𝒄𝒆 𝒒𝒖𝒂𝒔𝒊 𝒏𝒐𝒏 𝒎𝒊 𝒓𝒆𝒔𝒊 𝒄𝒐𝒏𝒕𝒐 𝒅𝒊 𝒄𝒐𝒔𝒂 𝒔𝒕𝒂𝒗𝒐 𝒇𝒂𝒄𝒆𝒏𝒅𝒐 𝒆 𝒉𝒐 𝒕𝒐𝒄𝒄𝒂𝒕𝒐 𝒊𝒍 𝒔𝒖𝒐𝒍𝒐 𝒄𝒐𝒎𝒆 𝒖𝒏 𝒇𝒂𝒏𝒕𝒐𝒄𝒄𝒊𝒐 𝒂𝒇𝒇𝒍𝒐𝒔𝒄𝒊𝒂𝒕𝒐.

Sai, questo signore da allora ha fatto un sacco di cose come solo lui avrebbe saputo fare. Per un po’ di anni ha fatto tutto da solo, si è attrezzato uno studio e tutto quanto, ha all’attivo centinaia di collaborazioni con altri musicisti: insomma non è mai stato un isolato, anzi. E’ stato impegnato anche politicamente....

𝑰𝒍 𝒎𝒊𝒐 𝒂𝒎𝒊𝒄𝒐 𝒉𝒂 𝒅𝒆𝒕𝒕𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒉𝒂𝒊 𝒊𝒏𝒄𝒊𝒔𝒐 𝒅𝒆𝒊 𝒄𝒂𝒑𝒐𝒍𝒂𝒗𝒐𝒓𝒊.

Il tuo amico esagera. Ho suonato, l’unica cosa di cui mi vanto è avere orecchio.
Non devi dargli retta fino in fondo: 𝐑𝐨𝐜𝐤 𝐁𝐨𝐭𝐭𝐨𝐦, 𝐎𝐥𝐝 𝐑𝐨𝐭𝐭𝐞𝐧𝐡𝐚𝐭, 𝐃𝐨𝐧𝐝𝐞𝐬𝐭𝐚𝐧, 𝐒𝐡𝐥𝐞𝐞𝐩... sono solo alcuni dei dischi incisi a suo nome.

𝑬’ 𝒗𝒆𝒓𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒏𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒕𝒖𝒂 𝒄𝒂𝒔𝒂 𝒂𝒗𝒆𝒕𝒆 𝒄𝒓𝒆𝒂𝒕𝒐 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒐 𝒕𝒊𝒑𝒐 𝒅𝒊 𝒔𝒐𝒖𝒏𝒅?

Ecco un’altra favola. Ho detto non ricordo più a chi che a noi è successo come a quel pover’uomo morto in croce: è spirato senza essere stato consapevole di avere inventato il cristianesimo. Noi suonavamo quello che ci piaceva, ci sentivamo liberi di sperimentare, fondevamo rock and roll, jazz, blues, tutto quello che ascoltavamo, ma non ci siamo mai messi a tavolino per dire, ecco adesso facciamo il Canterbury Sound, anche perché molti neppure erano di Canterbury.

𝑺𝒆𝒏𝒕𝒐 𝒏𝒆𝒍𝒍’𝒂𝒓𝒊𝒂 𝒖𝒏𝒂 𝒄𝒂𝒏𝒛𝒐𝒏𝒆. 𝑬’ 𝒔𝒐𝒇𝒇𝒊𝒄𝒆 𝒄𝒐𝒎𝒆 𝒖𝒏𝒂 𝒑𝒊𝒖𝒎𝒂...

Esatto, bella definizione. E’ 𝐊𝐞𝐯𝐢𝐧 𝐀𝐲𝐞𝐫𝐬 e la voce che senti cantare nel ritornello all’unisono è proprio il qui presente signor Wyatt. Se ricordi Ayers è presente nel primo disco dei Soft Machine ed è uno dei fondatori, ma se ne è andato presto e ha avuto una ottima carriera solista: un grande outsider, questo pezzo è da 𝐖𝐡𝐚𝐭𝐞𝐯𝐞𝐫𝐬𝐡𝐞𝐛𝐫𝐢𝐧𝐠𝐬𝐰𝐞𝐬𝐢𝐧𝐠...

𝑻𝒖𝒕𝒕𝒐 𝒂𝒕𝒕𝒂𝒄𝒄𝒂𝒕𝒐!

Già come uno sciogli lingua. In lui c’è un rivolo di malinconica dolcezza che senti già nella voce e sperimentazione, stravaganze, ironia: un grande che non ha avuto l’attenzione che si meritava e che forse neppure l’ha cercata.

𝑬𝒑𝒑𝒖𝒓𝒆 𝒊𝒍 𝒔𝒖𝒄𝒄𝒆𝒔𝒔𝒐 𝒍𝒐 𝒄𝒆𝒓𝒄𝒂𝒏𝒐 𝒕𝒖𝒕𝒕𝒊, 𝒎𝒊 𝒗𝒐𝒓𝒓𝒆𝒔𝒕𝒊 𝒅𝒊𝒓𝒆 𝒄𝒉𝒆 𝒍𝒖𝒊 𝒏𝒐𝒏 𝒍𝒐 𝒉𝒂 𝒎𝒂𝒊 𝒄𝒆𝒓𝒄𝒂𝒕𝒐?

Tutto sta in che modo lo si cerca. Secondo me ci sono due vie, rimanendo se stessi o tradendo la propria visione di arte. Nessuno in questa scena penso abbia mai cercato un successo di vendite da classifica tradendosi. Ovviamente se il successo arriva nessuno lo butta via o lo rifiuta.

𝑨𝒏𝒄𝒉𝒆 𝒑𝒆𝒓𝒄𝒉𝒆́ 𝒔𝒖𝒐𝒏𝒂𝒗𝒂𝒎𝒐 𝒓𝒐𝒃𝒂 𝒃𝒆𝒏 𝒑𝒐𝒄𝒐 𝒄𝒐𝒎𝒎𝒆𝒓𝒄𝒊𝒂𝒍𝒆. 𝑪𝒐𝒎𝒖𝒏𝒒𝒖𝒆 𝒉𝒂𝒊 𝒓𝒂𝒈𝒊𝒐𝒏𝒆: 𝒇𝒂𝒄𝒆𝒗𝒂𝒎𝒐 𝒒𝒖𝒆𝒍𝒍𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒄𝒊 𝒑𝒊𝒂𝒄𝒆𝒗𝒂 𝒇𝒂𝒓𝒆.

𝑯𝒐 𝒔𝒆𝒏𝒕𝒊𝒕𝒐 𝒑𝒂𝒓𝒍𝒂𝒓𝒆 𝒅𝒊 𝒖𝒏𝒂 𝒔𝒐𝒓𝒕𝒂 𝒅𝒊 𝒑𝒂𝒓𝒕𝒊𝒕𝒐 𝒅𝒊 𝒎𝒖𝒔𝒊𝒄𝒊𝒔𝒕𝒊...𝒂𝒔𝒑𝒆𝒕𝒕𝒂 𝒄𝒐𝒎𝒆 𝒔𝒊 𝒄𝒉𝒊𝒂𝒎𝒂? 𝑹𝒐𝒄𝒌 𝒊𝒏 𝒒𝒖𝒂𝒍𝒄𝒐𝒔𝒂 𝒄𝒉𝒆 𝒏𝒐𝒏 𝒓𝒊𝒄𝒐𝒓𝒅𝒐.

Rock in Opposition, bravo, ricordi bene e l’iniziativa vede musicisti che arrivano da qui, da questa terra in grigio e rosa.
Viene giusto a fagiolo con il nostro discorso: questi musicisti si oppongono infatti alle logiche commerciali delle grosse case discografiche da qui arrivano gli 𝐇𝐞𝐧𝐫𝐲 𝐂𝐨𝐰, dall’Italia gli 𝐒𝐭𝐨𝐫𝐦𝐲 𝐒𝐢𝐱.

𝑳𝒂 𝑴𝒖𝒄𝒄𝒂 𝒅𝒊 𝑯𝒆𝒏𝒓𝒚 𝒄𝒉𝒆 𝒏𝒐𝒎𝒆 𝒄𝒖𝒓𝒊𝒐𝒔𝒐!

Già quelli con il calzettone sulla copertina dei primi loro dischi, quelli del chitarrista 𝐅𝐫𝐞𝐝 𝐅𝐫𝐢𝐭𝐡 e del batterista 𝐂𝐡𝐫𝐢𝐬 𝐂𝐮𝐭𝐥𝐞𝐫 è un ensemble che ha raggruppato a fasi alterne grossi nomi, anche 𝐌𝐢𝐤𝐞 𝐎𝐥𝐝𝐟𝐢𝐞𝐥𝐝.

𝑸𝒖𝒆𝒍𝒍𝒐 𝒅𝒊 𝐓𝐮𝐛𝐮𝐥𝐚𝐫 𝐁𝐞𝐥𝐥𝐬?

Proprio lui, non era di queste parti ma lo spirito è tutto in questa regione dove uno può starsene su una carrozzella a contemplare il lago, e le colline. Tubular Bells, con quell’inizio come campanellini che hanno un sapore favolistico, e uno sviluppo che galleggia in questo cielo rosa, tutto acustico, uno svolazzare di uccellini, poi il sopraggiungere di un pericolo, forse un temporale cupo e minaccioso...

𝑯𝒆𝒊 𝒔𝒗𝒆𝒈𝒍𝒊𝒂𝒕𝒊! 𝑵𝒐𝒏 𝒔𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒒𝒖𝒊 𝒑𝒆𝒓 𝒑𝒂𝒓𝒍𝒂𝒓𝒆 𝒔𝒐𝒍𝒐 𝒅𝒊 𝑶𝒍𝒅𝒇𝒊𝒆𝒍𝒅!

Hai ragione, ma è tutto così bucolico.

𝑮𝒖𝒂𝒓𝒅𝒂 𝒄’𝒆̀ 𝒒𝒖𝒊 𝒖𝒏 𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒂𝒕𝒐𝒓𝒆 𝒔𝒕𝒓𝒂𝒅𝒂𝒍𝒆: 𝐇𝐚𝐭𝐟𝐢𝐞𝐥𝐝 𝐚𝐧𝐝 𝐭𝐡𝐞 𝐍𝐨𝐫𝐭𝐡, 𝒆 𝒔𝒆𝒎𝒃𝒓𝒂 𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒂𝒓𝒆 𝒒𝒖𝒆𝒍 𝒄𝒂𝒔𝒕𝒆𝒍𝒍𝒐 𝒍𝒂̀ 𝒊𝒏 𝒄𝒊𝒎𝒂, 𝒔𝒊 𝒄𝒉𝒊𝒂𝒎𝒂 𝒄𝒐𝒔𝒊̀ 𝒒𝒖𝒆𝒍 𝒑𝒐𝒔𝒕𝒐?

No, è un segnale che si trova fuori Londra e indica precisamente una località e il nord dell’Inghilterra, quel nome lo hanno preso in prestito i signori che stanno lassù.

𝑫𝒆𝒈𝒍𝒊 𝒆𝒓𝒆𝒎𝒊𝒕𝒊? 𝑭𝒐𝒓𝒔𝒆 𝒅𝒆𝒊 𝒏𝒐𝒃𝒊𝒍𝒊?

Direi né una cosa né l’altra, sono 𝐒𝐭𝐞𝐯𝐞 𝐌𝐢𝐥𝐥𝐞𝐫 chitarrista già Caravan, Matching Mole; 𝐃𝐚𝐯𝐞 𝐒𝐭𝐞𝐰𝐚𝐫𝐭 alle tastiere; 𝐑𝐢𝐜𝐡𝐚𝐫𝐝 𝐒𝐢𝐧𝐜𝐥𝐚𝐢𝐫 al basso e voce dai Caravan; 𝐏𝐢𝐩 𝐏𝐲𝐥𝐞 batterista (Gong, Delivery) più altri amici collaboratori tra cui ovviamente 𝐖𝐲𝐚𝐭𝐭. E’ giusto che siano nel loro castello di magie, dominano dall’alto tutta la terra grigio e rosa, ne colgono l’essenza fatta di ironia, non-sense, leggero spleen, uno stile in punta di dita che aggiunge sfumature pastello a questa bicromia già ricca di per sé.

𝑾𝒚𝒂𝒕𝒕 𝒉𝒂 𝒂𝒄𝒄𝒆𝒏𝒏𝒂𝒕𝒐 𝒂𝒍 𝒋𝒂𝒛𝒛.

Infatti da qui provengono i 𝐍𝐮𝐜𝐥𝐞𝐮𝐬 del trombettista 𝐈𝐚𝐧 𝐂𝐚𝐫𝐫, i 𝐂𝐞𝐧𝐭𝐢𝐩𝐞𝐝𝐞, 𝐊𝐞𝐢𝐭𝐡 𝐓𝐢𝐩𝐩𝐞𝐭𝐭, e molti altri. Qui il jazz si è svincolato un po’ dal classico swing, si è contaminato, loro sono figli del 𝐌𝐢𝐥𝐞𝐬 𝐃𝐚𝐯𝐢𝐬 di 𝐁𝐢𝐭𝐜𝐡𝐞𝐬 𝐁𝐫𝐞𝐰 che ha aperto orizzonti vari.

𝑴𝒂 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒐 𝒏𝒐𝒏 𝒆̀ 𝒓𝒐𝒄𝒌!

Se con questo termine intendi chitarroni roboanti, assoli sfrenati, un ritmo riconoscibile e quasi ballabile allora no, non è rock. Ma se intendi musica aperta, ricca e non chiusa in se stessa, allora lo è.

“𝑰𝒐 𝒏𝒐𝒏 𝒉𝒐 𝒎𝒂𝒊 𝒊𝒏𝒄𝒊𝒔𝒐 𝒖𝒏 𝒅𝒊𝒔𝒄𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒔𝒊𝒂 𝒗𝒆𝒓𝒂𝒎𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒓𝒐𝒄𝒌.” 𝑰𝒏𝒕𝒆𝒓𝒗𝒊𝒆𝒏𝒆 𝑾𝒚𝒂𝒕𝒕 𝒄𝒉𝒆 𝒆𝒓𝒂 𝒕𝒐𝒓𝒏𝒂𝒕𝒐 𝒂 𝒄𝒐𝒏𝒕𝒆𝒎𝒑𝒍𝒂𝒓𝒆 𝒊𝒍 𝒍𝒂𝒈𝒐.

Sentito? Qualcuno lo ha definito Progressive e secondo me è un termine azzeccato: qualcosa che progredisce, che non è mai statico, ripetitivo, che è alla ricerca di suoni nuovi, di stili nuovi.

𝑬𝒅 𝒆̀ 𝒊𝒏𝒊𝒛𝒊𝒂𝒕𝒐 𝒅𝒂 𝒒𝒖𝒊, 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒐 𝑷𝒓𝒐𝒈𝒓𝒆𝒔𝒔𝒊𝒗𝒆 𝒊𝒏𝒕𝒆𝒏𝒅𝒐.

No, non da qui ma qui ha avuto uno sviluppo direi quasi autonomo, riconoscibile, diverso.
Vieni, saliamo un poco lungo il sentiero che porta al castello, e lasciamo Robert alle sue contemplazioni.

𝑫𝒂 𝒒𝒖𝒂𝒔𝒔𝒖̀ 𝒔𝒊 𝒗𝒆𝒅𝒐𝒏𝒐 𝒂𝒍𝒕𝒓𝒆 𝒑𝒆𝒓𝒔𝒐𝒏𝒆, 𝒂𝒍𝒕𝒓𝒆 𝒃𝒂𝒏𝒅 𝒄𝒉𝒆 𝒔𝒖𝒐𝒏𝒂𝒏𝒐.

Già, e sono in gran parte italiani, forse perché noi abbiamo assimilato lo spirito Progressive molto bene. Quelli laggiù sono i 𝐏𝐢𝐜𝐜𝐡𝐢𝐨 𝐃𝐚𝐥 𝐏𝐨𝐳𝐳𝐨, e là un poco oltre vedi i 𝐖𝐢𝐧𝐬𝐭𝐨𝐧𝐬, i 𝐌𝐨𝐨𝐠𝐠...

𝑪𝒐𝒎𝒆 𝒊𝒍 𝒔𝒊𝒏𝒕𝒆𝒕𝒊𝒛𝒛𝒂𝒕𝒐𝒓𝒆?

Quasi solo con una g in più. 𝐅𝐚𝐛𝐢𝐨 𝐙𝐮𝐟𝐟𝐚𝐧𝐭𝐢, eclettico musicista e non solo, con numerose incarnazioni in gruppi e progetti vari. Sono artisti di ieri e di oggi che sarebbe lungo star qui ad elencare.

𝑬’ 𝒗𝒆𝒓𝒂𝒎𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒓𝒊𝒄𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒂 𝒕𝒆𝒓𝒓𝒂 𝒊𝒏 𝒈𝒓𝒊𝒈𝒊𝒐 𝒆 𝒓𝒐𝒔𝒂.

Puoi dirlo! Tra parentesi sai che David Sinclair, il bassista e voce dei Caravan e degli Hatfield and the North, vive in Italia? In Puglia per la precisione.

𝑷𝒐𝒕𝒓𝒆𝒎𝒎𝒐 𝒂𝒏𝒅𝒂𝒓𝒍𝒐 𝒂 𝒕𝒓𝒐𝒗𝒂𝒓𝒆!...𝑪𝒐𝒎𝒖𝒏𝒒𝒖𝒆 𝒔𝒂𝒊 𝒄𝒉𝒆 𝒎𝒊 𝒑𝒊𝒂𝒄𝒆 𝒗𝒆𝒓𝒂𝒎𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒐 𝒑𝒐𝒔𝒕𝒐? 𝑨𝒔𝒄𝒐𝒍𝒕𝒆𝒓𝒐̀ 𝒕𝒖𝒕𝒕𝒊 𝒈𝒍𝒊 𝒂𝒓𝒕𝒊𝒔𝒕𝒊 𝒄𝒉𝒆 𝒎𝒊 𝒉𝒂𝒊 𝒆𝒍𝒆𝒏𝒄𝒂𝒕𝒐

E ce ne sono altri. Comunque vedrai che sarà ogni volta come entrare in un posto conosciuto ma mai uguale a se stesso e scoprirai che i colori sono tanti.

𝑺𝒂𝒊, 𝒏𝒐𝒕𝒐 𝒂𝒅𝒆𝒔𝒔𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒔𝒕𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒑𝒂𝒓𝒍𝒂𝒏𝒅𝒐 𝒅𝒆𝒊 𝒄𝒐𝒍𝒐𝒓𝒊, 𝒅𝒊 𝒗𝒊𝒃𝒓𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒊 𝒄𝒉𝒆 𝒔𝒕𝒊𝒎𝒐𝒍𝒂𝒏𝒐 𝒍𝒂 𝒗𝒊𝒔𝒕𝒂, 𝒎𝒆𝒏𝒕𝒓𝒆 𝒂𝒗𝒓𝒆𝒎𝒎𝒐 𝒅𝒐𝒗𝒖𝒕𝒐 𝒑𝒂𝒓𝒍𝒂𝒓𝒆 𝒅𝒊 𝒗𝒊𝒃𝒓𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒊 𝒄𝒉𝒆 𝒔𝒕𝒊𝒎𝒐𝒍𝒂𝒏𝒐 𝒍’𝒖𝒅𝒊𝒕𝒐.

Cosa importa? Tutto è collegato in qualche modo: i sensi, l’intelletto: basta sapere ascoltare.


𝑊ℎ𝑎𝑡'𝑠 𝑡ℎ𝑎𝑡 𝑖𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑠𝑘𝑦 𝑛𝑜𝑤?
𝑇𝑒𝑎𝑝𝑜𝑡𝑠 𝑡ℎ𝑎𝑡 𝑐𝑎𝑛 𝑓𝑙𝑦 𝑛𝑜𝑤
𝑉𝑜𝑖𝑐𝑒𝑠 𝑖𝑛 𝑦𝑜𝑢𝑟 ℎ𝑒𝑎𝑑
𝑇𝑒𝑙𝑙 𝑚𝑒 𝑤ℎ𝑎𝑡 𝑡ℎ𝑒𝑦 𝑠𝑎𝑖𝑑
(𝐺𝑜𝑛𝑔 - 𝑅𝑎𝑑𝑖𝑜 𝐺𝑛𝑜𝑚𝑒 𝐼𝑛𝑣𝑖𝑠𝑖𝑏𝑙𝑒)



foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 16 ottobre 2020

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𝐂𝐀𝐍𝐓𝐄𝐑𝐁𝐔𝐑𝐘 𝐓𝐀𝐋𝐄𝐒 
𝐏𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐚


𝐿𝑖𝑓𝑒`𝑠 𝑡𝑜𝑜 𝑠ℎ𝑜𝑟𝑡 𝑡𝑜 𝑏𝑒 𝑠𝑎𝑑, 𝑤𝑖𝑠ℎ𝑖𝑛𝑔 𝑡ℎ𝑖𝑛𝑔𝑠 𝑦𝑜𝑢'𝑙𝑙 𝑛𝑒𝑣𝑒𝑟 ℎ𝑎𝑣𝑒
𝑌𝑜𝑢'𝑟𝑒 𝑏𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟 𝑜𝑓𝑓 𝑛𝑜𝑡 𝑑𝑟𝑒𝑎𝑚𝑖𝑛𝑔 𝑜𝑓 𝑡ℎ𝑒 𝑡ℎ𝑖𝑛𝑔𝑠 𝑡𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑒
𝐷𝑟𝑒𝑎𝑚𝑠 𝑎𝑟𝑒 𝑎𝑙𝑤𝑎𝑦𝑠 𝑒𝑛𝑑𝑖𝑛𝑔 𝑓𝑎𝑟 𝑡𝑜𝑜 𝑠𝑜𝑜𝑛
𝑆𝑜𝑢𝑛𝑑𝑠 𝑜𝑓 𝑎 𝑑𝑖𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡 𝑚𝑒𝑙𝑜𝑑𝑦, 𝑜𝑛𝑐𝑒 𝑝𝑙𝑎𝑦𝑒𝑑, 𝑙𝑜𝑠𝑡 𝑓𝑟𝑜𝑚 𝑚𝑒𝑚𝑜𝑟𝑦 ...
(𝐶𝑎𝑟𝑎𝑣𝑎𝑛 - 𝑊𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟 𝑊𝑖𝑛𝑒)



𝑩𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒂 𝒄𝒉𝒊𝒆𝒔𝒂, 𝒅𝒐𝒗𝒆 𝒎𝒊 𝒉𝒂𝒊 𝒑𝒐𝒓𝒕𝒂𝒕𝒐?

Guarda che non è una semplice chiesa, è una cattedrale, la cattedrale di 𝐂𝐚𝐧𝐭𝐞𝐫𝐛𝐮𝐫𝐲.

𝑨𝒉, 𝒒𝒖𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒅𝒆𝒊 𝒓𝒂𝒄𝒄𝒐𝒏𝒕𝒊 𝒅𝒊 𝒕𝒂𝒏𝒕𝒊 𝒂𝒏𝒏𝒊 𝒇𝒂?

Bravo, proprio quella. Ma non siamo qui per parlare di letteratura, non solo di quella perlomeno. I pellegrini dei racconti che hai ricordato si ritrovano tutti in una locanda e in fondo anche queste storie iniziano non da una locanda ma da una casa da qualche parte qui a sud-est dell’Inghilterra.

𝑪𝒊 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒂𝒍𝒕𝒓𝒊 𝒑𝒆𝒍𝒍𝒆𝒈𝒓𝒊𝒏𝒊?

Bè, in un certo senso sì, solo che anziché raccontarsi storie edificanti, viaggeranno armati di strumenti musicali.

𝑴𝒖𝒔𝒊𝒄𝒊𝒔𝒕𝒊...

Ecco, parte tutto da Wellington House.

𝑪𝒉𝒊 𝒆̀ 𝒒𝒖𝒆𝒍 𝒔𝒊𝒈𝒏𝒐𝒓𝒆 𝒊𝒏 𝒄𝒂𝒓𝒓𝒐𝒛𝒛𝒊𝒏𝒂?

Quello è il figlio dei proprietari di questa casa, è così per un incidente di gioventù, è stato il “batterista bipede” così lui si definisce.

𝑨𝒄𝒄𝒊𝒅𝒆𝒏𝒕𝒊, 𝒑𝒐𝒗𝒆𝒓𝒆𝒕𝒕𝒐, 𝒃𝒂𝒕𝒕𝒆𝒓𝒊𝒔𝒕𝒂 𝒔𝒆𝒏𝒛𝒂 𝒍’𝒖𝒔𝒐 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒆 𝒈𝒂𝒎𝒃𝒆!

Ma lui suona di tutto, non era limitato ad un solo strumento, e comunque ne aveva uno che era inconfondibile: la voce. Intorno a lui e in questa casa si sono trovati molti amici nei primi anni ’60, sai? I pellegrini che hanno iniziato questo itinerario, senza sapere di averlo tracciato però.

𝑮𝒊𝒂̀, 𝒍𝒆 𝒄𝒐𝒔𝒆 𝒊𝒎𝒑𝒓𝒐𝒗𝒗𝒊𝒔𝒂𝒕𝒆 𝒂 𝒗𝒐𝒍𝒕𝒆 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒒𝒖𝒆𝒍𝒍𝒆 𝒄𝒉𝒆 𝒓𝒊𝒆𝒔𝒄𝒐𝒏𝒐 𝒎𝒆𝒈𝒍𝒊𝒐. 𝑴𝒂 𝒄𝒐𝒎𝒆 𝒔𝒊 𝒄𝒉𝒊𝒂𝒎𝒂?

𝐑𝐨𝐛𝐞𝐫𝐭 𝐖𝐲𝐚𝐭𝐭, e c’era un amico di scuola con lui un tale 𝐇𝐮𝐠𝐡 𝐇𝐨𝐩𝐩𝐞𝐫 che suonava il basso.

𝑴𝒐𝒓𝒕𝒐 𝒆𝒉? 𝑵𝒆 𝒑𝒂𝒓𝒍𝒊 𝒂𝒍 𝒑𝒂𝒔𝒔𝒂𝒕𝒐.

Eh sì, nel 2009. Lui Wyatt e 𝐌𝐢𝐤𝐞 𝐑𝐚𝐭𝐥𝐞𝐝𝐠𝐞 formeranno i 𝐒𝐨𝐟𝐭 𝐌𝐚𝐜𝐡𝐢𝐧𝐞.

...𝑵𝒐𝒏 𝒆̀ 𝒊𝒍 𝒕𝒊𝒕𝒐𝒍𝒐 𝒅𝒊 𝒖𝒏 𝒓𝒐𝒎𝒂𝒏𝒛𝒐 𝒅𝒊...𝒂𝒔𝒑𝒆𝒕𝒕𝒂 𝒏𝒐𝒏 𝒎𝒊 𝒗𝒊𝒆𝒏𝒆...

𝐖𝐢𝐥𝐥𝐢𝐚𝐦 𝐁𝐮𝐫𝐫𝐨𝐮𝐠𝐡𝐬! Vedi che la letteratura in qualche modo c’entra? Ma c’era un altro con loro si chiamava 𝐊𝐞𝐯𝐢𝐧 𝐀𝐲𝐞𝐫𝐬, era un chitarrista e avrebbe dovuto esserci un altro ancora...ecco vedi quello vestito da mago Merlino?

𝑺𝒊̀, 𝒕𝒊𝒑𝒐 𝒄𝒖𝒓𝒊𝒐𝒔𝒐!

Certo, sai di quelli un poco pazzi, senza i quali forse alcune cose sarebbero un poco noiose, arrivava dall’Australia si chiamava 𝐃𝐚𝐞𝐯𝐢𝐝 𝐀𝐥𝐥𝐞𝐧, per una storia di passaporto non è arrivato in tempo quando la Macchina Morbida si è formata ma lui non si è scoraggiato e ha fondato i 𝐆𝐨𝐧𝐠...

𝑴𝒐𝒓𝒕𝒊 𝒂𝒏𝒄𝒉𝒆 𝒍𝒐𝒓𝒐 𝒆𝒉?...𝑴𝒂 𝒄𝒉𝒆 𝒓𝒂𝒛𝒛𝒂 𝒅𝒊 𝒅𝒓𝒐𝒏𝒆 𝒄𝒊 𝒔𝒕𝒂 𝒈𝒊𝒓𝒂𝒏𝒅𝒐 𝒔𝒖𝒍𝒍𝒂 𝒕𝒆𝒔𝒕𝒂?

...Oh, quello! non è un drone è una Teiera Volante, arriva da un altro pianeta: il pianeta Gong appunto, da lì trasmette Radio Gnome Invisible.

𝑪𝒊 𝒎𝒂𝒏𝒄𝒂𝒏𝒐 𝒑𝒖𝒓𝒆 𝒈𝒍𝒊 𝒂𝒍𝒊𝒆𝒏𝒊.

Ma non sono gli omini verdi, sono i 𝑅𝑒𝑑 𝐻𝑜𝑡 𝑃𝑖𝑥𝑖𝑒𝑠, forse Allen era uno di loro, un extraterrestre appunto.

𝑬𝒓𝒂 𝒑𝒂𝒓𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒅𝒆𝒍𝒍’𝒂𝒕𝒕𝒐𝒓𝒆-𝒓𝒆𝒈𝒊𝒔𝒕𝒂?

No ma vedi, come lui era un poco stralunato: non devi appartenere del tutto a questa Terra se vuoi uscire dal seminato e in quella casa un poco alieni lo erano.

𝑴𝒂 𝒈𝒖𝒂𝒓𝒅𝒂 𝒒𝒖𝒊 𝒄𝒉𝒆 𝒈𝒊𝒂𝒓𝒅𝒊𝒏𝒐 𝒉𝒂 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒂 𝒄𝒂𝒔𝒂 𝒆 𝒄𝒉𝒆 𝒇𝒊𝒐𝒓𝒊!

Vedi, hanno lasciato tracce variopinte, prima di 𝑆𝑜𝑓𝑡 𝑀𝑎𝑐ℎ𝑖𝑛𝑒 si chiamavano 𝐖𝐢𝐥𝐝 𝐅𝐥𝐨𝐰𝐞𝐫𝐬, Fiori Selvaggi, hanno seminato proprio qui e ancora i loro semi fioriscono, e fioriscono proprio in Italia anche se sono conosciuti da una nicchia di persone, ti cito i 𝐖𝐢𝐬𝐭𝐨𝐧𝐬 𝐢 𝐌𝐨𝐨𝐠𝐠, 𝐅𝐚𝐛𝐢𝐨 𝐙𝐮𝐟𝐟𝐚𝐧𝐭𝐢 solista, gli 𝐇𝐨𝐦𝐮𝐧𝐜𝐮𝐥𝐮𝐬 𝐑𝐞𝐱...solo per dirne alcuni.

.𝑴𝒂𝒊 𝒔𝒆𝒏𝒕𝒊𝒕𝒊 𝒏𝒐𝒎𝒊𝒏𝒂𝒓𝒆.

Non mi stupisce e magari fra cent’anni nessuno più li conoscerà, succede in tutti i campi. Nella musica conosciamo tutti Beethoven, Mozart e pochi altri, ma esiste un lungo corteo di musicisti che solo gli appassionati o gli esperti conoscono, così sarà per loro...forse, o forse no. Comunque per tornare a noi, non tutto è un idillio come sai e dopo quattro album i Soft Machine, in maniera non molto soft per la verità, allontanano Wyatt, e diventeranno un gruppo un poco differente, ma sempre qui sarà il loro sguardo.

𝑨𝒄𝒄𝒊𝒅𝒆𝒏𝒕𝒊, 𝒂𝒅𝒅𝒊𝒓𝒊𝒕𝒕𝒖𝒓𝒂 𝒔𝒄𝒂𝒄𝒄𝒊𝒂𝒕𝒐, 𝒆 𝒑𝒆𝒓𝒄𝒉𝒆́ 𝒎𝒂𝒊?

Divergenze musicali, non accettavano più il suo modo di cantare, sì, lui si sentirà tradito ma formerà subito una sua band e la battezzerà Matching Mole, storpiando il nome con il francese 𝐌𝐚𝐭𝐜𝐡𝐢𝐧𝐠 𝐌𝐨𝐥𝐞, Macchina Morbida e mole è anche la talpa, animale che vive sotto terra.

𝑬 𝒂𝒍𝒍’𝒆𝒑𝒐𝒄𝒂 𝒔𝒖𝒐𝒏𝒂𝒗𝒂 𝒂𝒏𝒄𝒐𝒓𝒂 𝒍𝒂 𝒃𝒂𝒕𝒕𝒆𝒓𝒊𝒂?

Certo, l’incidente sarebbe successo di lì a poco. Ma vieni facciamo un giro attorno alla casa. Questo è successo durante tutti o quasi gli anni ’60 e per buona parte dei ’70: scorrevano tante cose nel mondo, stava cambiando molto ed è stato come se loro avessero cavalcato il cambiamento a modo loro, intendo tutti gli artisti che intorno a questa cittadina hanno orbitato, e chi a questo sound si ispirava: cambiavano a modo loro, prendi questi che stiamo ascoltando...li senti?

𝑺𝒐𝒏𝒐 𝒔𝒕𝒓𝒂𝒏𝒊, 𝒔𝒊̀.

Si chiamano 𝐄𝐠𝐠 prima erano gli 𝐔𝐫𝐢𝐞𝐥 e purtroppo non ci hanno lasciato nulla in eredità. Sono poi diventati gli 𝐀𝐫𝐳𝐚𝐜𝐡𝐞𝐥 sono entrati in studio e hanno inciso un unico disco folle, solo quello, poi il chitarrista 𝐒𝐭𝐞𝐯𝐞 𝐇𝐢𝐥𝐥𝐚𝐠𝐞 se ne è andato e sono rimasti in tre... Perché ti fermi?

𝑨𝒄𝒄𝒊𝒅𝒆𝒏𝒕𝒊, 𝒎𝒂 𝒏𝒐𝒏 𝒗𝒆𝒅𝒊? 𝑬’ 𝒖𝒏 𝒑𝒂𝒆𝒔𝒂𝒈𝒈𝒊𝒐 𝒔𝒕𝒓𝒂𝒏𝒐....𝒃𝒆𝒍𝒍𝒊𝒔𝒔𝒊𝒎𝒐, 𝒒𝒖𝒊 𝒕𝒖𝒕𝒕𝒐 𝒄𝒂𝒎𝒃𝒊𝒂 𝒅𝒐𝒑𝒐 𝒑𝒐𝒄𝒉𝒊 𝒑𝒂𝒔𝒔𝒊...𝒈𝒖𝒂𝒓𝒅𝒂 𝒄𝒉𝒆 𝒄𝒐𝒍𝒐𝒓𝒊! 𝑬’ 𝒕𝒖𝒕𝒕𝒐 𝒈𝒓𝒊𝒈𝒊𝒐 𝒆 𝒓𝒐𝒔𝒂...

Benvenuto nella 𝐓𝐞𝐫𝐫𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐆𝐫𝐢𝐠𝐢𝐨 𝐞 𝐝𝐞𝐥 𝐑𝐨𝐬𝐚.

𝑵𝒐𝒏 𝒎𝒊 𝒔𝒆𝒎𝒃𝒓𝒂𝒏𝒐 𝒈𝒍𝒊 𝒔𝒕𝒆𝒔𝒔𝒊 𝒄𝒉𝒆 𝒔𝒕𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒂𝒔𝒄𝒐𝒍𝒕𝒂𝒏𝒅𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒉𝒂𝒏𝒏𝒐 𝒄𝒓𝒆𝒂𝒕𝒐 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒊 𝒄𝒐𝒍𝒐𝒓𝒊...𝒑𝒆𝒓𝒐̀ 𝒑𝒐𝒕𝒓𝒆𝒃𝒃𝒆𝒓𝒐 𝒆𝒔𝒔𝒆𝒓𝒆.

No, non sono gli 𝐄𝐠𝐠, loro senti? sono più rarefatti, sciolgono i suoni in ondate quasi psichedeliche, potrebbero creare macchie di colore, spruzzi variopinti, no questi sono...eccoli, li vedi laggiù?

𝑽𝒆𝒅𝒐 𝒔𝒐𝒍𝒐 𝒖𝒏 𝒇𝒖𝒓𝒈𝒐𝒏𝒆, 𝒏𝒐 𝒇𝒐𝒓𝒔𝒆 𝒆̀ 𝒖𝒏 𝒄𝒂𝒎𝒑𝒆𝒓.

Un camper, e loro sono sopra, si chiamano 𝐂𝐚𝐫𝐚𝐯𝐚𝐧, appunto.

𝑴𝒊 𝒔𝒆𝒎𝒃𝒓𝒂 𝒒𝒖𝒂𝒔𝒊 𝒅𝒊 𝒆𝒔𝒔𝒆𝒓𝒆...𝒉𝒂𝒊 𝒑𝒓𝒆𝒔𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒒𝒖𝒆𝒍 𝒇𝒊𝒍𝒎 𝒄𝒐𝒏 𝑹𝒐𝒃𝒊𝒏 𝑾𝒊𝒍𝒍𝒊𝒂𝒎𝒔? 𝑨𝒍 𝒅𝒊 𝒍𝒂̀ 𝒅𝒆𝒊 𝒔𝒐𝒈𝒏𝒊.

Bravo, hai ragione, i colori però qui sono tenui, pastellati.

𝑬’ 𝒖𝒏 𝒎𝒐𝒏𝒅𝒐 𝒃𝒊𝒄𝒓𝒐𝒎𝒂𝒕𝒊𝒄𝒐.

Vero, ma sai quante sfumature di grigio esistono?...Non alludo al libro non guardarmi così...e quante sfumature di rosa, il rosa è un colore che può crescere nel rosso. I Caravan hanno pennellato gradazioni diverse di queste due tinte: il rosa che è leggero, mi viene da dire femminile ma per parità di genere non lo dirò, ma può variare nel carminio che è rosso scarlatto, o impallidirsi fino quasi al bianco e qui può incontrare il grigio pallido, può scurirsi. Il grigio non è tanto un colore quanto un variare della luce, la luce che smette di essere respinta totalmente e restituisce sfumature sempre più scure, viene assorbita, fino al nero ma i Caravan non arrivano mai a questo limite, nessuno di loro “canterburyani” arriva mai a questo limite: una certa leggerezza e ironia surreale che non è mai risata sguaiata, e una certa malinconica tristezza che non è mai disperazione o visione negativa.

𝑴𝒂 𝒒𝒖𝒆𝒍 𝒔𝒊𝒈𝒏𝒐𝒓𝒆 𝒍𝒂𝒈𝒈𝒊𝒖̀ 𝒊𝒏 𝒄𝒂𝒓𝒓𝒐𝒛𝒛𝒆𝒍𝒍𝒂? 𝑵𝒐𝒏 𝒄𝒓𝒆𝒅𝒐 𝒔𝒊𝒂 𝒄𝒐𝒔𝒊̀ 𝒕𝒂𝒏𝒕𝒐 “𝒍𝒆𝒈𝒈𝒆𝒓𝒐”!

Ti sbagli, lui è simbolo di tenacia e di adattamento alle circostanze, di cambiamento. Certamente ha avuto i suoi momenti neri, e li avrà tutt’ora. Lui è sempre stato attivo musicalmente e comunque una certa dose di ironia non lo ha mai abbandonato e la sua musica non è mai stata “dogmatica”.

𝑫𝒐𝒈𝒎𝒂𝒕𝒊𝒄𝒂, 𝒄𝒉𝒆 𝒑𝒂𝒓𝒐𝒍𝒐𝒏𝒂! 𝑻𝒊 𝒔𝒆𝒎𝒃𝒓𝒂 𝒔𝒊 𝒑𝒐𝒔𝒔𝒂 𝒖𝒔𝒂𝒓𝒆 𝒑𝒆𝒓 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒎𝒖𝒔𝒊𝒄𝒂?

Sì, hai ragione, non è pertinente, ma mi è venuta in mente un’orchestra che esegue un brano scritto: è guidata da un direttore che dal podio la dirige, ogni strumentista deve fare quello che lui esige si faccia, ogni musicista deve conformarsi alla sua interpretazione, tra questi musicisti non funziona così, non in modo così rigido per lo meno: qui può esserci un via vai e ognuno porta con sé la propria interpretazione.

𝑴𝒂... 𝒗𝒆𝒅𝒐 𝒍𝒂𝒈𝒈𝒊𝒖̀ 𝒅𝒆𝒊 𝒄𝒂𝒎𝒎𝒆𝒍𝒍𝒊, 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒂 𝒕𝒆𝒓𝒓𝒂 𝒏𝒐𝒏 𝒆̀ 𝒖𝒏 𝒅𝒆𝒔𝒆𝒓𝒕𝒐... 𝒄𝒉𝒆 𝒔𝒊𝒈𝒏𝒊𝒇𝒊𝒄𝒂?

E’ il loro simbolo sono i 𝐂𝐚𝐦𝐞𝐥, non sono di Canterbury ma è come se lo fossero, lo spirito è quello. Si sono ispirati per il loro terzo album ad un romanzo di uno scrittore americano 𝐏𝐚𝐮𝐥 𝐆𝐚𝐥𝐥𝐢𝐜𝐨, nell’album precedente, 𝐌𝐢𝐫𝐚𝐠𝐞, si sono ispirati in parte a 𝐼𝑙 𝑆𝑖𝑔𝑛𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑒𝑔𝑙𝑖 𝐴𝑛𝑒𝑙𝑙𝑖...vedi che la letteratura c’entra ancora?

𝑷𝒆𝒓𝒐̀, 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒗𝒆𝒓𝒂𝒎𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒓𝒊𝒄𝒄𝒉𝒊 𝒅𝒊 𝒇𝒂𝒏𝒕𝒂𝒔𝒊𝒂 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒊 “𝒄𝒂𝒏𝒕𝒆𝒓𝒃𝒖𝒓𝒚𝒂𝒏𝒊”! 𝑺𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒏𝒆𝒍 𝒃𝒆𝒍 𝒎𝒆𝒛𝒛𝒐 𝒅𝒊 𝒖𝒏𝒂 𝒕𝒆𝒓𝒓𝒂 𝒈𝒓𝒊𝒈𝒊𝒂 𝒆 𝒓𝒐𝒔𝒂, 𝒂𝒏𝒄𝒉𝒆 𝒊𝒍 𝒄𝒊𝒆𝒍𝒐 𝒆̀ 𝒓𝒐𝒔𝒂, 𝒄𝒊 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒆 𝒄𝒂𝒔𝒆𝒕𝒕𝒆 𝒄𝒐𝒏 𝒊𝒍 𝒕𝒆𝒕𝒕𝒐 𝒂 𝒑𝒖𝒏𝒕𝒂 𝒆 𝒍𝒆 𝒎𝒐𝒏𝒕𝒂𝒈𝒏𝒆 𝒍𝒐𝒏𝒕𝒂𝒏𝒐; 𝒔𝒐𝒑𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝒏𝒐𝒊 𝒗𝒐𝒍𝒂𝒏𝒐 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒆 𝒕𝒆𝒊𝒆𝒓𝒆 𝒆 𝒓𝒂𝒅𝒊𝒐 𝒈𝒏𝒐𝒎𝒆 𝒄𝒉𝒆 𝒕𝒓𝒂𝒔𝒎𝒆𝒕𝒕𝒆; 𝒄’𝒆̀ 𝒖𝒏 𝒄𝒂𝒎𝒑𝒆𝒓 𝒆 𝒄𝒂𝒎𝒎𝒆𝒍𝒍𝒊...𝒆 𝒒𝒖𝒆𝒍 𝒔𝒊𝒈𝒏𝒐𝒓𝒆 𝒃𝒂𝒓𝒃𝒖𝒕𝒐 𝒔𝒖𝒍𝒍𝒂 𝒄𝒂𝒓𝒓𝒐𝒛𝒛𝒊𝒏𝒂, 𝒍𝒂̀ 𝒔𝒖𝒍 𝒑𝒐𝒏𝒕𝒊𝒍𝒆 𝒄𝒉𝒆 𝒔𝒊 𝒂𝒍𝒍𝒖𝒏𝒈𝒂 𝒏𝒆𝒍 𝒍𝒂𝒈𝒉𝒆𝒕𝒕𝒐: 𝒎𝒂 𝒄𝒐𝒔𝒂 𝒈𝒍𝒊 𝒆̀ 𝒎𝒂𝒊 𝒔𝒖𝒄𝒄𝒆𝒔𝒔𝒐?

Seguimi, ce lo faremo raccontare da lui.


foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 9 ottobre 2020
(Continua nella prossima SmaniaRock)

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PARANOID
Black Sabbath  (1970)
𝑊𝑒 𝑠𝑎𝑖𝑙 𝑡ℎ𝑟𝑜𝑢𝑔ℎ 𝑒𝑛𝑑𝑙𝑒𝑠𝑠 𝑠𝑘𝑖𝑒𝑠
𝑆𝑡𝑎𝑟𝑠 𝑠ℎ𝑖𝑛𝑒 𝑙𝑖𝑘𝑒 𝑒𝑦𝑒𝑠
𝑇ℎ𝑒 𝑏𝑙𝑎𝑐𝑘 𝑛𝑖𝑔ℎ𝑡 𝑠𝑖𝑔ℎ𝑠
𝑇ℎ𝑒 𝑚𝑜𝑜𝑛 𝑖𝑛 𝑠𝑖𝑙𝑣𝑒𝑟 𝑡𝑟𝑒𝑒𝑠
𝐹𝑎𝑙𝑙𝑠 𝑑𝑜𝑤𝑛 𝑖𝑛 𝑡𝑒𝑎𝑟𝑠
𝐿𝑖𝑔ℎ𝑡 𝑜𝑓 𝑡ℎ𝑒 𝑛𝑖𝑔ℎ𝑡
𝑇ℎ𝑒 𝑒𝑎𝑟𝑡ℎ, 𝑎 𝑝𝑢𝑟𝑝𝑙𝑒 𝑏𝑙𝑎𝑧𝑒
𝑂𝑓 𝑠𝑎𝑝𝑝ℎ𝑖𝑟𝑒 ℎ𝑎𝑧𝑒
𝐼𝑛 𝑜𝑟𝑏𝑖𝑡 𝑎𝑙𝑤𝑎𝑦𝑠
𝑊ℎ𝑖𝑙𝑒 𝑑𝑜𝑤𝑛 𝑏𝑒𝑙𝑜𝑤 𝑡ℎ𝑒 𝑡𝑟𝑒𝑒𝑠
𝐵𝑎𝑡ℎ𝑒𝑑 𝑖𝑛 𝑐𝑜𝑜𝑙 𝑏𝑟𝑒𝑒𝑧𝑒
𝑆𝑖𝑙𝑣𝑒𝑟 𝑠𝑡𝑎𝑟𝑙𝑖𝑔ℎ𝑡 𝑏𝑟𝑒𝑎𝑘𝑠 𝑑𝑜𝑤𝑛 𝑓𝑟𝑜𝑚 𝑛𝑖𝑔ℎ𝑡
𝐴𝑛𝑑 𝑠𝑜 𝑤𝑒 𝑝𝑎𝑠𝑠 𝑜𝑛 𝑏𝑦 𝑡ℎ𝑒 𝑐𝑟𝑖𝑚𝑠𝑜𝑛 𝑒𝑦𝑒
𝑂𝑓 𝑔𝑟𝑒𝑎𝑡 𝑔𝑜𝑑 𝑚𝑎𝑟𝑠
𝐴𝑠 𝑤𝑒 𝑡𝑟𝑎𝑣𝑒𝑙 𝑡ℎ𝑒 𝑢𝑛𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑒
(𝑃𝑙𝑎𝑛𝑒𝑡 𝐶𝑎𝑟𝑎𝑣𝑎𝑛)
Se le illusioni sono finite agli albori degli anni ’70, è vero che i 𝐁𝐥𝐚𝐜𝐤 𝐒𝐚𝐛𝐛𝐚𝐭𝐡 rappresentano la catastrofe: sia il buio, sia la notte! Dall’area operaia di Birmingham irrompono con un incedere dark: 𝐎𝐳𝐳𝐲 𝐎𝐬𝐛𝐨𝐮𝐫𝐧𝐞 (𝐯𝐨𝐜𝐞), 𝐓𝐨𝐧𝐲 𝐈𝐨𝐦𝐦𝐲 (𝐜𝐡𝐢𝐭𝐚𝐫𝐫𝐚), 𝐓𝐞𝐫𝐫𝐲 “𝐆𝐞𝐞𝐳𝐞𝐫” 𝐁𝐮𝐭𝐥𝐞𝐫 (𝐛𝐚𝐬𝐬𝐨), 𝐁𝐢𝐥𝐥 𝐖𝐚𝐫𝐝 (𝐛𝐚𝐭𝐭𝐞𝐫𝐢𝐚).
Siamo in 𝐏𝐚𝐫𝐚𝐧𝐨𝐢𝐝: il rock conosce, inventa il suo lato più oscuro, al giorno segue ovviamente la notte, è un luogo comune ma le mille anime di questa musica seguono in modo coraggioso sentieri poco battuti. Alle chitarre acide seguono e si affiancano sonorità dure e scure, non c’è volontà redimitrice.
𝑾𝒂𝒓 𝑷𝒊𝒈𝒔 apre le danze con un’invettiva contro la guerra paragonando generali guerrafondai a streghe con le loro messe nere, a stregoni costruttori di morte: con un simile inizio, annunciato da un riff potente e scuro, come si può ignorare che l’epoca dei fiori è finita? Già il nome della band annuncia la calata in un mondo infernale dove le forze del male avanzano nella penombra. I politici si nascondono, lasciano i poveri a combattere, nell’oscurità il mondo smette di girare: è il giorno del giudizio, Dio chiama. Non si pensi che qui inizi un’epoca di redenzione perché Satana ridendo spiega le ali. Siamo avvolti nella notte senza speranza.
“𝐻𝑜 𝑟𝑜𝑡𝑡𝑜 𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑑𝑜𝑛𝑛𝑎 𝑝𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́ 𝑛𝑜𝑛 𝑚𝑖 𝑎𝑖𝑢𝑡𝑎, 𝑛𝑜𝑛 𝑚𝑖 𝑎𝑙𝑙𝑒𝑔𝑔𝑒𝑟𝑖𝑠𝑐𝑒 𝑙𝑎 𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒, 𝑛𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑖 𝑠𝑜𝑑𝑑𝑖𝑠𝑓𝑎, 𝑛𝑜𝑛 𝑝𝑟𝑜𝑣𝑜 𝑓𝑒𝑙𝑖𝑐𝑖𝑡𝑎̀, 𝑙’𝑎𝑚𝑜𝑟𝑒 𝑒̀ 𝑠𝑢𝑟𝑟𝑒𝑎𝑙𝑒, 𝑐𝑒𝑟𝑐𝑜 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑐𝑢𝑛𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑎𝑝𝑝𝑖𝑎 𝑚𝑜𝑠𝑡𝑟𝑎𝑟𝑚𝑖 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑜 𝑡𝑟𝑜𝑣𝑎𝑟𝑒.”
E’ 𝐏𝐚𝐫𝐚𝐧𝐨𝐢𝐝 che sto liberamente citando, il brano più conosciuto forse dei Black Sabbath, il brano che vede l’individuo disfatto e inerte brancolare privo di felicità. Il riff saltella, incalza convulso, singhiozzante come l’essere smarrito nelle proprie nevrosi. Se i porci della guerra ci spingono alla distruzione, l’unica fuga è nella follia, nel terrore. La paranoia è la paura degli altri, il paranoico vede l’altro come nemico, qualcuno pronto a ferire, a fare del male. La voce di Osbourne è piena di orrore, credo sia il cantante che meglio ha espresso l’angoscia, vibra dalle sue corde vocali una richiesta di aiuto: non urla, non ne ha bisogno, l’angoscia non grida, rimane come strozzata, si esprime senza mai esplodere, senza deflagrare come anzi fosse sul punto di implodere.
“𝑁𝑎𝑣𝑖𝑔ℎ𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑖𝑛 𝑐𝑖𝑒𝑙𝑖 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑓𝑖𝑛𝑒”𝑷𝒍𝒂𝒏𝒆𝒕 𝑪𝒂𝒓𝒂𝒗𝒂𝒏 (posso dire che è uno dei più bei brani che ho mai ascoltato? Che rinnova ad ogni ascolto impalpabili sensazioni?) sa nuotare in un’atmosfera pacata e inquietante nella sua apparente levigatezza, un episodio che spinge su rotte sconosciute fatte di un ritmo su bonghi e una chitarra che naviga lungo scie oscure.
“𝐿𝑎 𝑙𝑢𝑛𝑎 𝑐𝑎𝑑𝑒 𝑖𝑛 𝑙𝑎𝑐𝑟𝑖𝑚𝑒, 𝑙𝑎 𝑇𝑒𝑟𝑟𝑎 𝑒̀ 𝑢𝑛 𝑏𝑎𝑔𝑙𝑖𝑜𝑟𝑒 𝑣𝑖𝑜𝑙𝑎 𝑖𝑛 𝑓𝑜𝑠𝑐ℎ𝑖𝑎 𝑐𝑜𝑙𝑜𝑟 𝑧𝑎𝑓𝑓𝑖𝑟𝑜, 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑖𝑛 𝑜𝑟𝑏𝑖𝑡𝑎.”
Qui non sembrano i Black Sabbath, qui l’atmosfera si colora di tinte fantastiche, luci tenui che brillano nella notte, si passa oltre l’occhio cremisi del grande dio Marte. C’è qui un paganesimo velato, come si accendessero gli altari sacrificali dopo millenni. Gli dei vorrebbero rinascere in questo sabba maledetto: il pezzo respira nostalgia senza tempo: tacciono i riff e si sciolgono in armonie distese e ti chiedi come questi “grezzi” inventori di messe nere, questi inquietanti maghi degli abissi, così prossimi a tirare la coda a Satana, possano avere modellato un pezzo così soave e leggero, evocatore di oscuri vagabondaggi tra le stelle.
𝑰𝒓𝒐𝒏 𝑴𝒂𝒏 ci riporta nei gironi infuocati, annunciandosi con colpi di grancassa, una voce metallica e un riff duro, incisivo. L’uomo di ferro ci dice che solo corazzandoci possiamo sfondare i muri o reggere agli attacchi, l’uomo escluso che cerca vendetta parte alla carica in un assolo metallico come la sua armatura. Una serie di interrogativi ci fanno tornare nella follia:
“𝐻𝑎 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜 𝑙𝑎 𝑡𝑒𝑠𝑡𝑎? 𝑃𝑢𝑜̀ 𝑣𝑒𝑑𝑒𝑟𝑒 𝑜 𝑒̀ 𝑐𝑖𝑒𝑐𝑜? 𝑃𝑢𝑜̀ 𝑐𝑎𝑚𝑚𝑖𝑛𝑎𝑟𝑒? 𝐸’ 𝑣𝑖𝑣𝑜 𝑜 𝑒̀ 𝑚𝑜𝑟𝑡𝑜?”
Una serie di dubbi finché apprendiamo che
“𝑒̀ 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑜 𝑡𝑟𝑎𝑠𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎𝑡𝑜 𝑖𝑛 𝑎𝑐𝑐𝑖𝑎𝑖𝑜/𝑛𝑒𝑙 𝑔𝑟𝑎𝑛𝑑𝑒 𝑐𝑎𝑚𝑝𝑜 𝑚𝑎𝑔𝑛𝑒𝑡𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑜𝑣𝑒 ℎ𝑎 𝑣𝑖𝑎𝑔𝑔𝑖𝑎𝑡𝑜 𝑛𝑒𝑙/𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑖𝑙 𝑓𝑢𝑡𝑢𝑟𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙’𝑢𝑚𝑎𝑛𝑖𝑡𝑎̀.”
Un salvatore globale, un robot indistruttibile che uccide chi un tempo ha salvato, uno che tutti ignorano, che nessuno aiuta. Il Golem, il mito di Frankenstein, di chi viene ripudiato dai suoi stessi creatori, un reietto.
Con incedere lento e pesante 𝑬𝒍𝒆𝒄𝒕𝒓𝒊𝒄 𝑭𝒖𝒏𝒆𝒓𝒂𝒍 vede larve umane seguire il feretro del mondo distrutto dalla catastrofe atomica: non esiste scampo né speranza solo una metamorfosi trasforma le persone in argilla, qui invertendo la creazione che dall’argilla ha formato l’uomo, il percorso a ritroso porta alla distruzione. C’è una religiosità invertita che porta al satanismo, vediamo qui il re degli inferi imperare, ma non è un inno al suo potere come negli sviluppi successivi di questo genere alcune band hanno ostentato, piuttosto sembra un monito, un terrore diffuso senza indulgenza verso il genio del male. I Black Sabbath non ci prospettano un futuro prossimo: ci conducono in un esistente, la catastrofe è già avvenuta, è qui senza via di scampo, stiamo seguendo un corteo, il riff ci accompagna ossessivo, si dissolve sempre uguale e ci vediamo allontanarci sempre più verso il cimitero del nostro futuro.
La mano del destino (𝑯𝒂𝒏𝒅 𝒐𝒇 𝑫𝒐𝒐𝒎) passa attraverso gli ammonimenti a un consumatore di sostanze stupefacenti.
“𝐷𝑒𝑣𝑖 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑐𝑖𝑒𝑐𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑓𝑎𝑟𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑑𝑒𝑙 𝑔𝑒𝑛𝑒𝑟𝑒”
Un basso segue cupo l’incedere del cantato che equipara il napalm, la bomba, all’ago che penetra la carne offrendo una fuga dalla vita. L’assolo ci accompagna con una batteria che scandisce con enfasi note allucinate,
“𝑃𝑒𝑟 𝑐𝑎𝑑𝑒𝑟𝑒 𝑛𝑒𝑙 𝑠𝑜𝑛𝑛𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑐𝑜𝑛𝑜𝑠𝑐𝑖, 𝑝𝑖𝑐𝑐𝑜𝑙𝑜 𝑖𝑑𝑖𝑜𝑡𝑎...𝑡𝑖 𝑟𝑖𝑚𝑎𝑛𝑒 𝑝𝑜𝑐𝑜 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜/𝑞𝑢𝑖𝑛𝑑𝑖 𝑙𝑎𝑠𝑐𝑖𝑎 𝑐𝑎𝑑𝑒𝑟𝑒 𝑙’𝑎𝑐𝑖𝑑𝑜”.
Sembra incoerente che in un’epoca dove la droga circolava liberamente, e da una band che la leggenda vuole aver fatto notizia anche per esuberanze dovute ad uso di sostanze illecite, provenga un simile monito, eppure forse è la voce della saggezza che parla, è una consapevolezza che porta a pochi passi dalla morte perché
“𝑠𝑡𝑎𝑖 𝑣𝑖𝑣𝑒𝑛𝑑𝑜 𝑡𝑟𝑜𝑝𝑝𝑜 𝑖𝑛 𝑓𝑟𝑒𝑡𝑡𝑎”.
Anche qui viene paventata una metamorfosi
“𝐿𝑎 𝑡𝑢𝑎 𝑝𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑖𝑛𝑐𝑜𝑚𝑖𝑛𝑐𝑖𝑎 𝑎 𝑑𝑖𝑣𝑒𝑛𝑡𝑎𝑟𝑒 𝑣𝑒𝑟𝑑𝑒”
non un cambiamento ma una mutazione in peggio.
𝑭𝒂𝒊𝒓𝒊𝒆𝒔 𝒘𝒆𝒂𝒓 𝒃𝒐𝒐𝒕𝒔 che chiude dopo 𝑹𝒂𝒕 𝒔𝒂𝒍𝒂𝒅, veloce pezzo strumentale che offre lo spunto per divagazioni di batteria, ci riporta in visioni stralunate: “fate con gli stivali...che ballano con un nano...devi credermi”, che arrivano dopo un preludio e un’atmosfera meno cupa e claustrofobica. Qui si ribalta la visione di 𝑯𝒂𝒏𝒅 𝒐𝒇 𝑫𝒐𝒐𝒎:
𝐶𝑜𝑠𝑖̀ 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑎𝑛𝑑𝑎𝑡𝑜 𝑑𝑎𝑙 𝑑𝑜𝑡𝑡𝑜𝑟𝑒...𝑒 𝑚𝑖 ℎ𝑎 𝑑𝑒𝑡𝑡𝑜, 𝑓𝑖𝑔𝑙𝑖𝑜 𝑠𝑒𝑖 𝑎𝑛𝑑𝑎𝑡𝑜 𝑡𝑟𝑜𝑝𝑝𝑜 𝑙𝑜𝑛𝑡𝑎𝑛𝑜/𝑝𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́ 𝑓𝑢𝑚𝑎𝑟𝑒 𝑒 𝑑𝑟𝑜𝑔𝑎𝑟𝑡𝑖 𝑒̀ 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑐𝑖𝑜̀ 𝑐ℎ𝑒 𝑓𝑎𝑖”.
Quindi i Black Sabbath ci stanno prendendo in giro? La visione virtuosa e drammatica si trasforma in un cambio di prospettiva che sembra beffeggiare quanto detto prima. Il disco si conclude senza una via d’uscita, che d’altronde neppure ci aspettavamo date le premesse, siamo consapevoli di cosa sta succedendo tuttavia la nostra strada conduce verso il disastro e verso il disastro marciamo anche se consapevoli della distruzione prossima ventura.
Se l’uso di droga, per quanto si possa disapprovare e discutere sulla sua liceità, per una certa cultura underground era un mezzo per allargare la mente, per raggiungere stati di maggiore consapevolezza, qui rivela uno stato di malattia: non è la mente ma il corpo che muta e non certo in meglio; le fate con gli stivali non vivono nel variegato e favolistico mondo di Alice, come cantavano i 𝐉𝐞𝐟𝐟𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧 𝐀𝐢𝐫𝐩𝐥𝐚𝐧𝐞 in 𝑾𝒉𝒊𝒕𝒆 𝑹𝒂𝒃𝒃𝒊𝒕 poco più di tre anni prima, incoraggiandoti a “𝑁𝑢𝑡𝑟𝑖𝑟𝑒 𝑙𝑎 𝑡𝑢𝑎 𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒", ma una presenza ossessiva che viene vista attraverso una finestra, non vissuta, e che necessita di essere rimarcata ribadendo ad una terza persona la propria sincerità. Qui la mente non viene nutrita, allargata ma chiusa in una morsa di follia senza scampo, come non c’è scampo dall’𝑈𝑜𝑚𝑜 𝑑𝑖 𝑓𝑒𝑟𝑟𝑜” che ci insegue con “𝑝𝑒𝑠𝑎𝑛𝑡𝑖 𝑠𝑡𝑖𝑣𝑎𝑙𝑖 𝑑𝑖 𝑝𝑖𝑜𝑚𝑏𝑜” o dagli 𝑒𝑑𝑖𝑓𝑖𝑐𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑖 𝑠𝑐ℎ𝑖𝑎𝑛𝑡𝑎𝑛𝑜 𝑠𝑢 𝑢𝑛 𝑡𝑒𝑟𝑟𝑒𝑛𝑜 𝑠𝑝𝑎𝑐𝑐𝑎𝑡𝑜, 𝑑𝑎𝑖 𝑓𝑖𝑢𝑚𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑖 𝑡𝑟𝑎𝑠𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎𝑛𝑜 𝑖𝑛 𝑙𝑒𝑔𝑛𝑜...𝑑𝑎𝑙𝑙𝑒 𝑛𝑢𝑣𝑜𝑙𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑝𝑖𝑎𝑛𝑔𝑜𝑛𝑜 𝑎𝑐𝑞𝑢𝑎 𝑚𝑜𝑟𝑡𝑎”.
I Black Sabbath di Paranoid sono la presa di coscienza cupa e solenne di un fondo di impotenza, di malattia. Paranoid volge lo sguardo nell’intimo, ci lascia storditi perché fa appello a un lato recondito e sconosciuto dell’io.
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foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 2 ottobre 2020
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𝐁𝐋𝐎𝐖𝐒 𝐀𝐆𝐀𝐈𝐍𝐒𝐓 𝐓𝐇𝐄 𝐄𝐌𝐏𝐈𝐑𝐄
𝐏𝐚𝐮𝐥 𝐊𝐚𝐧𝐭𝐧𝐞𝐫  (1970)
“𝑀𝑎𝑛𝑘𝑖𝑛𝑑 𝑔𝑜𝑛𝑒 𝑓𝑟𝑜𝑚 𝑡ℎ𝑒 𝑐𝑎𝑔𝑒
𝐴𝑙𝑙 𝑡ℎ𝑒 𝑦𝑒𝑎𝑟𝑠 𝑔𝑜𝑛𝑒 𝑓𝑟𝑜𝑚 𝑦𝑜𝑢𝑟 𝑎𝑔𝑒
𝐴𝑡 𝑓𝑖𝑟𝑠𝑡
𝐼 𝑤𝑎𝑠 𝑖𝑟𝑟𝑖𝑑𝑒𝑠𝑐𝑒𝑛𝑡
𝑇ℎ𝑒𝑛
𝐼 𝑏𝑒𝑐𝑎𝑚𝑒 𝑡𝑟𝑎𝑛𝑠𝑝𝑎𝑟𝑒𝑛𝑡
𝐹𝑖𝑛𝑎𝑙𝑙𝑦
𝐼 𝑤𝑎𝑠 𝑎𝑏𝑠𝑒𝑛𝑡”
𝐏𝐚𝐮𝐥 𝐊𝐚𝐧𝐭𝐧𝐞𝐫 , chitarra ritmica e voce, membro fondatore dei 𝐉𝐞𝐟𝐟𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧 𝐀𝐢𝐫𝐩𝐥𝐚𝐧𝐞, spegne i motori dell’aeroplano per avviare l’astronave in questo progetto solista che vede per la prima volta sulla copertina il nome 𝐉𝐞𝐟𝐟𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧 𝐒𝐭𝐚𝐫𝐬𝐡𝐢𝐩, nella fattispecie 𝐏𝐚𝐮𝐥 𝐊𝐚𝐧𝐭𝐧𝐞𝐫 & 𝐉𝐞𝐟𝐟𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧 𝐒𝐭𝐚𝐫𝐬𝐡𝐢𝐩. Una raffigurazione allegorica in copertina che vede una figura abbigliata sontuosamente all’orientale a cavallo di quella che sembrerebbe un’ostrica, e una pianta dal tronco ricurvo con un uccello dalla coda vistosa e variopinta che sembra fungere da vela, una sorta di nocchiero su una nave con la vela gonfia, sembra rappresentare quel soffio che si abbatte sull’impero.
Siamo ancora nel 1970 e il lavoro vede all’opera ospiti West Coastiani come era buona prassi all’interno di quella comunità californiana che gravitava soprattutto nella San Francisco alternativa.
Messo temporaneamente nell’hangar l’𝐴𝑒𝑟𝑜𝑝𝑙𝑎𝑛𝑜 𝐽𝑒𝑓𝑓𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛, i sogni di libertà salgono sull’astronave che già lascia presagire viaggi interstellari: e di questo si tratta visto che la seconda parte del disco, che coincide con il lato B del vinile, tratta di una fuga fuori dall’orbita terrestre, e considerato che all’epoca venne anche proposta una candidatura per il prestigioso premio Hugo per la fantascienza.
Album visionario, utopistico, lanciato alla conquista di un mondo nuovo da colonizzare, esplora musicalmente un universo elettro-acustico che miscela il rock acido dei Jefferson al folk e ad una sensibilità che è prerogativa della premiata ditta californiana marchiata Jefferson.
Abbiamo parlato tempo fa di 𝐃𝐚𝐯𝐢𝐝 𝐂𝐫𝐨𝐬𝐛𝐲 e del suo ineguagliato 𝐈𝐟 𝐈 𝐂𝐨𝐮𝐥𝐝 𝐎𝐧𝐥𝐲 𝐑𝐞𝐦𝐞𝐦𝐛𝐞𝐫 𝐌𝐲 𝐍𝐚𝐦𝐞, disco coevo a questo che evocava la fine di un’era tra nostalgie, malinconiche melodie, interrogativi e enigmi, canzoni senza parole; qui si respira apparentemente un’aria diversa, qui sembra esserci uno spiraglio, l’aprirsi di un sogno che ha come fondamento principale una vita che sta per nascere e a cui si vorrebbe idealmente affidare un mondo incontaminato.
𝑨 𝑪𝒉𝒊𝒍𝒅 𝑰𝒔 𝑪𝒐𝒎𝒊𝒏𝒈, cantano Kantner e la consorte Slick al termine del primo lato (sempre avendo il vinile come riferimento), lei realmente incinta della figlia, ispiratrice forse di questa utopia, senz’altro dell’album successivo con la firma di Kantner-Slick. “𝐻𝑒 𝑔𝑒𝑡𝑡𝑖𝑛𝑔 𝑏𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟” diventerà migliore, l’utopia di un cambiamento non è morta, è più viva che mai e il tono di speranza si manifesta in un passo musicale con un cantato soave e le voci di Kantner e Slick che si contrappuntano in un botta e risposta.
“𝐶𝑜𝑠𝑎 𝑓𝑎𝑟𝑎𝑖 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑧𝑖𝑜 𝑆𝑎𝑚𝑢𝑒𝑙 𝑎𝑟𝑟𝑖𝑣𝑒𝑟𝑎̀...
𝑐𝑒𝑟𝑐𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑙’𝑖𝑚𝑝𝑟𝑜𝑛𝑡𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑢𝑎 𝑚𝑎𝑛𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑓𝑎𝑟𝑛𝑒 𝑢𝑛 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑛𝑒𝑙 𝑠𝑢𝑜 𝑔𝑖𝑜𝑐𝑜?”
Allusione alla chiamata alle armi, e all’assimilazione al sistema che tutto fagocita.
Tra i denti già un senso di ribellione che con un canto a cappella le voci di Kantner e Slick diffondono nel brano di apertura dell’album, 𝐌𝐚𝐮 𝐌𝐚𝐮 𝐀𝐦𝐞𝐫𝐢𝐤𝐨𝐧. Dopo una breve pausa, un silenzio eloquente come una cascata di note, la chitarra incalzante di Kantner accompagna il cantato che incede come una marcia, la valanga dei “𝑔𝑜𝑜𝑑 𝑓𝑜𝑙𝑘𝑠” che cala su un mondo in rovina.
E’ un’invettiva contro le vecchie generazioni e l’avvento di una nuova primavera. L’esortazione è di
“𝑀𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑙𝑒 𝑣𝑒𝑐𝑐ℎ𝑖𝑒 𝑎 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑜.
𝑀𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑖 𝑣𝑒𝑐𝑐ℎ𝑖 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑙𝑜𝑟𝑜 𝑡𝑜𝑚𝑏𝑒, 𝑡𝑜𝑔𝑙𝑖𝑒𝑟𝑠𝑖 𝑑𝑎𝑖 𝑝𝑖𝑒𝑑𝑖, 𝑡𝑎𝑝𝑝𝑎𝑟𝑒 𝑙𝑜𝑟𝑜 𝑙𝑒 𝑜𝑟𝑒𝑐𝑐ℎ𝑖𝑒 𝑒 𝑔𝑙𝑖 𝑜𝑐𝑐ℎ𝑖 𝑎𝑓𝑓𝑖𝑛𝑐ℎ𝑒́ 𝑛𝑜𝑛 𝑐𝑖 𝑜𝑑𝑎𝑛𝑜 𝑐𝑎𝑛𝑡𝑎𝑟𝑒, 𝑎𝑓𝑓𝑖𝑛𝑐ℎ𝑒́ 𝑛𝑜𝑛 𝑐𝑖 𝑣𝑒𝑑𝑎𝑛𝑜 𝑠𝑢𝑜𝑛𝑎𝑟𝑒.
𝑄𝑢𝑎𝑙𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑠𝑡𝑎 𝑐𝑎𝑙𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑠𝑢 𝑑𝑖 𝑣𝑜𝑖, 𝑏𝑎𝑙𝑙𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑣𝑜𝑠𝑡𝑟𝑒 𝑐𝑖𝑡𝑡𝑎̀.”
Le trombe del giudizio feriscono le orecchie e l’incedere sincopato della chitarra che fa da tema conduttore del brano scandisce i versi crudi, la musica è addolcita dalla chitarra solista di 𝐏𝐞𝐭𝐞𝐫 𝐊𝐚𝐮𝐤𝐨𝐧𝐞𝐧 (fratello di Jorma, storica chitarra solista dei Jefferson) che ricama negli spazi lasciati liberi dal cantato con un suono acido ma fluido nello stesso tempo. Come una nuova apocalisse, un’apocalisse laica che cala su un mondo in rovina.
“𝐿𝑜 𝑠𝑎𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑖𝑙 𝑇.𝑅𝑒𝑥 𝑒̀ 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑜 𝑑𝑖𝑠𝑡𝑟𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑑𝑎 𝑢𝑛𝑎 𝑝𝑖𝑐𝑐𝑜𝑙𝑎 𝑝𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑒𝑙𝑜𝑠𝑎 𝑠𝑡𝑟𝑖𝑠𝑐𝑖𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑔𝑖𝑢𝑛𝑔𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑜𝑟𝑑𝑖𝑎𝑙𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑟𝑢𝑏𝑎𝑣𝑎 𝑙𝑒 𝑢𝑜𝑣𝑎 𝑑𝑒𝑖 𝑑𝑖𝑛𝑜𝑠𝑎𝑢𝑟𝑖, 𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑜𝑖 𝑠𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑙𝑎𝑑𝑟𝑖 𝑑𝑖 𝑢𝑜𝑣𝑎, 𝑏𝑎𝑚𝑏𝑖𝑛𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑏𝑟𝑖𝑙𝑙𝑎𝑛𝑜 𝑎𝑙 𝑠𝑜𝑙𝑒, 𝑢𝑛 𝑔𝑟𝑢𝑝𝑝𝑜 𝑑𝑖 𝑙𝑎𝑑𝑟𝑖 𝑑𝑖 𝑑𝑖𝑎𝑚𝑎𝑛𝑡𝑖.”
Dove l’allusione all’estinzione dei grandi rettili ad opera di un meteorite è abbastanza chiara.
Kantner urla quasi: non c’è melodia, neppure chorus, la struttura di canzone non esiste, sono versi declamati nell’essenzialità e nella immediatezza del ritmo come se il rivestimento di una melodia potesse distrarre dall’importanza dell’enunciato. Si direbbe che l’opera prosegua su questo tono, con questi colori violenti e scanditi ma qui l’assalto al potere, sarà quel “𝑆𝑜𝑓𝑓𝑖𝑜 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑜 𝑙’𝑖𝑚𝑝𝑒𝑟𝑜” che senza recriminazioni, in una sorta di consapevole certezza ci condurrà verso altre galassie.
Infatti tutto si addolcisce e entriamo in una parentesi folk accompagnati dalle note di un banjo che ci narra una favola dove i bimbi cadono dagli alberi con curiosi rumori che ricordano il cadere di frutti maturi. E’ come un passaggio che ci introduce nell’esortazione all’unità: 𝑳𝒆𝒕’𝒔 𝑮𝒐 𝑻𝒐𝒈𝒆𝒕𝒉𝒆𝒓 incita all’unione in quei cantati dove i vocalizzi di Grace Slick sottolineano l’esclamazione con un imperativo "Right now!” immediatamente, senza perdere altro tempo.
“𝐷𝑖𝑐𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑎𝑑𝑑𝑖𝑜 𝑎𝑙𝑙’𝐴𝑚𝑒𝑟𝑖𝑘𝑎
𝑑𝑖𝑐𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑐𝑖𝑎𝑜 𝑎𝑙𝑙’𝐸𝑑𝑒𝑛”,
dove l’eden, “il giardino” non è più su questa terra ma oltre la galassia.
Voltiamo idealmente il disco e 𝑺𝒖𝒏𝒓𝒊𝒔𝒆 scivola su un rumore di fondo, e il cantato di Slick che saluta “𝑙’𝑢𝑜𝑚𝑜 𝑐𝑖𝑣𝑖𝑙𝑖𝑧𝑧𝑎𝑡𝑜”. “𝑆𝑒𝑖 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑜 𝑖𝑙 𝑚𝑖𝑜 𝑐𝑢𝑠𝑡𝑜𝑑𝑒...𝑜𝑟𝑎 𝑠𝑒𝑖 𝑣𝑒𝑐𝑐ℎ𝑖𝑜 𝑒 𝑔𝑟𝑖𝑔𝑖𝑜...𝑑𝑢𝑒𝑚𝑖𝑙𝑎 𝑎𝑛𝑛𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑡𝑢𝑎 𝑚𝑎𝑙𝑒𝑑𝑒𝑡𝑡𝑎 𝑔𝑙𝑜𝑟𝑖𝑎”. All’epoca era ancora possibile crearsi delle utopie, plasmare su sogni elettroacustici viaggi ai limiti del conosciuto e chiedere sul ponte di 𝑯𝒊𝒋𝒂𝒄𝒌 l’astronave: “hai visto le stelle questa notte? Ti piacerebbe andare sul ponte e guardarle con me?”
L’astronave è partita “𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑝𝑜𝑠𝑡𝑜 𝑎 𝑐𝑢𝑖 𝑡𝑢 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑎 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑎𝑟𝑒 𝑛𝑜𝑖 𝑎𝑛𝑑𝑟𝑒𝑚𝑜”, solo il pianoforte e gli accordi dell’acustica di Kantner ci accompagnano ad ammirare le stelle, una slide gentile scivola nella volta celeste e sparisce nell’iperspazio, noi viaggiamo alla stessa loro velocità con “𝑙𝑎 𝑡𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑖𝑛 𝐴𝑛𝑑𝑟𝑜𝑚𝑒𝑑𝑎”. Fuggiamo dalla gravità che ci ingabbia, lasciamo i nostri anni scivolare via: tutto diventa più facile e leggero, diventa
“𝑝𝑖𝑢̀ 𝑓𝑎𝑐𝑖𝑙𝑒 𝑡𝑜𝑐𝑐𝑎𝑟𝑡𝑖”, 𝑓𝑙𝑢𝑡𝑡𝑢𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑔𝑟𝑎𝑣𝑖𝑡𝑎̀, “𝑎𝑛𝑑𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑎𝑣𝑎𝑛𝑡𝑖 𝑒 𝑖𝑛𝑑𝑖𝑒𝑡𝑟𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑐𝑜𝑚𝑒𝑡𝑎, 𝑠𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑣𝑎𝑔𝑎𝑏𝑜𝑛𝑑𝑖....𝑎𝑙𝑙’𝑖𝑛𝑖𝑧𝑖𝑜 𝑑𝑖𝑣𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑖𝑟𝑖𝑑𝑒𝑠𝑐𝑒𝑛𝑡𝑒, 𝑝𝑜𝑖 𝑡𝑟𝑎𝑠𝑝𝑎𝑟𝑒𝑛𝑡𝑒, 𝑓𝑖𝑛𝑎𝑙𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑎𝑠𝑠𝑒𝑛𝑡𝑒.” “𝑃𝑢𝑜𝑖 𝑐𝑟𝑒𝑑𝑒𝑟𝑐𝑖?”
non è una morte, la musica si spegne, non siamo morti siamo dissolti nello spazio, siamo tornati molecole, atomi diffusi ovunque: siamo l’Universo stesso.
Il messaggio finale ci porta a farci tutt’uno con il cosmo, l’unica casa possibile è la dissoluzione. Dobbiamo quindi pensare che non esiste speranza? Dunque che ne sarà dei figli che sembrava fossero messaggio di rinnovamento?
Si cerca qui di annientare l’umanità senza colpo ferire, come se quanto detto in precedenza non valesse più nulla, come se il creare una nuova vita fosse solo il lato speculare di una vita che si atomizza e perciò stesso smette di essere tale. Quel vento che soffia contro l’impero spazza le impurità e le dissolve. C’è una sorta di nichilismo in tutto questo: rendere tutto possibile affinché più nulla lo sia, “𝑙𝑖𝑏𝑒𝑟𝑎 𝑑𝑟𝑜𝑔𝑎, 𝑙𝑖𝑏𝑒𝑟𝑎 𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒, 𝑙𝑖𝑏𝑒𝑟𝑎 𝑚𝑢𝑠𝑖𝑐𝑎” forse è proprio qui che l’utopia che sta per soccombere, il rock ribelle e protestatario, voleva arrivare: liberare tutto per annientare tutto, non con un atto di violenza ma con il sacrificio personale: l’estremo tutto chiude il cerchio con l’estremo nulla. Non si invoca perdono, indulgenze, sogni di una vita oltre la vita, solo la dissoluzione. Dunque l’Eden non è quel giardino biblico a cui pure si allude ma coincide con una non-esistenza. Ed è qui la ragione per cui nell’accostamento con l’album di Crosby ho usato l’avverbio “apparentemente”: Crosby non sembra offrire vie di uscita, Crosby si interroga, si ripiega sovente su se stesso, mentre qui tutto è assertivo, si propone una scappatoia, un’alternativa, ci sono capi, comandanti che organizzano, c’è in corso di realizzazione un’astronave pronta a portare via dalla terra 7.000 persone. Una visione apocalittica, inteso il termine non come catastrofe distruttrice ma nella sua vera accezione, come rivelazione. Che consiste in questo svanire, dissolversi, senza malattie o dolori. La consapevolezza di un potere che non può cambiare, che tende a perpetuare se stesso, con un’idea non violenta i nostri si offrono in un olocausto che non lascia sentore di bruciato, che non immola con il sangue ma agisce come una forma di magia, dove si può vedere una sorta di gioco infantile che fa scomparire ciò che non piace.
In un’unità musicale che vede praticamente assente la batteria (eppure non se ne sente la mancanza), con la presenza del piano suonato da Slick, la chitarra acustica che accompagna di Kantner, le loro voci che si intrecciano in duetti, contrappunti, in dialoghi e la presenza discreta dei comprimari (tra i quali lo stesso Crosby) che annoverano buona parte dei Grateful Dead, dei Jefferson, si presenta qui un album con un’atmosfera uniforme e leggera, anche la musica qui sembra essere in fase di dissoluzione se si eccettua il pezzo di apertura solido e incalzante. Due brevi intermezzi vedono l’uso dell’elettronica ad imitazione della partenza dell’astronave Hijack e della stessa lanciata a velocità della luce oltre la Galassia con gusto naïf efficacissimo.
“𝐿’𝑎𝑠𝑡𝑟𝑜𝑛𝑎𝑣𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑣𝑜𝑙𝑡𝑒𝑔𝑔𝑖𝑎 𝑛𝑒𝑙 𝑐𝑖𝑒𝑙𝑜 𝑑𝑜𝑣𝑟𝑒𝑏𝑏𝑒 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑝𝑟𝑜𝑛𝑡𝑎 𝑛𝑒𝑙 1990, 𝑠𝑎𝑟𝑎̀ 𝑖𝑛 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑟𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑎𝑙 1980”: Ronald Reagan che in 𝑴𝒂𝒖 𝑴𝒂𝒖 𝑨𝒎𝒆𝒓𝒊𝒌𝒐𝒏 è citato come “a grade-b movie star governor's war”, allora governatore della California, nel 1981 sarà il 40° presidente USA e lo sarà fino al 1989. Nel 1990 il muro di Berlino sarà già un mucchio di macerie e l’ordine mondiale subirà cambiamenti, 𝑯𝒊𝒋𝒂𝒄𝒌 l’astronave non decollerà mai ma noi dopo 50 anni ancora la rievochiamo.
foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 25 settembre 2020
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𝐂𝐎𝐒𝐌𝐎'𝐒 𝐅𝐀𝐂𝐓𝐎𝐑𝐘
𝐂𝐫𝐞𝐞𝐝𝐞𝐧𝐜𝐞 𝐂𝐥𝐞𝐚𝐫𝐰𝐚𝐭𝐞𝐫 𝐑𝐞𝐯𝐢𝐯𝐚𝐥 (1970)
“𝑃𝑢𝑡 𝑎 𝑐𝑎𝑛𝑑𝑙𝑒 𝑖𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝑤𝑖𝑛𝑑𝑜𝑤
'𝐶𝑎𝑢𝑠𝑒 𝐼 𝑓𝑒𝑒𝑙 𝐼'𝑣𝑒 𝑔𝑜𝑡𝑡𝑎 𝑚𝑜𝑣𝑒
𝑇ℎ𝑜𝑢𝑔ℎ 𝐼'𝑚 𝑔𝑜𝑖𝑛', 𝑔𝑜𝑖𝑛'
𝐼'𝑙𝑙 𝑏𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑖𝑛' ℎ𝑜𝑚𝑒 𝑠𝑜𝑜𝑛
𝐿𝑜𝑛𝑔 𝑎𝑠 𝐼 𝑐𝑎𝑛 𝑠𝑒𝑒 𝑡ℎ𝑒 𝑙𝑖𝑔ℎ𝑡”
..
Metti di posare un disco sul piatto del giradischi, di appoggiarci sopra la puntina e dopo qualche lieve scricchiolio hai un riff saltellante, all’apparenza incerto ma che prende corpo in una figura ritmica semplice ma decisa; metti una voce graffiante che ti incita a muoverti, che vuole fuggire per strada perché
𝒄’𝒆̀ 𝒇𝒂𝒏𝒈𝒐 𝒏𝒆𝒍𝒍’𝒂𝒄𝒒𝒖𝒂, 𝒔𝒄𝒂𝒓𝒂𝒇𝒂𝒈𝒈𝒊 𝒊𝒏 𝒄𝒂𝒏𝒕𝒊𝒏𝒂, 𝒊𝒏𝒔𝒆𝒕𝒕𝒊 𝒏𝒆𝒍𝒍𝒐 𝒛𝒖𝒄𝒄𝒉𝒆𝒓𝒐, 𝒎𝒖𝒕𝒖𝒐 𝒔𝒖𝒍𝒍𝒂 𝒄𝒂𝒔𝒂, 𝒔𝒑𝒂𝒛𝒛𝒂𝒕𝒖𝒓𝒂 𝒔𝒖𝒍𝒍𝒂 𝒔𝒕𝒓𝒂𝒅𝒂 𝒆 𝒍’𝒂𝒖𝒕𝒐𝒔𝒕𝒓𝒂𝒅𝒂 𝒑𝒂𝒔𝒔𝒂 𝒏𝒆𝒍 𝒕𝒖𝒐 𝒄𝒐𝒓𝒕𝒊𝒍𝒆, 𝒑𝒐𝒍𝒊𝒛𝒊𝒐𝒕𝒕𝒊 𝒂𝒍𝒍’𝒂𝒏𝒈𝒐𝒍𝒐;
metti che il riff rallenta sempre più, sempre più, scoraggiato, come se non ne potesse più della situazione, allora su un arpeggio di chitarra inizia la fuga dapprima lenta, come a prendere la rincorsa, incespicando, come a guardarsi attorno su che via imboccare, poi si fugge sempre più veloci su un tempo di marcia, una fuga in avanti con un accordo che ti insegue con una solista da brividi che ti incalza e non ti da tregua, il tempo accelera, e tu non sai dove arriverai, ma la sei corde ti incita, ti spinge oltre, sempre oltre, come se non volesse farti voltare...ma ecco torna il tema di apertura:
𝒈𝒍𝒊 𝒂𝒕𝒕𝒐𝒓𝒊 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒄𝒂𝒔𝒂 𝒃𝒊𝒂𝒏𝒄𝒂 𝒅𝒂𝒍𝒍𝒂 𝒅𝒊𝒈𝒆𝒔𝒕𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒂𝒄𝒊𝒅𝒂 𝒉𝒂𝒏𝒏𝒐 𝒎𝒆𝒔𝒔𝒐 𝒖𝒏 𝒎𝒖𝒕𝒖𝒐 𝒔𝒖𝒍𝒍𝒂 𝒕𝒖𝒂 𝒗𝒊𝒕𝒂.
Ti fermi stremato: il Southern Rock, il Rock Sudista ti ha incalzato, ti ha mostrato strade libere che puntano in un orizzonte selvaggio e lungo la strada trovi gli 𝐀𝐥𝐥𝐦𝐚𝐧𝐧 𝐁𝐫𝐨𝐭𝐡𝐞𝐫𝐬 𝐁𝐚𝐧𝐝 puri esemplari di questo genere, i 𝐋𝐲𝐧𝐲𝐫𝐝 𝐒𝐤𝐲𝐧𝐲𝐫𝐝 loro fratelli forse più commerciali (non in senso negativo), i 𝐙𝐙 𝐓𝐨𝐩 con le loro barbe lunghe e chitarre solide e ritmica precisa; dietro alle lunghe chiome, alle facce un poco truci si sente una morbida ruvidezza che esprime nell’ossimoro una fedeltà alla terra e uno sguardo disincantato.
Guardi la copertina e vedi quattro tipi rilassati, non certo battaglieri: 𝐋𝐚 𝐟𝐚𝐛𝐛𝐫𝐢𝐜𝐚 𝐝𝐢 𝐂𝐨𝐬𝐦𝐨, soprannome questo del batterista 𝐃𝐨𝐮𝐠 𝐂𝐥𝐢𝐟𝐟𝐨𝐫𝐝 che ci guarda in sella alla bicicletta e la 𝐅𝐚𝐜𝐭𝐨𝐫𝐲 il capannone dove loro i 𝐂𝐫𝐞𝐞𝐝𝐞𝐧𝐜𝐞 𝐂𝐥𝐞𝐚𝐫𝐰𝐚𝐭𝐞𝐫 𝐑𝐞𝐯𝐢𝐯𝐚𝐥 registrano il loro quinto album e siamo nel 1970. 𝐉𝐨𝐡𝐧 𝐅𝐨𝐠𝐞𝐫𝐭𝐲 è in sella a una moto, suo fratello 𝐓𝐨𝐦 è comodamente seduto e 𝐒𝐭𝐮 𝐂𝐨𝐨𝐤 è semi sdraiato al suolo.
Southern rock si è detto, genere dove i Creedence aggiungono qualcosa in più, sonorità diverse, una certa contaminazione che li distingue e la voce graffiante di John Fogerty. Così ci facciamo cullare dal rock and roll di 𝑩𝒆𝒇𝒐𝒓𝒆 𝒚𝒐𝒖 𝑨𝒄𝒄𝒖𝒔𝒆 𝑴𝒆 (cover di un brano di ‘𝐁𝐨 𝐃𝐢𝐝𝐝𝐥𝐞𝐲) una vena bluesy accompagna il pezzo con un incalzante incedere boogie. Una serie di accuse per un rapporto mal riuscito:
𝒕𝒖 𝒅𝒊𝒄𝒊 𝒄𝒉𝒆 𝒔𝒑𝒆𝒏𝒅𝒐 𝒑𝒆𝒓 𝒂𝒍𝒕𝒓𝒆 𝒅𝒐𝒏𝒏𝒆
𝒎𝒂 𝒔𝒕𝒂𝒊 𝒑𝒓𝒆𝒏𝒅𝒆𝒏𝒅𝒐 𝒔𝒐𝒍𝒅𝒊 𝒅𝒂 𝒒𝒖𝒂𝒍𝒄𝒖𝒏 𝒂𝒍𝒕𝒓𝒐
una situazione banale e scarna che vede rimbalzare torti e che ci porta in un ambiente problematico come era il posto del brano precedente.
𝑻𝒓𝒂𝒗𝒆𝒍𝒍𝒊𝒏𝒈 𝑩𝒂𝒏𝒅 fugge con urgenza rincorrendo una band itinerante al tempo di Rock and Roll: dai guai ci si allontana nei tour di una band dove forse si rispecchia la situazione del gruppo stesso.
𝑶𝒐𝒃𝒚 𝑫𝒐𝒐𝒃𝒚 è un altro Rock and Roll che nell’onomatopea del titolo richiama le mosse di un ballo, una specie di convulsione catartica, un agitarsi che allude a mosse sessuali, un ballo erotico o esclusivamente liberatorio, un rotolarsi quasi rabbioso.
E così arriva 𝑳𝒐𝒐𝒌𝒊𝒏𝒈 𝒐𝒖𝒕 𝒎𝒚 𝒃𝒂𝒄𝒌𝒅𝒐𝒐𝒓 dove chiusa la porta d’ingresso si da uno sguardo all’uscita secondaria che si affolla di allusioni a un “𝒄𝒖𝒄𝒄𝒉𝒊𝒂𝒊𝒐 𝒗𝒐𝒍𝒂𝒏𝒕𝒆”, a “𝒕𝒂𝒎𝒃𝒖𝒓𝒆𝒍𝒍𝒊 𝒆𝒅 𝒆𝒍𝒆𝒇𝒂𝒏𝒕𝒊 𝒄𝒉𝒆 𝒔𝒖𝒐𝒏𝒂𝒏𝒐 𝒏𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒃𝒂𝒏𝒅” dove quindi occhieggia una serenità drogata, una “𝒎𝒆𝒓𝒂𝒗𝒊𝒈𝒍𝒊𝒐𝒔𝒂 𝒂𝒑𝒑𝒂𝒓𝒊𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒇𝒐𝒓𝒏𝒊𝒕𝒂 𝒅𝒂𝒍 𝒎𝒂𝒈𝒐". Canzone che sa di visioni drogate, allucinazioni fantastiche: dopo gli orrori di 𝑹𝒂𝒎𝒃𝒍𝒆 𝑻𝒂𝒎𝒃𝒍𝒆, brano manifesto che ci ha rincorso all’inizio, una donna traditrice, le frenesie di una band che vaga su e giù per concerti e balli frenetici, il ritorno a casa chiude la porta principale per aprire quella secondaria. Il rock è anche ricerca di tranquillità in un mondo che ne offre poca: due estremi che sembrano in contraddizione ma che come tutti gli estremi si toccano.
𝑷𝒆𝒏𝒔𝒂𝒗𝒐 𝒇𝒐𝒔𝒔𝒆 𝒖𝒏 𝒊𝒏𝒄𝒖𝒃𝒐...
𝒊𝒍 𝒅𝒊𝒂𝒗𝒐𝒍𝒐 𝒆̀ 𝒊𝒏 𝒍𝒊𝒃𝒆𝒓𝒕𝒂̀...
𝒎𝒆𝒈𝒍𝒊𝒐 𝒄𝒐𝒓𝒓𝒆𝒓𝒆 𝒏𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒈𝒊𝒖𝒏𝒈𝒍𝒂...
𝒗𝒆𝒏𝒈𝒐𝒏𝒐 𝒄𝒂𝒓𝒊𝒄𝒂𝒕𝒆 𝒅𝒖𝒆𝒄𝒆𝒏𝒕𝒐 𝒎𝒊𝒍𝒊𝒐𝒏𝒊 𝒅𝒊 𝒑𝒊𝒔𝒕𝒐𝒍𝒆
S𝒔𝒂𝒕𝒂𝒏𝒂 𝒈𝒓𝒊𝒅𝒂: 𝒑𝒓𝒆𝒏𝒅𝒊 𝒍𝒂 𝒎𝒊𝒓𝒂.
Dalla pace drogata all’incubo, perché la pace artificiale lascia solo occhieggiare dalla porta di servizio. 𝑹𝒖𝒏 𝒕𝒉𝒓𝒐𝒖𝒈𝒉 𝒕𝒉𝒆 𝒋𝒖𝒏𝒈𝒍𝒆 svela incubi metropolitani, orrori di guerra. Un’armonica blues conduce la danza in questo pezzo cupo e cadenzato dove la voce di Fogerty aggiunge al graffio che le è tipico una cupa dose di mistero abbassandosi di tono.
𝑾𝒉𝒐’𝒍𝒍 𝒔𝒕𝒐𝒑 𝒕𝒉𝒆 𝒓𝒂𝒊𝒏, chi fermerà la pioggia? La stessa pioggia di cui parlava il Dylan degli albori, la stessa dura pioggia che a distanza di anni non ha smesso di cadere. Su una chitarra Jingle Jangle che può ricordare i Byrds, i Creedence cercano riparo dalla tempesta.
Annunciata da un basso cupo 𝑰 𝒉𝒆𝒂𝒓𝒅 𝒊𝒕 𝒕𝒉𝒓𝒐𝒖𝒈𝒉 𝒕𝒉𝒆 𝒈𝒓𝒂𝒑𝒆𝒗𝒊𝒏𝒆 procede sincopata nella sua marcia attraverso le “vigne”. Un lungo assolo ubriaco ci accompagna nella disperazione di un amante abbandonato, un lungo lamento che sembra frenare la corsa verso un altrove che pure ci accompagna lungo tutto il disco. Una spinta verso l’esterno che ha il sapore di una fuga e un rifugiarsi nelle tristezze di amori finiti o traditi: questa direi essere la duplice tematica che costruisce il disco, “amore e fuga”.
Appena svoltato l’angolo (𝑼𝒑 𝒂𝒓𝒐𝒖𝒏𝒅 𝒕𝒉𝒆 𝒃𝒆𝒏𝒅) ci si ritrova a correre
𝒄𝒐𝒔𝒊̀ 𝒗𝒆𝒍𝒐𝒄𝒆 𝒄𝒉𝒆 𝒊 𝒎𝒊𝒆𝒊 𝒑𝒊𝒆𝒅𝒊 𝒑𝒐𝒔𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒗𝒐𝒍𝒂𝒓𝒆...
𝒍𝒂𝒔𝒄𝒊𝒂 𝒍𝒂 𝒏𝒂𝒗𝒆 𝒄𝒉𝒆 𝒂𝒇𝒇𝒐𝒏𝒅𝒂 𝒂𝒍𝒍𝒆 𝒔𝒑𝒂𝒍𝒍𝒆
𝒗𝒊𝒆𝒏𝒊 𝒄𝒐𝒏 𝒊𝒍 𝒗𝒆𝒏𝒕𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒔𝒂𝒍𝒆
e questo appena dietro casa. Dalla porta di servizio, ce lo hanno già suggerito, si apre un mondo diverso, dietro l’angolo si può volare. Canzone con un tema incisivo questa, densa di significati reconditi e di rimandi: si cita una “𝒆𝒏𝒅 𝒐𝒇 𝒕𝒉𝒆 𝒉𝒊𝒈𝒉𝒘𝒂𝒚” che tanto sa di 𝐃𝐨𝐨𝐫𝐬 e di orizzonti misteriosi e infiniti; si accenna a un “𝒄𝒓𝒚𝒔𝒕𝒂𝒍 𝒅𝒂𝒚” che richiama le brillanti evocazioni della “𝒄𝒓𝒚𝒔𝒕𝒂𝒍 𝒔𝒉𝒊𝒑” doorsiana, e dov’è quel posto dove
𝒊 𝒏𝒆𝒐𝒏 𝒅𝒊𝒗𝒆𝒏𝒕𝒂𝒏𝒐 𝒇𝒐𝒓𝒆𝒔𝒕𝒂” (𝒏𝒆𝒐𝒏’𝒔 𝒕𝒖𝒓𝒏 𝒕𝒐 𝒘𝒐𝒐𝒅)?
se non un orizzonte selvaggio e privo di civiltà, della civiltà che conosciamo.
Il rock è vagabondo per natura, perciò
𝒇𝒊𝒏𝒄𝒉𝒆́ 𝒑𝒐𝒕𝒓𝒐̀ 𝒗𝒆𝒅𝒆𝒓𝒆 𝒍𝒂 𝒍𝒖𝒄𝒆 ...
𝒔𝒆𝒏𝒕𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒅𝒆𝒗𝒐 𝒎𝒖𝒐𝒗𝒆𝒓𝒎𝒊.
La vagabondaggine sono cieli aperti e si associa all’America, ai suoi spazi sconfinati e certo i Creedence ci sono affezionati, senz’altro meno a chi questi spazi governa, agli
𝒂𝒕𝒕𝒐𝒓𝒊 𝒏𝒆𝒍𝒍𝒂 𝑪𝒂𝒔𝒂 𝑩𝒊𝒂𝒏𝒄𝒂
𝒅𝒊𝒇𝒇𝒊𝒄𝒊𝒍𝒊 𝒅𝒂 𝒅𝒊𝒈𝒆𝒓𝒊𝒓𝒆 .
L’America dopo tutto offre ancora prospettive di fuga, regioni dove la fantasia può vagare e sognare tempi migliori. 𝐃𝐚𝐯𝐢𝐝 𝐂𝐫𝐨𝐬𝐛𝐲 in questo torno di tempo, siamo al giro di boa degli anni ’60 e il settimo decennio del novecento si apre già con un occhio diverso, canta la fine di un’epoca con tono dimesso, malinconico, ricco di perle acustiche come la sua 𝑻𝒉𝒆 𝒍𝒆𝒆 𝑺𝒉𝒐𝒓𝒆 dove
𝒄𝒆𝒏𝒕𝒐𝒎𝒊𝒍𝒂 𝒊𝒔𝒐𝒍𝒆 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒅𝒊𝒔𝒔𝒆𝒎𝒊𝒏𝒂𝒕𝒆 𝒄𝒐𝒎𝒆 𝒈𝒊𝒐𝒊𝒆𝒍𝒍𝒊 𝒔𝒖𝒍 𝒎𝒂𝒓𝒆
senza ricordare il proprio nome (ne abbiamo già parlato), i Creedence non dispiegano le vele al vento, sono più prosaici, la loro musica si alimenta di umori fisici, sembrano bandire la malinconia reagendo per via di strappi, graffi, uno sguardo all’indietro verso il Rock and Roll più puro (tre brani delle quattro cover del disco pescano in questo campo), costruiscono canzoni (per inciso tutte portano la firma di John Fogerty) che sanno di elettricità, danzano con il Rhythm and Blues, il Rockabilly, raspano le pareti del già sentito e scrostano vecchia vernice sostituendola con tinte nuove; sopra, la voce di Fogerty che sa di Blues ma occhieggia all’Hard Rock.
John Fogerty (chitarra solista e voce), Tom Fogerty (chitarra ritmica), Stu Cook (basso), Doug Clifford (batteria). John e Tom fratelli, John, Stu e Doug già compagni di scuola, in sette album, dal 1968 al 1972, hanno aperto e chiuso la parabola della band che rimane senza dubbio, con il loro sound inconfondibile, tra le più originali del panorama musicale.
foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 18 settembre 2020
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𝐀𝐁𝐁𝐈𝐀𝐌𝐎 𝐓𝐔𝐓𝐓𝐈 𝐔𝐍 𝐁𝐋𝐔𝐄𝐒 𝐃𝐀 𝐏𝐈𝐀𝐍𝐆𝐄𝐑𝐄
Perigeo (1973)
“𝐿𝑖𝑏𝑒𝑟𝑒 𝑒𝑑 𝑒𝑙𝑙𝑖𝑡𝑡𝑖𝑐ℎ𝑒 𝑑𝑖𝑣𝑎𝑔𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑖𝑛 𝑢𝑛’𝑜𝑟𝑏𝑖𝑡𝑎 𝑠𝑜𝑛𝑜𝑟𝑎.”
(𝑅.𝐺.)
“𝐶𝑖𝑜̀ 𝑐ℎ𝑒 𝑒̀ 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑜, 𝑐ℎ𝑒 𝑒̀ 𝑛𝑜𝑖 𝑠𝑡𝑒𝑠𝑠𝑖 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑙𝑒 𝑖𝑑𝑒𝑒 𝑜 𝑙𝑒 𝑟𝑎𝑝𝑝𝑟𝑒𝑠𝑒𝑛𝑡𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖, 𝑚𝑎 𝑙’𝑢𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑒𝑠𝑠𝑒”
(𝐸𝑝𝑖𝑡𝑡𝑒𝑡𝑜)
.
La musica è un’arte di per sé astratta, utilizza un linguaggio non immediatamente decifrabile, usa segni convenzionali che parlano a stati d’animo, evocano sensazioni che possono essere diverse da quelle che ha voluto esprimere chi suona. Quindi si potrebbe ipotizzare che essa sia un linguaggio aperto, certo universale: un brano di musica non viene tradotto a differenza di un testo dove la versione in un’altra lingua può dare al testo sfumature diverse. Ma un testo è comunque ciò che dice, semplificando: se affermo che un colore corrisponde al rosso, si farà riferimento a questa tinta in ogni lingua del mondo. Ma se volessi dire del colore rosso in musica? Soprattutto, si capirebbe che voglio evocare il rosso e non chissà che? Il colore è nella mente di chi suona del rosso ma in chi ascolta può prendere corpo, anzi senz’altro si forma un’altra immagine a meno di suggerire la tinta con un titolo o un testo. Giungiamo alla conclusione che la musica ha un significato (il mezzo che uso per esprimermi) il cui significante (ciò a cui essa fa riferimento) è labile, vago, impreciso, appunto astratto.
Questa premessa per dire che parlare di musica pressoché priva di testo è sempre un parlare soggettivamente, amenoché non si voglia esaminare nota per nota la composizione, cosa che lasciamo ai musicologi e che comunque non esaurisce il discorso sul significato dell’opera.
Disco strumentale e perciò aperto alle più diverse sensazioni è 𝐀𝐛𝐛𝐢𝐚𝐦𝐨 𝐭𝐮𝐭𝐭𝐢 𝐮𝐧 𝐁𝐥𝐮𝐞𝐬 𝐝𝐚 𝐏𝐢𝐚𝐧𝐠𝐞𝐫𝐞 secondo album dal titolo malinconico dei 𝐏𝐞𝐫𝐢𝐠𝐞𝐨.
Perigeo si inseriscono in quel filone di fusion di cui si è già accennato a proposito degli 𝐀𝐫𝐞𝐚, e quando si parla di fusion viene in mente il jazz, il rock, l’elettronica, melodie pop, atmosfere e tinte varie, viene in mente 𝐙𝐚𝐩𝐩𝐚.
Partiamo dal brano che dà titolo all’album, che contiene la parola Blues che ovviamente evoca la base del jazz e del rock ma che qui sono fusi in una terza “cosa”, una terza via che del jazz conserva l’improvvisazione, degli standard di accompagnamento, del rock i ritmi liberi, sganciati da una semplice scansione, incisivi assoli di chitarra e del blues l’anima, lo spirito di fondo. Un blues da piangere, porta alla mente un lutto, un parente stretto o un amico a cui eravamo particolarmente legati. Ecco allora arpeggi di chitarra che prendono ordine in un tema sussurrato. Perigeo sanno dare vita a malinconici respiri che scivolano sulle note, il pizzicato di un violoncello con
“𝑖𝑙 𝑝𝑜𝑛𝑡𝑖𝑐𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑎𝑏𝑏𝑎𝑠𝑠𝑎𝑡𝑜 𝑖𝑛 𝑚𝑜𝑑𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑟𝑑𝑒 𝑣𝑖𝑏𝑟𝑖𝑛𝑜 𝑡𝑜𝑐𝑐𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑙𝑎 𝑡𝑎𝑠𝑡𝑖𝑒𝑟𝑎” (𝐺𝑖𝑜𝑣𝑎𝑛𝑛𝑖 𝑇𝑜𝑚𝑚𝑎𝑠𝑜),
come un fiato che da vita al sax che da dolente si fa sempre più incalzante, a tratti urlato ma senza rabbia piuttosto rassegnato.
𝑵𝒐𝒏 𝒄’𝒆̀ 𝒕𝒆𝒎𝒑𝒐 𝒅𝒂 𝒑𝒆𝒓𝒅𝒆𝒓𝒆, sembra richiamare l’immagine di copertina (opera del pittore Dario Campanile) che mostra un paesaggio desolato, con un albero morto e sullo sfondo una cupola o un astro che sorge o tramonta: ma quella mano che dal terreno prende forma o forse si dissolve in esso, sembra dirci che noi predatori umani che dalla terra siamo nati nella terra saremo inghiottiti. C’è un’urgenza che preme, viene vocalizzato un canto, le parole mancano, è un tema reiterato su un arpeggio al pianoforte, il sapore di un’invocazione, quasi una preghiera, all’unisono entra la chitarra. Poi tutto cessa e il pianoforte annuncia una variazione sul tema, una chitarra dolente prende piede, quasi una fuga ma senza rabbia, anzi con un orizzonte che l’assolo di pianoforte sembra aprire. E se i classici risultano sempre attuali, allora questo album lo è un classico: non c’è tempo da perdere per salvare la Terra dalla desolazione verso cui la stiamo portando, quella mano che sulla copertina giace inerte rischia di non afferrare più nulla.
𝑫𝒆𝒋𝒂 𝑽𝒖̀, la sensazione di già vissuto, dice 𝐆𝐢𝐨𝐯𝐚𝐧𝐧𝐢 𝐓𝐨𝐦𝐦𝐚𝐬𝐨 in una recente intervista in occasione del ritorno sul palco del Perigeo riguardo a questo pezzo di essere stato affascinato da un’interpretazione sul fenomeno del Deja Vù: può essere dovuto ad una dissociazione temporale, in casi di particolare stanchezza, tra ciò che si vede e ciò che il cervello elabora. Il brano non ha una struttura ritmica precisa e arpeggi di piano accompagnano un tema al sax, un vocalizzo come nel primo pezzo ricama di stupore uno sguardo ingenuo che riporta nell’unisono tra voce e sax lo sdoppiamento tra la nostra percezione e la realtà.
Si ritorna a ritmi tribali con 𝑹𝒊𝒕𝒖𝒂𝒍𝒆 che rimarca un volgere lo sguardo indietro, compare un giro di basso che accompagna accordi di pianoforte che dapprima timidi, poi sempre più accelerati, fanno da tappeto all’inserirsi degli altri strumenti fino al tema. Il tutto confluisce in una jam free che richiama la liberazione dagli schemi consueti e da un ordine che sembra non appartenerci più finché una serie di accordi “picchiati” sulla tastiera e riportati all’ordine da figure ritmiche richiamano il tema che riconduce tutto in una logica decifrabile.
𝑪𝒐𝒖𝒏𝒕𝒓𝒚: sempre 𝐓𝐨𝐦𝐦𝐚𝐬𝐨 dice esserci poco di country, piuttosto un senso di viaggio, un “on the road”. I suoni liquidi delle tastiere a me richiamano il fluire di un fiume, uno scorrere tra argini in una campagna, appunto, un fiume tranquillo ma non privo di rapide. Il sound creato da Perigeo in questo disco sa essere suadente sussurrando mai urlando anche nei suoi momenti più concitati.
Come 𝑵𝒂𝒅𝒊𝒓 una sorta di passaggio al punto più basso richiamato dal titolo; l’ora blu, il momento rappresentato dal colore del cielo della copertina, quel momento transitorio tra il termine del tramonto e il sopraggiungere della sera, dove il cielo si tinge di un blu profondo che già sfuma nel nero e la tinta si riflette su ogni cosa. L’arpeggiare liquido e fluente del piano elettrico richiama il calare della luce e l’innalzarsi della sera che ancora non sa essere se stessa: è un tema di sax che la evoca e l’intromissione della chitarra che lo scalza sullo stesso tema fino a sovrapporsi come se il buio e ciò che resta della luce lottassero per avere la meglio. Il blu scuro prevale come è naturale e il sax si dissolve nel tema.
𝑽𝒆𝒏𝒕𝒐 𝑷𝒊𝒐𝒈𝒈𝒊𝒂 𝒆 𝑺𝒐𝒍𝒆 si annuncia con trilli elettronici che sembrano imitare il suono dei grilli, rumori notturni, inquietanti: la notte è sopraggiunta con i timori che porta a noi tutti. Ma ecco che qualcosa di definito emerge, un richiamo, un tema nervoso, singhiozzante, che sembra porre delle domande. Tre elementi naturali danno vita dapprima ad un assolo di chitarra che smuove i capelli come spire d’aria. Il sassofono stilla gocce di pioggia in fraseggi jazzati che portano ad uno sgocciolio di note al piano che si tramuta in uno scroscio quasi torrenziale. Siamo inzuppati in una fiumana che ritrova il sereno nel tema che all’unisono conclude il pezzo.
Mi accorgo così di aver accennato all’ecologia, ad una perdita, ad eventi atmosferici e naturali, di essere fuggito lungo strade sconosciute, di avere provato sensazioni di già vissuto in chissà quale esistenza, di avere evocato istanti che portano con il colore del cielo a vaghissime ombre sfuggenti, di avere capito che il significato universale della costruzione di note e armonie che Perigeo ha scandito vanno oltre ogni possibile, univoca, dogmatica interpretazione. Abbiamo tutti un blues da piangere, come un parente, un amico, qualcosa che non c’è più ma che ritrovi ogni volta che fai ripartire da capo il disco, comunque ritrovi non identico a prima in un continuo disfarsi e rifarsi.
Perigeo è la minima distanza che intercorre tra due corpi celesti nell’orbita ellittica, è un avvicinamento massimo tra oggetti in orbita, quindi tra corpi che non sono destinati a toccarsi, solo a mantenersi ad una debita distanza, la loro fuga circolare sarà sempre oggetto di un anelito all’incontro che non potrà mai avvenire senza precipitare uno nell’altro, senza in definitiva annullarsi a vicenda; ognuno guarderà l’altro da lontano senza mai scendere in particolari rivelatori di difetti ma osservando l’insieme, ecco i Perigeo cosa sono: astri in orbita nell’universo musicale.
𝐆𝐢𝐨𝐯𝐚𝐧𝐧𝐢 𝐓𝐨𝐦𝐦𝐚𝐬𝐨 (voce,bassoo), 𝐂𝐥𝐚𝐮𝐝𝐢𝐨 𝐅𝐚𝐬𝐨𝐥𝐢 (sax lto e soprano) 𝐅𝐫𝐚𝐧𝐜𝐨 𝐃’𝐀𝐧𝐝𝐫𝐞𝐚 (tastiere), 𝐓𝐨𝐧𝐲 𝐒𝐢𝐝𝐧𝐞𝐲 (chitarra), 𝐁𝐫𝐮𝐧𝐨 𝐁𝐢𝐫𝐢𝐚𝐜𝐨 (batteria), dai titoli dei loro cinque album realizzati tra il 1972 e il 1976, è come se venisse riassunto un discorso, come se venissero fornite le coordinate per una chiave di lettura che da 𝐀𝐳𝐢𝐦𝐮𝐭, strumento per calcolare una direzione persa, vede il rimpianto di qualcosa di passato con l’album preso in esame, prosegue con 𝐆𝐞𝐧𝐞𝐚𝐥𝐨𝐠𝐢𝐚 richiamando nel titolo una ricerca di identità, una continuità storica; 𝐋𝐚 𝐕𝐚𝐥𝐥𝐞 𝐝𝐞𝐢 𝐓𝐞𝐦𝐩𝐥𝐢 è quella storia, nelle vestigia antiche è il punto di partenza, tempo che 𝐍𝐨𝐧 𝐞̀ 𝐏𝐨𝐢 𝐂𝐨𝐬𝐢̀ 𝐋𝐨𝐧𝐭𝐚𝐧𝐨.
foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 11 settembre 2020
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𝐀𝐑𝐁𝐄𝐈𝐓 𝐌𝐀𝐂𝐇𝐓 𝐅𝐑𝐄𝐈
AREA (1973)
𝐿𝑎 𝑝𝑟𝑜𝑏𝑙𝑒𝑚𝑎𝑡𝑖𝑐𝑎 𝑞𝑢𝑎𝑙 𝑒̀? 𝐴𝑏𝑜𝑙𝑖𝑟𝑒 𝑙𝑒 𝑑𝑖𝑓𝑓𝑒𝑟𝑒𝑛𝑧𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑐𝑖 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑓𝑟𝑎 𝑚𝑢𝑠𝑖𝑐𝑎 𝑒 𝑣𝑖𝑡𝑎.
𝐺𝑙𝑖 𝑠𝑡𝑖𝑚𝑜𝑙𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑡𝑟𝑎𝑒 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑔𝑟𝑢𝑝𝑝𝑜 𝑣𝑒𝑛𝑔𝑜𝑛𝑜 𝑑𝑖𝑟𝑒𝑡𝑡𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑡𝑎̀, 𝑡𝑟𝑎𝑒 𝑠𝑝𝑢𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑡𝑎̀;
𝑒 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑡𝑟𝑎𝑑𝑎, 𝑐ℎ𝑖𝑎𝑟𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒.
(𝐷𝑒𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑜 𝑆𝑡𝑟𝑎𝑡𝑜𝑠 𝑎 𝑢𝑛𝑜 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑎𝑙𝑒 𝑅𝐴𝐼 𝑑𝑒𝑙 1976)
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𝐆𝐢𝐮𝐥𝐢𝐨 𝐂𝐚𝐩𝐢𝐨𝐳𝐳𝐨, batteria e percussioni (di cui ricorre quest’anno il ventennale della morte) fonda gli 𝐀𝐫𝐞𝐚 - 𝐈𝐧𝐭𝐞𝐫𝐧𝐚𝐭𝐢𝐨𝐧𝐚𝐥 𝐏𝐎𝐏𝐮𝐥𝐚𝐫 𝐆𝐫𝐨𝐮𝐩 più comunemente 𝐀𝐫𝐞𝐚; 𝐃𝐞𝐦𝐞𝐭𝐫𝐢𝐨 𝐒𝐭𝐫𝐚𝐭𝐨𝐬 co-fondatore alla voce e polistrumentista; 𝐏𝐚𝐭𝐫𝐢𝐜𝐤 𝐃𝐣𝐢𝐯𝐚𝐬: basso, contrabbasso; 𝐏𝐚𝐭𝐫𝐢𝐳𝐢𝐨 𝐅𝐚𝐫𝐢𝐬𝐞𝐥𝐥𝐢: pianoforte, pianoforte elettrico; 𝐏𝐚𝐨𝐥𝐨 𝐓𝐨𝐟𝐚𝐧𝐢: chitarra elettrica, EMS VCS3, flauto; 𝐕𝐢𝐜𝐭𝐨𝐫 𝐄𝐝𝐨𝐮𝐚𝐫𝐝 𝐁𝐮𝐬𝐧𝐞𝐥𝐥𝐨: sassofono, clarinetto basso, sono i componenti la band.
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Gli Area spiccano per la loro musica viscerale. Gli Area presenti a raduni di matrice politica, gli Area con il pugno chiuso, gli Area che già nel nome evocano uno spazio: l’Agorà greca, la piazza della città-stato momento collettivo di discussione. Con questi presupposti si potrebbe pensare agli Area come ad un gruppo musicalmente limitato a scarni arrangiamenti, laceri brandelli di abiti per coprire un corpo ideologico solido e tonico: invece musicalmente troviamo un gruppo preparato e sperimentale che suggerisce un rapporto inverso da quello testé prospettato: è la musica ad essere protagonista e i testi rendono evidente ciò che le note possono suggerire.
Gli Area sono sempre stati associati per me ad un’idea di lotta politica. Il loro esordio su disco è del 1973 con questo album: 𝐀𝐫𝐛𝐞𝐢𝐭 𝐌𝐚𝐜𝐡𝐭 𝐅𝐫𝐞𝐢. L’anno del Watergate, del colpo di stato di Pinochet che instaura in Cile una dittatura fascista, l’anno della guerra del Kippur, quarta guerra arabo-israeliana.
E loro aprono il disco con 𝑳𝒖𝒈𝒍𝒊𝒐, 𝒂𝒈𝒐𝒔𝒕𝒐, 𝒔𝒆𝒕𝒕𝒆𝒎𝒃𝒓𝒆 (𝒏𝒆𝒓𝒐) in maniera certo inusuale con un recitativo in dialetto egiziano inneggiante alla pace, ma la pace non sembra nelle corde dei nostri:
“𝑔𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑣𝑢𝑜𝑙 𝑚𝑜𝑟𝑖𝑟𝑒”
che si vede confinata in casa propria.
“𝑁𝑜𝑛 𝑒̀ 𝑐𝑜𝑙𝑝𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑠𝑒 𝑙𝑎 𝑡𝑢𝑎 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑡𝑎̀ 𝑚𝑖 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑟𝑖𝑛𝑔𝑒 𝑎 𝑓𝑎𝑟𝑒 𝑔𝑢𝑒𝑟𝑟𝑎 𝑎𝑙𝑙’𝑢𝑚𝑎𝑛𝑖𝑡𝑎̀”:
non sembra esserci via di uscita da questa affermazione che vede un popolo prigioniero, intrappolato nella circolarità del riff che sfocia nella cacofonia di un mercato orientale portandoci direttamente, immergendoci quasi in una realtà oppressa. Questa è proprio la cifra che contraddistingue gli Area: una presa di posizione senza sfumature, senza incertezze direi quasi estremistica.
Gli anni ‘70 considerati gli anni della violenza, riassunti da una pubblicistica come il decennio delle barricate, che pure ci sono state certo, che ha visto la nascita del terrorismo, ma sono anche gli anni dove si consolidano istanze che il decennio precedente aveva preparato, politicamente e musicalmente.
“𝐿𝑎𝑠𝑐𝑖𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑖𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑡𝑢𝑜 𝑎𝑠𝑐𝑒𝑛𝑠𝑜𝑟𝑒”,
declama Stratos in 𝑪𝒐𝒏𝒔𝒂𝒑𝒆𝒗𝒐𝒍𝒆𝒛𝒛𝒂 ed è un invito a osservare dall’alto una realtà squallida, ad abbandonare una mediocrità senza sbocco. Anche qui non ci sono tentennamenti, tutto inizia di colpo, irrompe come una spallata che sfonda una porta. Con qualche eco di Van Der Graaf Generator e di E.L.&P. a introdurre il cantato, il brano sfocia in un magnifico assolo di sax che fa trasparire tra fraseggi suadenti una riflessione, quasi un momento meditativo che ci fa volteggiare e
“𝑠𝑐𝑖𝑜𝑙𝑡𝑖 𝑖 𝑙𝑒𝑔𝑎𝑚𝑖....𝑣𝑖𝑎𝑔𝑔𝑖𝑎 𝑛𝑒𝑙 𝑐𝑖𝑒𝑙𝑜”
fino ad una presa di coscienza definitiva:
“𝑙𝑎𝑠𝑐𝑖𝑎 𝑎𝑛𝑑𝑎𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑡𝑢𝑜 𝑎𝑠𝑐𝑒𝑛𝑠𝑜𝑟𝑒 𝑒 𝑝𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖 𝑖𝑙 𝑝𝑜𝑡𝑒𝑟𝑒”.
“𝑠𝑐𝑖𝑜𝑙𝑡𝑖 𝑖 𝑙𝑒𝑔𝑎𝑚𝑖....𝑣𝑖𝑎𝑔𝑔𝑖𝑎 𝑛𝑒𝑙 𝑐𝑖𝑒𝑙𝑜” fino ad una presa di coscienza definitiva: “𝑙𝑎𝑠𝑐𝑖𝑎 𝑎𝑛𝑑𝑎𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑡𝑢𝑜 𝑎𝑠𝑐𝑒𝑛𝑠𝑜𝑟𝑒 𝑒 𝑝𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖 𝑖𝑙 𝑝𝑜𝑡𝑒𝑟𝑒”. Si è parlato in un precedente intervento in questa sede dei 𝐂𝐮𝐫𝐞 e di come la loro estetica si sia come avvolta su se stessa in una sorta di solipsismo che anticipava inconsapevolmente il riflusso degli anni ottanta: la musica dei Cure era “ridotta” ad una essenzialità, una ripetitività sia pure ricche di atmosfera, di richiami ad una dimensione intima se non inconscia, con simboliche escursioni notturne in interni oscuri e misteriosi; gli Area in questo album di sette anni più vecchio, si muovono nell’atmosfera e nel clima battagliero dell’epoca. Il Jazz nella sua accezione non canonica, contaminato di ritmi rockeggianti, ricco di colori e umori, insomma nel solco di quello che sarà chiamato rock-jazz appunto, sono l’opposto della proposta di 𝑆𝑚𝑖𝑡ℎ e soci. Alla fine dell’epoca delle utopie subentra l’epoca delle lotte di classe, della conquista del potere, di esortazioni a pensare, a prendere “𝑙’𝑎𝑠𝑐𝑒𝑛𝑠𝑜𝑟𝑒” non come via di fuga ma come innalzamento verso un punto di vista privilegiato: uno sguardo a volo di uccello che sappia giudicare senza essere immerso nel movimento della produzione-consumo.
Una volontà di ridimensionare lo star-system abbattendo il gruppo che quel sistema aveva contribuito ad alimentare (i Led Zeppelin) sembra adombrata in 𝑳’𝒂𝒃𝒃𝒂𝒕𝒕𝒊𝒎𝒆𝒏𝒕𝒐 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒐 𝒁𝒆𝒑𝒑𝒆𝒍𝒊𝒏 dove Stratos vocalizza onomatopee, suoni, dando prova di duttilità vocale e recita il testo su un tappeto sonoro a-melodico, il fraseggiare jazzato del sax riporta sempre con i piedi per terra.
“𝐷𝑖𝑐𝑜𝑛𝑜 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑒̀ 𝑐𝑜𝑙𝑝𝑎 𝑚𝑖𝑎....
𝑆𝑒𝑚𝑏𝑟𝑎𝑣𝑎 𝑢𝑏𝑟𝑖𝑎𝑐𝑜 𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑔𝑟𝑎𝑛𝑑𝑒 𝑝𝑜𝑡𝑒𝑟𝑒...
𝑃𝑖𝑜𝑚𝑏𝑎𝑟𝑒 𝑛𝑒𝑙 𝑓𝑎𝑛𝑔𝑜 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑠𝑡𝑖𝑙𝑒.”
Dice 𝐇. 𝐌𝐚𝐫𝐜𝐮𝐬𝐞 nell’incipit di “𝐋’𝐮𝐨𝐦𝐨 𝐚 𝐮𝐧𝐚 𝐝𝐢𝐦𝐞𝐧𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞”:
𝑈𝑛𝑎 𝑐𝑜𝑛𝑓𝑜𝑟𝑡𝑒𝑣𝑜𝑙𝑒, 𝑙𝑒𝑣𝑖𝑔𝑎𝑡𝑎, 𝑟𝑎𝑔𝑖𝑜𝑛𝑒𝑣𝑜𝑙𝑒, 𝑑𝑒𝑚𝑜𝑐𝑟𝑎𝑡𝑖𝑐𝑎 𝑛𝑜𝑛-𝑙𝑖𝑏𝑒𝑟𝑡𝑎̀ 𝑝𝑟𝑒𝑣𝑎𝑙𝑒 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑜𝑐𝑖𝑒𝑡𝑎̀ 𝑖𝑛𝑑𝑢𝑠𝑡𝑟𝑖𝑎𝑙𝑒 𝑎𝑣𝑎𝑛𝑧𝑎𝑡𝑎...
L’uomo macchina, l’uomo manichino, strumento alienato per il progresso consumistico, carnefice e vittima di sé stesso, sembra preso per il bavero dagli Area e scrollato affinché si desti dal torpore.
La copertina che evoca grottescamente costrizioni, manichini di legno chiusi con un lucchetto, ingabbiati, immobili e muti.
“𝑛𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑡𝑢𝑒 𝑚𝑖𝑠𝑒𝑟𝑖𝑒
𝑟𝑖𝑐𝑜𝑛𝑜𝑠𝑐𝑒𝑟𝑎𝑖
𝑖𝑙 𝑠𝑖𝑔𝑛𝑖𝑓𝑖𝑐𝑎𝑡𝑜
𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑎𝑟𝑏𝑒𝑖𝑡 𝑚𝑎𝑐ℎ𝑡 𝑓𝑟𝑒𝑖”:
recita il testo del brano omonimo 𝐀𝐫𝐛𝐞𝐢𝐭 𝐌𝐚𝐜𝐡𝐭 𝐅𝐫𝐞𝐢. Il lavoro rende liberi è la scritta all’ingresso dei lager nazisti: una macabra ironia e sembra che qui vi sia la volontà di assimilare l’orrore dei campi di concentramento alla
“𝑡𝑒𝑡𝑟𝑎 𝑒𝑐𝑜𝑛𝑜𝑚𝑖𝑎
𝑞𝑢𝑜𝑡𝑖𝑑𝑖𝑎𝑛𝑎 𝑢𝑚𝑖𝑙𝑡𝑎̀”
a cui ci ha ridotto la società dei consumi. Cupamente introdotta da rullate di batteria, si sviluppa su un giro di basso e suoni ora cupi ora isolati finché il sax accenna un tema che prende corpo ricordando il brano di apertura; fraseggi jazzati creano un clima convulso fino al precisarsi di un fraseggio sempre di basso che introduce la voce di Stratos tenuta su toni graffianti e cupi.
Gli Area adottano una forma libera, free, costruita su fraseggi a volte convulsi, percussioni disseminate qua e là, rumorismo, cavalcate soliste, assoli rockeggianti e il cantato di Stratos che ora scandisce sillabe come per inciderle nella pietra, ora armonizza in vocalizzi singhiozzanti, ora declama.
“𝑆𝑜𝑙𝑜 𝑐ℎ𝑖 𝑒̀ 𝑛𝑢𝑑𝑜
𝑅𝑖𝑒𝑠𝑐𝑒 𝑎 𝑐𝑎𝑝𝑖𝑟𝑒
𝐿𝑎 𝑡𝑢𝑎 𝑓𝑜𝑟𝑧𝑎 𝑚𝑢𝑡𝑎
𝐶ℎ𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑢𝑛𝑖𝑐𝑎 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑡𝑎̀”
recita 𝑳𝒆 𝑳𝒂𝒃𝒃𝒓𝒂 𝒅𝒆𝒍 𝑻𝒆𝒎𝒑𝒐. Un brano che vede verso la fine un cambio di atmosfera con un intervento cupo di sintetizzatore che intona una melodia scura come per accompagnarci in un tunnel. Iniziato con un deciso riff al sax che si ripete ternario con poche variazioni, una chitarra arpeggiata si adagia su toni più suadenti per aprire al cantato che contraddice l’atmosfera accennando ad una rabbia trattenuta a stento. Il basso di Djivas sembra, come in altri momenti, richiamare a più miti consigli: infatti prendono piede fraseggi lunghi e liquidi alle tastiere che sciolgono la tensione sorretti dal basso che raccorda sovente nel corso dell’album le varie anime che ciascun pezzo racchiude. Il già accennato VCS3 entra scuro e sembra una processione:
“𝐿𝑢𝑐𝑖 𝑠𝑝𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑠𝑢𝑔𝑙𝑖 𝑎𝑙𝑡𝑎𝑟𝑖
𝑑𝑖 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑡𝑢𝑝𝑖𝑑𝑎 𝑢𝑚𝑖𝑙𝑡𝑎̀”,
fino a che la rabbia non è più trattenuta ed esplode in un acuto che è una presa di coscienza:
“𝐸’ 𝑢𝑛 𝑑𝑖𝑟𝑖𝑡𝑡𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑖𝑜 ℎ𝑜”.
240 𝒌𝒎 𝒅𝒂 𝑺𝒎𝒊𝒓𝒏𝒆 è l’unico pezzo strumentale, variazioni rock-jazz con un titolo enigmatico: in che direzione è questa località a 240 km? In che direzione si procede? Perché Smirne? Per inciso terza città della Turchia per numero di abitanti? Il sax accenna un tema per due volte poi scivola in un assolo che sembra cercare appunto una direzione, un orizzonte con fraseggi veloci e nervosi, a tratti rabbiosi per risolversi in un acuto in dialogo con le tastiere. Un assolo di basso raccorda al primo il secondo “movimento” che vede un botta e risposta tra piano elettrico e chitarra, una disputa che termina con la riproposizione del tema di apertura. Un’esortazione a volgere lo sguardo a 360 gradi.
Torno brevemente ai Cure e proseguo con l’azzardo nell’accostare i due gruppi perché all’esistenzialismo di Camus che ha nutrito la band di 𝑺𝒎𝒊𝒕𝒉, (ricordate “𝑲𝒊𝒍𝒍𝒊𝒏𝒈 𝒂𝒏 𝑨𝒓𝒂𝒃”) dove ha luogo un omicidio fine a se stesso, (ma pensiamo anche a “𝑨 𝑭𝒐𝒓𝒆𝒔𝒕” dove si aggira smarrito qualcuno senza meta), nel miraggio del suicidio come via di uscita possibile, si contrappone l’esistenzialismo di 𝐒𝐚𝐫𝐭𝐫𝐞 che vede nella militanza politica una apertura all’essere. Sono due aspetti della stessa filosofia che hanno come linea di scissura il Punk e la sua furia anarchica: il nichilismo di quest’ultimo vede contrapposti due poli estremi in una musica direi quasi militante da un lato e un intimismo quasi rassegnato, dark, dall’altro.
Gli anni ’70 vedono coagularsi gruppi attivi politicamente, attenti a problematiche sociali, figli del ’68 più politicizzato: penso ai 𝐍𝐚𝐩𝐨𝐥𝐢 𝐂𝐞𝐧𝐭𝐫𝐚𝐥𝐞, ai 𝐂𝐂𝐂𝐏 e a quella corrente che verso la fine del decennio e a cavallo con gli anni ‘80 ha preso il nome di 𝑹𝒐𝒄𝒌 𝒊𝒏 𝑶𝒑𝒑𝒐𝒔𝒊𝒕𝒊𝒐𝒏: insieme di gruppi eterogeneo che ha eletto la protesta contro la logica capitalistica delle grosse case discografiche a manifesto politico: gli italiani 𝐒𝐭𝐨𝐫𝐦𝐲 𝐒𝐢𝐱, gli inglesi 𝐇𝐞𝐧𝐫𝐲 𝐂𝐨𝐰 tanto per citarne alcuni e credo di poterci inserire il 𝐑𝐨𝐛𝐞𝐫𝐭 𝐖𝐲𝐚𝐭𝐭 solista.
In questa prospettiva forse gli Area sono stati un po’ degli anticipatori, ci hanno mostrato un solco da seguire che ha nella fusione tra Jazz e Rock, tra folklore e Blues il tracciato per seminare interessanti frutti.
foto e articolo di © Roberto Gaudenzi -  4 settembre 2020
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𝐇𝐀𝐍𝐃.𝐂𝐀𝐍𝐍𝐎𝐓.𝐄𝐑𝐀𝐒𝐄
𝐒𝐭𝐞𝐯𝐞 𝐖𝐢𝐥𝐬𝐨𝐧 (2015)
...𝑝𝑒𝑟 𝑚𝑒 𝑣𝑎 𝑏𝑒𝑛𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑚𝑢𝑠𝑖𝑐𝑎 𝑠𝑖𝑎 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟𝑎𝑡𝑎 𝑑𝑒𝑛𝑡𝑟𝑜 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑡𝑟𝑎𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑟𝑜𝑐𝑘 𝑝𝑟𝑜𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑣𝑜.
𝐻𝑎𝑛𝑑 𝐶𝑎𝑛𝑛𝑜𝑡 𝐸𝑟𝑎𝑠𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑖𝑒𝑛𝑒 𝑐𝑎𝑛𝑧𝑜𝑛𝑖 𝑝𝑒𝑟𝑓𝑒𝑡𝑡𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑝𝑜𝑝, 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒 𝑝𝑒𝑧𝑧𝑖 𝑒𝑙𝑒𝑡𝑡𝑟𝑜𝑛𝑖𝑐𝑖, 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑖𝑒𝑑𝑒 𝑚𝑜𝑙𝑡𝑒 𝑎𝑛𝑖𝑚𝑒.
(𝑆𝑡𝑒𝑣𝑒𝑛 𝑊𝑖𝑙𝑠𝑜𝑛)
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Un genio si aggira tra i corridoi musicali, giace sugli spartiti divertendosi a riempire i righi di suoni e melodie, ritmi e colori, armonie e testi, coppie binarie miscelate variamente, shakerate in diversi progetti musicali e versate nei nostri padiglioni auricolari per connettere neuroni musicali e fare rivivere classiche modalità in maniere sempre nuove.
Si dice che con il trascorrere del tempo si tende a ritrovare nella musica suoni che si sono ascoltati e apprezzati in gioventù. Non discuto la constatazione che in parte è certamente vera ed è forse la ragione che mi porta ad apprezzare particolarmente 𝐒𝐭𝐞𝐯𝐞𝐧 𝐖𝐢𝐥𝐬𝐨𝐧 (classe 1967) nei suoi album solisti e nella sua più conosciuta incarnazione artistica i 𝐏𝐨𝐫𝐜𝐮𝐩𝐢𝐧𝐞 𝐓𝐫𝐞𝐞. Altri progetti vedono e hanno visto coinvolto il nostro, questo solo per accennare alla sua poliedrica attività senza contare l’opera di rimasterizzazione di album storici (uno per tutti 𝑰𝒏 𝑻𝒉𝒆 𝑪𝒐𝒖𝒓𝒕 𝑶𝒇 𝑻𝒉𝒆 𝑪𝒓𝒊𝒎𝒔𝒐𝒏 𝑲𝒊𝒏𝒈) in occasioni di anniversari o ristampe in CD.
Varietà di colori e umori convivono nella sapienza che sa miscelare King Crimson e Genesis, stilemi Heavy e psichedelia pinkfloydiana. Quindi da questa premessa sembra confermato quanto detto sopra cioè che la dimensione nostalgica, che l’attingere a piene mani dal meglio del progressive anni ’70 possa scatenare una sorta di deja vù nell’ascoltatore un poco attempato non fosse che Wilson ha immagazzinato tutto e tutto ha restituito con un suo marchio di fabbrica, con sonorità moderne ed un approccio che non ha nulla di nostalgico o peggio ancora di scopiazzato.
La carriera solista di Wilson inizia con la pubblicazione di 𝐈𝐧𝐬𝐮𝐫𝐠𝐞𝐧𝐭𝐞𝐬 nel 2008 accennando solo al fatto che i suoi primi demo risalgono al 1983 (aveva 16 anni) e l’esordio diciamo ufficiale a nome 𝐏𝐨𝐫𝐜𝐮𝐩𝐢𝐧𝐞 𝐓𝐫𝐞𝐞 al 1991 con 𝑶𝒏 𝑻𝒉𝒆 𝑺𝒖𝒏𝒅𝒂𝒚 𝑶𝒇 𝑳𝒊𝒇𝒆.
𝐇𝐚𝐧𝐝.𝐂𝐚𝐧𝐧𝐨𝐭.𝐄𝐫𝐚𝐬𝐞 (scritto proprio così, con un punto tra una parola e l’altra, per dare un senso di mistero, ha dichiarato in una intervista) è il suo quarto album solista del 2015. Si tratta di un concept che ha come spunto di riferimento la vicenda di 𝑱𝒐𝒚𝒄𝒆 𝑪𝒂𝒓𝒐𝒍 𝑽𝒊𝒏𝒄𝒆𝒏𝒕 trovata morta nel suo appartamento quasi tre anni dopo il decesso. Una storia di solitudine, di abbandono, tragica. Una storia che si addice alla vena intimista, piuttosto introversa che mi sembra caratteristica peculiare del nostro.
Voci infantili anticipano un tema al pianoforte che è un po’ il leitmotiv del disco, note cupe finali sembrano rievocare il ritrovamento. 𝑭𝒊𝒓𝒔𝒕 𝑹𝒆𝒈𝒓𝒆𝒕/3 𝒀𝒆𝒂𝒓𝒔 𝑶𝒍𝒅𝒆𝒓 esplode con note drammatiche di mellotron e accordi di chitarra nervosi immettono nella durezza di stoccate quasi heavy. È lo sgomento, l’incredulità di chi realizza la macabra scoperta. Subentra un tema e la musica posa con toni di chitarra slide che può sembrare un pianto di sgomento. Nel testo non si parla di morte, si parla come se la persona fosse presente e ascoltasse, si accenna solo che ha tre anni in più, e che ora li avrà per sempre. E’ come se quei tre anni trascorsi da morta entrassero nel computo del tempo di una vita: mi sembra di poter cogliere un amaro senso del tragico, la morte è una presenza che ti lascia comunque invecchiare. La musica passa da momenti lirici a esplosioni di violenza impotente per una vita invecchiata di tre anni senza che nulla succedesse se non il lento decomporsi del corpo che l’ha ospitata.
𝑻𝒖 𝒅𝒆𝒗𝒊 𝒔𝒐𝒍𝒐 𝒅𝒊𝒓𝒆
𝒆 𝒊𝒍 𝒎𝒐𝒏𝒅𝒐 𝒔𝒄𝒊𝒗𝒐𝒍𝒆𝒓𝒂̀ 𝒗𝒊𝒂
𝒅𝒂 𝒕𝒆.
Il biblico 𝑭𝒊𝒂𝒕 𝒍𝒖𝒙 sembra qui tramutarsi nel suo contrario: il verbo che crea qui diventa la parola che mette fine alla vita, una
𝒗𝒊𝒕𝒂 𝒔𝒆𝒎𝒑𝒍𝒊𝒄𝒆 𝒄𝒐𝒏 𝒏𝒆𝒔𝒔𝒖𝒏𝒐 𝒄𝒐𝒏 𝒄𝒖𝒊 𝒄𝒐𝒏𝒅𝒊𝒗𝒊𝒅𝒆𝒓𝒍𝒂
𝒏𝒐𝒏 𝒆̀ 𝒄𝒐𝒎𝒑𝒍𝒊𝒄𝒂𝒕𝒐”.
Ma poco dopo il cantato recita:
𝑪𝒐𝒏𝒅𝒊𝒗𝒊𝒅𝒊 𝒄𝒐𝒏 𝒑𝒆𝒓𝒔𝒐𝒏𝒆 𝒄𝒉𝒆 𝒏𝒐𝒏 𝒉𝒂𝒊 𝒎𝒂𝒊 𝒄𝒐𝒏𝒐𝒔𝒄𝒊𝒖𝒕𝒐
dove fa capolino la poca simpatia che Wilson sembra nutrire nei confronti dei social media. Il tutto in un alternarsi di situazioni musicali, un sali e scendi di umori, cambi di tempo e colori strumentali che sanno tratteggiare rabbia e meditazioni solitarie.
La mano non può cancellare questo amore, 𝑯𝒂𝒏𝒅 𝑪𝒂𝒏𝒏𝒐𝒕 𝑬𝒓𝒂𝒔𝒆, una pura canzone fatta di dura malinconica pasta, di accordi incisivi su contrappunti di pianoforte che non addolciscono la tensione ma sembrano prepararla. Si accenna qui a e-mail bugiarde e di una colpa che si proverebbe se a volte si vuole restare da soli: nell’era della connessione continua, dei telefonini che squillano con messaggi ogni minuto, c’è la necessità di isolarsi, di disconnettersi, senza vedere che siamo già isolati. Allora solo l’amore che nessuna mano può cancellare come potrebbe cancellare un file qualsiasi, rende forti e dura nel tempo. Anche qui una forma canzone può diventare una piccola sinfonia ora cruda ora ammorbidita da note cristalline e sempre con un forte senso del ritmo.
𝑷𝒆𝒓𝒇𝒆𝒄𝒕 𝑳𝒊𝒇𝒆 incide con un recitato femminile su un ritmo ossessivo, metallico. Chi narra ha 13 anni e trova una sorella di tre anni più vecchia, che arriva una mattina di febbraio, staranno insieme sei mesi, finché lei se ne andrà e alla disperazione iniziale subentrerà una dimenticanza graduale fino a scordare tutto di lei. Si citano nel testo tre band preferite dalla sorella: 𝑫𝒆𝒂𝒅 𝑪𝒂𝒏 𝑫𝒂𝒏𝒄𝒆, 𝑭𝒆𝒍𝒕, 𝑻𝒉𝒊𝒔 𝑴𝒐𝒓𝒕𝒂𝒍 𝑪𝒐𝒊𝒍; possiamo trovare in questi nomi ulteriori influenze di Wilson oppure, con un volo pindarico leggere nel
𝑴𝒐𝒓𝒕𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒃𝒂𝒍𝒍𝒂, 𝒗𝒆𝒍𝒍𝒖𝒕𝒂𝒕𝒐, 𝒊𝒏 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒂 𝒔𝒑𝒊𝒓𝒂 𝒎𝒐𝒓𝒕𝒂𝒍𝒆
un macabro messaggio. Il cantato di Wilson recita il titolo
𝒘𝒆’𝒗𝒆 𝒈𝒐𝒕 𝒑𝒆𝒓𝒇𝒆𝒄𝒕 𝒍𝒊𝒇𝒆
la musica si addolcisce in una melodia intimista ma resta un amaro che smentisce la vita perfetta:
𝒍’𝒂𝒄𝒒𝒖𝒂 𝒏𝒐𝒏 𝒉𝒂 𝒎𝒆𝒎𝒐𝒓𝒊𝒂
e la sorella cade nell’oblio:
𝒇𝒊𝒏𝒄𝒉𝒆́ 𝒏𝒐𝒏 𝒑𝒐𝒕𝒆𝒊 𝒑𝒊𝒖̀ 𝒓𝒂𝒎𝒎𝒆𝒏𝒕𝒂𝒓𝒆 𝒊𝒍 𝒔𝒖𝒐 𝒗𝒊𝒔𝒐, 𝒍𝒂 𝒔𝒖𝒂 𝒗𝒐𝒄𝒆, 𝒆 𝒂𝒏𝒄𝒉𝒆 𝒊𝒍 𝒔𝒖𝒐 𝒏𝒐𝒎𝒆
la vista, il suono infine la memoria svaniscono. Nella vita di una sorella apparsa per essere dimenticata si riassume il destino di Joyce Carol Vincent una presenza umana che cade nell’oblio: sa di ironico il titolo del pezzo non fosse per il tono evocativo che il cantato esprime.
𝑹𝒐𝒖𝒕𝒊𝒏𝒆, dolente e sommessa, riempie il tempo con occupazioni domestiche. Nella ripetitività dell’abitudine si cerca di stordire la solitudine. Un’atmosfera plumbea in crescendo rende l’idea di mestizia che forse Wilson immagina avere accompagnato la vita della ragazza. Una serie di arpeggi allargano l’orizzonte verso una mesta rassegnazione finché un tema di chitarra aggiunge un attimo di respiro prima che una disperazione scandita da accordi heavy lasci spazio ad un cantato lirico e dolente con il pianoforte a sottolineare l’umore fino ad un urlo liberatorio che anticipa un rassegnato finale sottolineato dalla chitarra arpeggiata. La voce di 𝐍𝐢𝐧𝐞𝐭 𝐓𝐚𝐲𝐞𝐛 e i suoi vocalizzi aggiungono pathos al pezzo che forse è il più lirico dell’album con un sapiente dosaggio di atmosfere, cosa che del resto Wilson sa fare magistralmente.

Come violenti colpi di mitraglia si annuncia 𝑯𝒐𝒎𝒆 𝑰𝒏𝒗𝒂𝒔𝒊𝒐𝒏. Un pezzo nervoso, spezzato, alienato, con una lunga intro fino al tema di chitarra, che converge verso un tempo regolare e un cantato filtrato che ironizza sull’onnipresenza di internet:
𝒔𝒄𝒂𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒊𝒍 𝒔𝒆𝒔𝒔𝒐 𝒆 𝒔𝒄𝒂𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒅𝒊𝒐
𝒔𝒄𝒂𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒖𝒏𝒂 𝒄𝒂𝒔𝒂 𝒅𝒂 𝒔𝒐𝒈𝒏𝒐 𝒆 𝒖𝒏𝒂 𝒎𝒐𝒈𝒍𝒊𝒆...
tutto sembra essere a portata di mano in questa società che il grande sociologo 𝐙𝐲𝐠𝐦𝐮𝐧𝐭 𝐁𝐚𝐮𝐦𝐚𝐧𝐧 ha definito liquida, dove tutto fluisce e si scioglie nella frenesia delle informazioni. Qualcuno può morire senza che altri se ne accorgano.
𝑼𝒏 𝒂𝒍𝒕𝒓𝒐 𝒈𝒊𝒐𝒓𝒏𝒐 𝒎𝒊 𝒆̀ 𝒑𝒂𝒔𝒔𝒂𝒕𝒐 𝒂𝒄𝒄𝒂𝒏𝒕𝒐
𝒎𝒂 𝒉𝒐 𝒑𝒆𝒓𝒔𝒐 𝒐𝒈𝒏𝒊 𝒇𝒊𝒅𝒖𝒄𝒊𝒂 𝒊𝒏 𝒄𝒊𝒐̀ 𝒄𝒉𝒆 𝒗𝒊 𝒆̀ 𝒇𝒖𝒐𝒓𝒊.
Ritorniamo qui al tema centrale di tutto il disco: l’oblio che nel fluire incessante delle cose oscura tutto fino alla completa spersonalizzazione che si materializza in un motivo accattivante, suadente, leggero. Infatti il pezzo sembra prendere il volo con le tastiere che si fanno beffe della situazione tragica finché una chitarra distorta non interviene a riportare le cose al drammatico posto che compete loro. Il pezzo si scioglie nel ritorno mesto al tema iniziale di piano contrappuntato da un banjo che ne stempera la mestizia.
𝑻𝒓𝒂𝒏𝒔𝒊𝒆𝒏𝒄𝒆 parte con una chitarra arpeggiata per dirci che Wilson sa essere essenziale in una ballata acustica
𝑰𝒕’𝒔 𝒐𝒏𝒍𝒚 𝒕𝒉𝒆 𝒔𝒕𝒂𝒓𝒕,
è solo l’inizio.
𝑨𝒏𝒄𝒆𝒔𝒕𝒓𝒂𝒍 è cupa e evocativa come se il fantasma della ragazza morta presenziasse in un crescendo che si arricchisce di colori, di strumenti. Con un’evocazione di ricordi c’è una supplica a ritornare:
𝒕𝒐𝒓𝒏𝒂 𝒊𝒏𝒅𝒊𝒆𝒕𝒓𝒐 𝒔𝒆 𝒗𝒖𝒐𝒊, 𝒆 𝒓𝒊𝒄𝒐𝒓𝒅𝒂 𝒄𝒐𝒔𝒂 𝒔𝒆𝒊 𝒔𝒕𝒂𝒕𝒂
come se la volontà potesse avere la meglio sulla morte. Un’esortazione che viene contraddetta dal successivo
𝒏𝒐𝒏 𝒄’𝒆̀ 𝒏𝒊𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒑𝒆𝒓 𝒕𝒆 𝒒𝒖𝒊.
Tutta giocata su strumenti acustici flauto, piano e violino il brano è un rimprovero
𝒑𝒖𝒐𝒊 𝒔𝒆𝒓𝒓𝒂𝒓𝒆 𝒍𝒂 𝒑𝒐𝒓𝒕𝒂 𝒎𝒂 𝒏𝒐𝒏 𝒑𝒖𝒐𝒊 𝒊𝒈𝒏𝒐𝒓𝒂𝒓𝒆
𝒊𝒍 𝒕𝒖𝒐 𝒅𝒆𝒄𝒍𝒊𝒏𝒐 𝒔𝒕𝒓𝒊𝒔𝒄𝒊𝒂𝒏𝒕𝒆.
Un ostinato arpeggiato sulla sei corde si colora strada facendo di umori ma resta come un’ossessione spezzandosi in accordi heavy, spegnendosi in un sospiro doloroso. Ancestrali sono i ricordi che sembrano emergere prepotenti 𝑬 𝒅𝒐𝒑𝒐 𝒕𝒖𝒕𝒕𝒐 𝒊𝒍 𝒔𝒐𝒏𝒏𝒐 𝒄𝒂𝒅𝒆 𝒔𝒖 𝒅𝒊 𝒎𝒆.
Torna il tema di pianoforte a salutare un ritorno: 𝑯𝒂𝒑𝒑𝒚 𝑹𝒆𝒕𝒖𝒓𝒏𝒔 accompagnata in acustico dalla chitarra è un’altra ballata alla Wilson. Come se la morte non ci fosse mai stata,
𝒒𝒖𝒊 𝒏𝒊𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒆̀ 𝒄𝒂𝒎𝒃𝒊𝒂𝒕𝒐
chi parla si rivolge a un fratello.
𝑮𝒍𝒊 𝒂𝒏𝒏𝒊 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒑𝒂𝒔𝒔𝒂𝒕𝒊 𝒄𝒐𝒎𝒆 𝒖𝒏 𝒕𝒓𝒆𝒏𝒐 𝒊𝒏 𝒄𝒐𝒓𝒔𝒂...
𝒗𝒐𝒓𝒓𝒆𝒊 𝒑𝒐𝒕𝒆𝒓𝒕𝒊 𝒅𝒊𝒓𝒆 𝒄𝒉𝒆 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒔𝒕𝒂𝒕𝒂 𝒐𝒄𝒄𝒖𝒑𝒂𝒕𝒂,
𝒎𝒂 𝒔𝒂𝒓𝒆𝒃𝒃𝒆 𝒖𝒏𝒂 𝒃𝒖𝒈𝒊𝒂....
𝒎𝒊 𝒔𝒆𝒏𝒕𝒐 𝒄𝒐𝒎𝒆 𝒔𝒆 𝒂𝒗𝒆𝒔𝒔𝒊 𝒗𝒊𝒔𝒔𝒖𝒕𝒐 𝒕𝒓𝒂 𝒑𝒂𝒓𝒆𝒏𝒕𝒆𝒔𝒊....
Un coro quasi religioso conclude il disco in modo toccante a voler accompagnare la triste vicenda di morte e solitudine. In questi pochi secondi conclusivi immagino un rallenty estremo e la sorpresa e forse l’orrore di chi fa irruzione nella casa e trova un corpo ormai scheletrito e una televisione accesa da quasi tre anni: una sorpresa che nessuna mano può cancellare.
foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 28 agosto 2020
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SEVENTEEN SECONDS
THE CURE (1980)
𝒕𝒉𝒆 𝒅𝒓𝒆𝒂𝒎 𝒉𝒂𝒅 𝒕𝒐 𝒆𝒏𝒅
𝒕𝒉𝒆 𝒘𝒊𝒔𝒉 𝒏𝒆𝒗𝒆𝒓 𝒄𝒂𝒎𝒆 𝒕𝒓𝒖𝒆
(𝑺𝒆𝒗𝒆𝒏𝒕𝒆𝒆𝒏 𝑺𝒆𝒄𝒐𝒏𝒅𝒔)
I Cure alla loro seconda prova discografica iniziano a svanire, diventano figure sfocate, indistinte e ci concedono un album che apre un decennio, gli anni ’80, che verrà ricordato come edonistico, disimpegnato, e penso che questo disco possa rappresentare a grandi linee l’evanescenza delle istanze che hanno caratterizzato i due decenni precedenti. Gli anni ’80 sono stati l’epoca di Reagan e della Thatcher, e del crollo del muro di Berlino, ma tutto questo i Cure non potevano saperlo. Quel senso di ribellione e anticonformismo che il rock ha sempre recato con sé, veniva meno dopo il disordine Punk. I Cure ripiegano su sé stessi e genuinamente cantano un disagio.
Lo stato d’animo che si percepisce ascoltando 𝑺𝒆𝒗𝒆𝒏𝒕𝒆𝒆𝒏 𝑺𝒆𝒄𝒐𝒏𝒅𝒔 è di fredda immobilità, è lo stupore che congela e lascia attoniti. La musica non concede variazioni: manciate di accordi e un tappeto di tastiere (i “𝒕𝒓𝒆 𝒓𝒂𝒈𝒂𝒛𝒛𝒊 𝒊𝒎𝒎𝒂𝒈𝒊𝒏𝒂𝒓𝒊” del primo disco: 𝐑𝐨𝐛𝐞𝐫𝐭 𝐒𝐦𝐢𝐭𝐡, chitarra e voce, 𝐌𝐢𝐜𝐡𝐚𝐞𝐥 𝐃𝐞𝐦𝐩𝐬𝐞𝐲 qui sostituito da 𝐒𝐢𝐦𝐨𝐧 𝐆𝐚𝐥𝐥𝐮𝐩 al basso, 𝐋𝐚𝐮𝐫𝐞𝐧𝐜𝐞 𝐓𝐨𝐥𝐡𝐮𝐫𝐬𝐭 alla batteria, sono ora in quattro con l’aggiunta di 𝐌𝐚𝐭𝐭𝐡𝐢𝐞𝐮 𝐇𝐚𝐫𝐭𝐥𝐞𝐲 alle tastiere appunto), melodie sussurrate e un tempo scandito con la precisione di un metronomo senza fantasiosi funambolismi alla batteria. Siamo nei territori di quella che verrà definita come 𝑵𝒆𝒘 𝑾𝒂𝒗𝒆, o forse 𝑷𝒐𝒔𝒕 𝑷𝒖𝒏𝒌 (se la veda qui chi ama le classificazioni.) I Cure hanno affinato un suono, evocato delle atmosfere uniche, dipinto scenari in tinte sbiadite come la copertina del disco.
Tutto prende le mosse da una crisi esistenziale di 𝐑𝐨𝐛𝐞𝐫𝐭 𝐒𝐦𝐢𝐭𝐡, leader del gruppo, “𝑫𝒊𝒄𝒊𝒂𝒔𝒔𝒆𝒕𝒕𝒆 𝒔𝒆𝒄𝒐𝒏𝒅𝒊” che sono una misura della vita, che possono cambiarla facendoti entrare in un altro scenario. Ma questa nuova rappresentazione congela gli attori, li veste di ombre notturne, li fa vagare in case vuote, smarrirsi in una foresta, perdersi nel buio. La musica riveste di atmosfere le parole, ne fa un tutt’uno senza aperture, senza slanci, come chi fissando un punto lontano annega in uno sguardo assente e vacuo.
Il disco prende l’avvio con una “𝑨 𝑹𝒆𝒇𝒍𝒆𝒄𝒕𝒊𝒐𝒏” una riflessione strumentale, tre note che emergono dalla nebbia, si fanno spazio nel nuovo decennio, timide, con passo cauto, percorrono sentieri meditativi; verso la fine si percepisce un lamento, un pianto che si dissolve e lascia spazio al tempo scandito, serrato e a una chitarra che emana vapori cristallini con accordi nervosi, appena mitigati da una melodia minimale e tenue alle tastiere, ci fa capire che stiamo entrando in un altro umore, si apre una porta che non avremmo pensato di varcare, è solo “𝑷𝒍𝒂𝒚 𝒇𝒐𝒓 𝑻𝒐𝒅𝒂𝒚” il gioco odierno:
“𝑰𝒍 𝒑𝒓𝒐𝒃𝒍𝒆𝒎𝒂 𝒏𝒐𝒏 𝒆̀ 𝒇𝒂𝒓𝒆 𝒍𝒆 𝒄𝒐𝒔𝒆 𝒈𝒊𝒖𝒔𝒕𝒆
𝒆̀ 𝒒𝒖𝒆𝒍𝒍𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒎𝒊 𝒔𝒆𝒏𝒕𝒐 𝒅𝒊 𝒇𝒂𝒓𝒆 𝒄𝒉𝒆 𝒄𝒐𝒏𝒕𝒂”,
e ancora
“𝑰𝒍 𝒑𝒓𝒐𝒃𝒍𝒆𝒎𝒂 𝒏𝒐𝒏 𝒆̀ 𝒅𝒊𝒗𝒊𝒅𝒆𝒓𝒆 𝒆𝒒𝒖𝒂𝒎𝒆𝒏𝒕𝒆
𝒊𝒐 𝒑𝒓𝒆𝒏𝒅𝒐 𝒄𝒊𝒐̀ 𝒅𝒊 𝒄𝒖𝒊 𝒉𝒐 𝒃𝒊𝒔𝒐𝒈𝒏𝒐”,
un inno all’ individualismo? Forse, certo una discesa nell’io più egoistico, una nuova finzione odierna che una musica senza concessioni alle aperture, agli assoli, ingabbia nell’autocontemplazione.
Annunciato dal basso “𝑺𝒆𝒄𝒓𝒆𝒕𝒔” ci conduce con una voce sdoppiata come un’eco in altri territori nebbiosi e freddi dai colori sfocati, una linea melodica tenue giocata tra chitarra e basso con il pianoforte che rammenda con accordi isolati per accennare un tema che potresti soffiare via ma che aderisce al tuo inconscio.
“𝑰𝒏 𝒚𝒐𝒖𝒓 𝒉𝒐𝒖𝒔𝒆” prende il via con un ritmo lontano, e una chitarra arpeggiata che accompagna ipnoticamente tutto il pezzo con le tastiere che suggeriscono una melodia che evoca l’evaporare di nebbie e il baluginare di qualche finestra fiocamente illuminata.
“𝑮𝒊𝒐𝒄𝒐 𝒅𝒊 𝒏𝒐𝒕𝒕𝒆 𝒏𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒕𝒖𝒂 𝒄𝒂𝒔𝒂 𝒗𝒊𝒗𝒐 𝒖𝒏’𝒂𝒍𝒕𝒓𝒂 𝒗𝒊𝒕𝒂.
𝑪𝒂𝒎𝒃𝒊𝒐 𝒊𝒍 𝒕𝒆𝒎𝒑𝒐 𝒏𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒕𝒖𝒂 𝒄𝒂𝒔𝒂...
𝒂𝒏𝒏𝒆𝒈𝒐 𝒅𝒊 𝒏𝒐𝒕𝒕𝒆 𝒏𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒕𝒖𝒂 𝒄𝒂𝒔𝒂 𝒑𝒓𝒆𝒕𝒆𝒏𝒅𝒐 𝒅𝒊 𝒏𝒖𝒐𝒕𝒂𝒓𝒆 𝒏𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒕𝒖𝒂 𝒄𝒂𝒔𝒂”.
In questa casa si aggira una figura spettrale tra le ombre, nelle stanze vuote e silenziose, qualcuno in grado di variare il corso degli eventi e di vivere un’altra vita. Una casa che si trasforma in un oceano in cui si annega pretendendo di nuotare.
“𝑻𝒉𝒓𝒆𝒆” si concretizza da note di piano isolate per solidificarsi in un ritmo sincopato e nella voce con un testo indecifrabile che proviene da profondità angoscianti.
“𝑻𝒉𝒆 𝑭𝒊𝒏𝒂𝒍 𝑺𝒐𝒖𝒏𝒅”: accordi di piano come un clavicembalo si dissolvono in “𝑨 𝑭𝒐𝒓𝒆𝒔𝒕” che emerge dalle brume con arpeggio di chitarra su un sostegno sonoro che ci fa perdere tra tronchi e raggi di luce che trapelano tra le fronde, poi inizia una sorta di corsa affannosa e ci vediamo correre tra arbusti e rami spezzati.
“𝑨𝒗𝒗𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒕𝒊 𝒆 𝒈𝒖𝒂𝒓𝒅𝒂, 𝒈𝒖𝒂𝒓𝒅𝒂 𝒏𝒆𝒍 𝒃𝒖𝒊𝒐....
𝑺𝒆𝒈𝒖𝒊 𝒊𝒍 𝒕𝒖𝒐 𝒔𝒈𝒖𝒂𝒓𝒅𝒐...
𝒔𝒆𝒏𝒕𝒐 𝒍𝒂 𝒔𝒖𝒂 𝒗𝒐𝒄𝒆 𝒄𝒉𝒊𝒂𝒎𝒂𝒓𝒎𝒊 𝒆 𝒊𝒏𝒊𝒛𝒊𝒐 𝒂 𝒄𝒐𝒓𝒓𝒆𝒓𝒆 𝒕𝒓𝒂 𝒈𝒍𝒊 𝒂𝒍𝒃𝒆𝒓𝒊”:
un fantasma che si rivelerà essere una ragazza mai trovata...
“𝑬’ 𝒔𝒆𝒎𝒑𝒓𝒆 𝒍𝒐 𝒔𝒕𝒆𝒔𝒔𝒐 𝒄𝒐𝒓𝒓𝒆𝒓𝒆 𝒗𝒆𝒓𝒔𝒐 𝒊𝒍 𝒏𝒖𝒍𝒍𝒂, 𝒂𝒏𝒄𝒐𝒓𝒂 𝒆 𝒂𝒏𝒄𝒐𝒓𝒂.....”
la chitarra sembra avere un moto di rabbia mentre il ritmo batte imperterrito, poi rallenta come se l’impeto si stesse smorzando, rallenta fino a dissolversi con una coda di basso. L’immagine di chi si ferma da solo in una foresta e capisce di essersi smarrito può sembrare persino stereotipata ma i Cure sanno rigenerare un cliché: non si percepisce spavento o tristezza ma ancora una volta un attonito fermarsi sul posto e contemplare sapendo di svanire, o forse percependo che l’incubo sta per finire sfumando nelle nebbie del risveglio.
Ma “𝑴” arriva con accordi un poco più leggeri.
“𝑪𝒊𝒂𝒐 𝒊𝒎𝒎𝒂𝒈𝒊𝒏𝒆... 𝒕𝒊 𝒊𝒏𝒏𝒂𝒎𝒐𝒓𝒆𝒓𝒂𝒊 𝒅𝒊 𝒒𝒖𝒂𝒍𝒄𝒖𝒏 𝒂𝒍𝒕𝒓𝒐 𝒂𝒏𝒄𝒐𝒓𝒂 𝒔𝒕𝒂𝒏𝒐𝒕𝒕𝒆.”
Una presa di coscienza
“𝑭𝒂𝒊 𝒖𝒏 𝒑𝒂𝒔𝒔𝒐 𝒎𝒂 𝒆̀ 𝒔𝒆𝒎𝒑𝒓𝒆 𝒊𝒏𝒅𝒊𝒆𝒕𝒓𝒐...𝑬 𝒔𝒆𝒊 𝒑𝒓𝒐𝒏𝒕𝒐 𝒑𝒆𝒓 𝒊𝒍 𝒑𝒓𝒐𝒔𝒔𝒊𝒎𝒐 𝒂𝒕𝒕𝒂𝒄𝒄𝒐”.
Si fa appello qui ad un’immagine, un simulacro, e ancora sotto gli accordi della chitarra prende corpo la melodia evanescente come l’immagine evocata.
“𝑨𝒕 𝑵𝒊𝒈𝒉𝒕 ” si annuncia con un suono sporco, e una lieve melodia che si arriccia per espandersi:
“𝒂𝒏𝒏𝒆𝒈𝒐 𝒏𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒏𝒐𝒕𝒕𝒆....
𝑺𝒆𝒏𝒕𝒐 𝒊𝒍 𝒈𝒆𝒍𝒐 𝒅𝒊 𝒈𝒉𝒊𝒂𝒄𝒄𝒊𝒐 𝒔𝒖𝒍𝒍𝒂 𝒎𝒊𝒂 𝒇𝒂𝒄𝒄𝒊𝒂...
𝒈𝒖𝒂𝒓𝒅𝒐 𝒍𝒆 𝒐𝒓𝒆 𝒄𝒉𝒆 𝒔𝒆 𝒏𝒆 𝒗𝒂𝒏𝒏𝒐”.
In questo lavoro i Cure hanno un’aderenza così precisa ed evocatrice tra testi e musica che viene da pensare tutto sia nato nel medesimo tempo, una simbiosi dove mai la musica viene prima del testo o viceversa ma tutto scaturisce dall’immediato, quasi che l’urgenza non permettesse di costruire una cosa sopra l’altra. I “𝑅𝑎𝑔𝑎𝑧𝑧𝑖 𝑖𝑚𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑎𝑟𝑖” sfocano in un rimando di interno-esterno. Annegare, nuotare, verbi in antitesi, un’incertezza che non sa dove aggrapparsi; gelo e notte, case dove colei che si è perduta dorme al sicuro mentre chi aspetta è fuori, preda dei pericoli, coperto nel buio. Potrebbe quasi sembrare un racconto gotico ma l’atmosfera non incute paura, semmai la neutralizza in un’assenza di sentimenti.
“𝑰𝒍 𝒕𝒆𝒎𝒑𝒐 𝒔𝒄𝒊𝒗𝒐𝒍𝒂 𝒗𝒊𝒂, 𝒆 𝒍𝒂 𝒍𝒖𝒄𝒆 𝒅𝒊𝒗𝒆𝒏𝒕𝒂 𝒇𝒊𝒐𝒄𝒂, 𝒐𝒓𝒂 𝒕𝒖𝒕𝒕𝒐 𝒆̀ 𝒄𝒂𝒍𝒎𝒂.”
Sono i primi versi del brano che intitola il disco, “𝑺𝒆𝒗𝒆𝒏𝒕𝒆𝒆𝒏 𝑺𝒆𝒄𝒐𝒏𝒅𝒔”: con accordi accentati di chitarra sulla sincope della batteria e un basso dolente e quasi dispiaciuto, prende il via una sorta di passo cadenzato con lo sguardo fisso in avanti fino a rallentare in un epilogo che ritorna al battito iniziale come un cerchio che si chiude; diresti che al termine del brano e del disco quel colpo di grancassa ti chiuda in faccia una porta. Oltre il senso immediato si legge un significato direi politico: passano gli anni e tutto si sfoca fino a una calma che raffredda ogni slancio ("𝒊𝒍 𝒔𝒆𝒏𝒕𝒊𝒎𝒆𝒏𝒕𝒐 𝒔𝒆 𝒏𝒆 𝒆̀ 𝒂𝒏𝒅𝒂𝒕𝒐... 𝒆 𝒕𝒖𝒕𝒕𝒐 𝒆̀ 𝒇𝒓𝒆𝒅𝒅𝒐 𝒐𝒓𝒂")” Il pezzo chiude il disco e ne riassume il significato: in una crisi personale si riflette la crisi di una generazione, lo slancio del rinnovamento si congela. Gli anni ottanta appena nati sono già interiorizzati da Smith e compagni che anticipano senza reagire il venir meno di ideali, senz’altro confusi e mai o poco sistematizzati in organizzazioni. Anticipano dando voce ad un dramma personale l’infiacchirsi della spinta delle generazioni precedenti.
Verrà, un anno dopo, 𝐅𝐚𝐢𝐭𝐡, album stilisticamente affine a quello in questione, dove allo sguardo attonito si aggiunge un certo sentimento di malinconica reazione....ma avremo occasione di parlarne.
foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 31luglio2020
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ASTROLABIO
Garybaldi (1973)
“𝐻𝑜 𝑠𝑜𝑔𝑛𝑎𝑡𝑜 𝑖𝑠𝑜𝑙𝑒 𝑙𝑜𝑛𝑡𝑎𝑛𝑒 𝑒 𝑑𝑜𝑛𝑛𝑒 𝑓𝑒𝑙𝑖𝑐𝑖,
𝐶𝑎𝑛𝑑𝑖𝑑𝑖 𝑣𝑒𝑙𝑖𝑒𝑟𝑖 𝑎𝑑𝑎𝑔𝑖𝑎𝑡𝑖 𝑝𝑒𝑟 𝑙’𝑒𝑡𝑒𝑟𝑛𝑖𝑡𝑎̀,
𝑇𝑟𝑒𝑐𝑐𝑒 𝑑𝑖 𝑔𝑎𝑏𝑏𝑖𝑎𝑛𝑖 𝑖𝑛𝑐𝑟𝑜𝑐𝑖𝑎𝑟𝑠𝑖 𝑛𝑒𝑙 𝑐𝑖𝑒𝑙𝑜, 𝑙𝑎𝑔𝑔𝑖𝑢̀,
𝑃𝑟𝑒𝑐𝑖𝑝𝑖𝑡𝑎𝑟𝑠𝑖 𝑛𝑒𝑙𝑙’𝑎𝑐𝑞𝑢𝑎 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑔𝑜𝑐𝑐𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑖𝑜𝑔𝑔𝑖𝑎.”
(𝑀𝑎𝑑𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑠𝑒 𝑝𝑒𝑟𝑑𝑢𝑡𝑒)
Nel rock di casa nostra, il periodo storico vede il dominio di una manciata di gruppi che ne hanno istituito le fondamenta. Parlo di 𝐏𝐫𝐞𝐦𝐢𝐚𝐭𝐚 𝐅𝐨𝐫𝐧𝐞𝐫𝐢𝐚 𝐌𝐚𝐫𝐜𝐨𝐧𝐢, 𝐁𝐚𝐧𝐜𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐌𝐮𝐭𝐮𝐨 𝐒𝐨𝐜𝐜𝐨𝐫𝐬𝐨, 𝐋𝐞 𝐎𝐫𝐦𝐞, 𝐀𝐫𝐞𝐚, per citare quelli forse più conosciuti, e poi molti che i sedimenti hanno conservato e che scavi devono riportare alla luce.
Quindi, 𝐆𝐚𝐫𝐲𝐛𝐚𝐥𝐝𝐢: chi ne ha sentito parlare? Ovviamente non è l’eroe dei due mondi e quella ipsilon non è un errore di battuta ma la lettera che distingue un gruppo che nel 1973 uscì con questo secondo album: 𝐀𝐬𝐭𝐫𝐨𝐥𝐚𝐛𝐢𝐨 che è a mio avviso una di quelle perle che se ne stanno chiuse tra le valve della conchiglia del rock italiano.
Purtroppo il lavoro sconta la concorrenza con il primo e più celebrato album, 𝐍𝐮𝐝𝐚 dalla copertina opera della matita di 𝐆𝐮𝐢𝐝𝐨 𝐂𝐫𝐞𝐩𝐚𝐱 che ha disegnato una 𝐕𝐚𝐥𝐞𝐧𝐭𝐢𝐧𝐚 gigante tra lillipuziani che richiama il titolo col suo abito adamitico. A mio avviso Nuda risente di una certa ingenuità e frammentarietà con due brani “𝑴𝒂𝒚𝒂 𝑫𝒆𝒔𝒏𝒖𝒅𝒂” e “𝑳’𝒖𝒍𝒕𝒊𝒎𝒂 𝒑𝒓𝒆𝒛𝒊𝒐𝒔𝒂” che sembrano giocare con una certa leggerezza adolescenziale.
𝐀𝐬𝐭𝐫𝐨𝐥𝐚𝐛𝐢𝐨 è un disco con due brani, uno per facciata (facendo riferimento al vinile), uno in studio e il secondo sempre in studio ma in una performance dal vivo e una copertina tanto anonima quanto è bella e autoriale quella del disco precedente.
La parola del titolo si riferisce ad uno strumento astronomico che consente di localizzare e calcolare la posizione dei corpi celesti che sembra alludere ad una ricerca di direzione, una necessità di orientarsi.
Gli anni ’70 in Italia sono stati definiti gli anni di piombo per la nascita del terrorismo, per attentati e una certa violenza politica diffusa. La militanza politica, all’epoca assai sentita, creava estremismi, l’ondata pacifista sembrava ormai lontana. La guerra nel Vietnam nel 1973 stava per finire ma i morti e le distruzioni lasciavano l’amaro in bocca. Sembrava che si dovesse per forza prendere una posizione: o alzare le barricate o tacere, era come se vie di mezzo non ci fossero: o si veniva assorbiti nel “sistema”, e questo non lo si voleva, oppure si impugnavano le armi, e questo neppure lo si voleva; vi era una terza via: smarrirsi in qualche utopia, oppure cercare.
Si cerca ciò che si perde e ciò che si perde per definizione non è più trovabile, non è smarrimento che presuppone un ritrovamento: la perdita è definitiva, è per sempre.
“𝑳𝒂 𝑵𝒂𝒕𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒆𝒍𝒍’𝒖𝒐𝒎𝒐, 𝒏𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒔𝒖𝒂 𝒇𝒓𝒆𝒅𝒅𝒂 𝒆 𝒄𝒂𝒍𝒄𝒐𝒍𝒂𝒕𝒂 𝒆𝒗𝒐𝒍𝒖𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒆̀ 𝒎𝒂𝒅𝒓𝒆 𝒅𝒊 𝒄𝒐𝒔𝒆 𝒑𝒆𝒓𝒅𝒖𝒕𝒆, 𝒑𝒆𝒓 𝒔𝒆𝒎𝒑𝒓𝒆”, suggeriscono i Garybaldi in una nota all’interno della copertina.
𝐌𝐚𝐝𝐫𝐞 𝐝𝐢 𝐜𝐨𝐬𝐞 𝐩𝐞𝐫𝐝𝐮𝐭𝐞, è la suite della durata di 20 minuti che dà inizio all’opera. Echi, suoni sparsi, corde pizzicate, che prendono corpo su un giro di basso, le tastiere intessono un preludio, la chitarra ricama fraseggi. Navighiamo in territori d’atmosfera come il sogno della canzone, uno scenario immobile finché una cavalcata fa emergere il tema, dolente e pacato con la batteria che scandisce un 4/4 quasi svogliato, un ritmo lineare scandito con passo leggero. Un farsi e rifarsi, uno sfaldarsi per riprendere consistenza dopo due note con eco delle tastiere, con un rumore di risacca a intessere ricami informi. Abbiamo a che fare con un hendrixiano, con echi psichedelici di rock tedesco.
Una cifra del “𝒑𝒓𝒐𝒈𝒓𝒆𝒔𝒔𝒊𝒗𝒆” (qualcuno lo definisce Rock Sinfonico) e del rock in generale è questo ricercarsi in una melodia, il riff a volte prende forma come per caso, dopo tentativi, è una forma di anarchia che libera le note in singoli suoni per aggregarle infine in una forma. È in fondo il farsi di un organismo: cellule che si moltiplicano, singolarità che diventa corpo, una costruzione molecolare che pone questa musica alle origini del suono.
La funzione della musica è un ritrovare la strada che pareva perduta per sempre.
L’astrolabio dei Garybaldi ci guida dunque, o meglio ci fa perdere nei meandri galattici di un tempo senza tempo, si naviga a vista, apparentemente, in realtà si guida la barca in quel "𝒑𝒐𝒓𝒕𝒐 𝒔𝒆𝒏𝒛𝒂 𝒎𝒂𝒓𝒆 𝒎𝒂 𝒄𝒐𝒏 𝒕𝒂𝒏𝒕𝒊 𝒎𝒂𝒓𝒊𝒏𝒂𝒊”, dove la “𝒎𝒂𝒅𝒓𝒆 𝒅𝒊 𝒄𝒐𝒔𝒆 𝒑𝒆𝒓𝒅𝒖𝒕𝒆” ci ha lasciato.
Una genitrice che non dona vita ma smarrimenti: ci si ritrova senza memoria, senza referenti, esistono i marinai ma non il mare: ma se esiste una funzione vi deve essere stato un tempo in cui questa funzione aveva un referente, porto e marinai hanno perso l’oggetto del loro stesso esistere, essi sono di fronte a un nulla, “𝒊𝒐 𝒏𝒐𝒏 𝒄𝒂𝒑𝒊𝒔𝒄𝒐”, dice il narratore che ha “𝒄𝒐𝒏𝒐𝒔𝒄𝒊𝒖𝒕𝒐 𝒍𝒂 𝒗𝒊𝒕𝒂 𝒆𝒅 𝒊𝒍 𝒕𝒆𝒎𝒑𝒐, 𝒗𝒆𝒍𝒊𝒆𝒓𝒊 𝒂𝒅𝒂𝒈𝒊𝒂𝒕𝒊 𝒑𝒆𝒓 𝒍’𝒆𝒕𝒆𝒓𝒏𝒊𝒕𝒂̀,” una immobilità che pone un freno al mutare delle cose, sospende l’angoscia di un mutamento irreversibile che ci porta sempre un poco più in là nel tempo, che ci fa perdere di vista.
“𝑨𝒎𝒊𝒄𝒊 𝒄𝒂𝒓𝒊, 𝒊𝒐 𝒏𝒐𝒏 𝒄𝒂𝒑𝒊𝒔𝒄𝒐...𝒉𝒐 𝒄𝒐𝒏𝒐𝒔𝒄𝒊𝒖𝒕𝒐 𝒍𝒂 𝒗𝒊𝒕𝒂 𝒆𝒅 𝒊𝒍 𝒕𝒆𝒎𝒑𝒐....𝒊𝒏 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒂 𝒏𝒐𝒕𝒕𝒆 𝒕𝒖𝒕𝒕𝒐 𝒆̀ 𝒖𝒏 𝒊𝒏𝒄𝒂𝒏𝒕𝒐 𝒆𝒅 𝒊𝒐 𝒏𝒐𝒏 𝒗𝒐𝒈𝒍𝒊𝒐 𝒔𝒗𝒆𝒈𝒍𝒊𝒂𝒓𝒎𝒊.” Quindi il sogno è la dimensione più vera dell’esistenza.
Ma il sogno imprigiona perché una forza esterna ti fa smarrire nella tua stessa casa, nel “𝐜𝐚𝐬𝐭𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐝𝐢 𝐢𝐛𝐢𝐬” che il narratore della seconda suite (21 minuti e 30) 𝐒𝐞𝐭𝐭𝐞? si è costruito. Il sistema, una entità che ci sovrasta e che ha la meglio sulle nostre vite. Il sistema, un termine che forse non si usa più per designare il potere che sovrintende a tutti noi. Una forma di anarchia sembra essere l’unica strada che porta fuori dal sistema, una disorganizzazione individualistica che si tramuta in una musica dall’andamento inquietante e dal finale caotico. Sette, un numero misterioso che definisce un nemico, i peccati capitali di una società che si rifiuta ma a cui ci si oppone a prezzo di smarrimenti.
L’unisono tra cantato e chitarra, hendrixiano, riporta a una unità di intenti tra testo e musica, un fondersi tra due enunciati che viaggiando di conserva legano il detto (la parola) al non detto (la musica) in un connubio indissolubile per poi prendere strade parallele. Se tutti siamo prigionieri del “𝑺𝒊𝒔𝒕𝒆𝒎𝒂” rischiamo di farci imprigionare dalle note che a quel sistema vorrebbero opporsi, per sciogliere un legame che potrebbe essere fatale, si deve liberare la musica dalle pastoie del tempo. “𝑫𝒆𝒏𝒕𝒓𝒐 𝒊 𝒎𝒊𝒆𝒊 𝒔𝒐𝒈𝒏𝒊 𝒊𝒍 𝒔𝒊𝒔𝒕𝒆𝒎𝒂 𝒔𝒊 𝒎𝒖𝒕𝒂 𝒊𝒏 𝒑𝒂𝒍𝒍𝒊𝒅𝒊 𝒔𝒖𝒐𝒏𝒊, 𝒔𝒖𝒐𝒏𝒊 𝒅𝒊𝒔𝒕𝒂𝒏𝒕𝒊 𝒅𝒊 𝒖𝒏𝒐 𝒔𝒒𝒖𝒂𝒍𝒍𝒊𝒅𝒐 𝒗𝒂𝒍𝒛𝒆𝒓”, ma per prendere in giro il sistema ci si imprigiona nel proprio castello di ibis. Un su e giù per interminabili scale, per infiniti corridoi anche il suono fatica a liberarsi, si incatena, non ritrova più sé stesso.
La lotta tra il sistema, e i suoi sette misteriosi aguzzini si alimenta di dialoghi tra chitarra e tastiere, di un suono elettrico e gridato come se la chitarra assumesse la funzione liberatrice che le è propria, fino a quel risolversi nel finale in una versione di 𝐹𝑟𝑎̀ 𝑀𝑎𝑟𝑡𝑖𝑛𝑜 𝐶𝑎𝑚𝑝𝑎𝑛𝑎𝑟𝑜, notissima filastrocca infantile, ninna nanna per bambini, un ritorno all’infanzia, all’inconsapevolezza del sonno.
Ho accennato al 𝑷𝒓𝒐𝒈𝒓𝒆𝒔𝒔𝒊𝒗𝒆 o 𝑹𝒐𝒄𝒌 𝑺𝒊𝒏𝒇𝒐𝒏𝒊𝒄𝒐, cifra che forse non appartiene totalmente ai Garybaldi essendo il loro stile prettamente chitarristico più fedele ad un rock che si appoggia su ritmi regolari, senza le coloriture, le variazioni, i cambi di tempo che caratterizzano il Progressive; di Progressive mantengono un approccio melodico importante.
𝐍𝐢𝐜𝐜𝐨𝐥𝐨̀ “𝐁𝐚𝐦𝐛𝐢” 𝐅𝐨𝐬𝐬𝐚𝐭𝐢, chitarrista e leader del gruppo, si è addormentato per sempre nel giugno del 2014, fuggito dal castello di ibis all’età di 65 anni, forse è rimasto lo stesso sognatore anti sistema che è stato allora, forse la malattia che lo ha stroncato lo ha cambiato, questo non lo sappiamo, certo la genuina ingenuità dei 𝐆𝐚𝐫𝐲𝐛𝐚𝐥𝐝𝐢, che oltre a lui sono stati: 𝐒𝐚𝐧𝐝𝐫𝐨 𝐒𝐞𝐫𝐫𝐚, basso e voce; 𝐌𝐚𝐮𝐫𝐢𝐳𝐢𝐨 𝐂𝐚𝐬𝐬𝐢𝐧𝐞𝐥𝐥𝐢, batteria e voce e 𝐋𝐢𝐨 𝐌𝐚𝐫𝐜𝐡𝐢 alle tastiere, merita di essere riscoperta e rinverdita, ripescata dalla gloriosa nicchia del rock nostrano.
foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 24luglio2020
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𝐋𝐀 𝐌𝐔𝐒𝐈𝐂𝐀 𝐂𝐇𝐄 𝐒𝐔𝐎𝐍𝐀 𝐃𝐄𝐍𝐓𝐑𝐎
𝐐𝐔𝐀𝐍𝐃𝐎 𝐋𝐄 𝐋𝐔𝐂𝐈 𝐒𝐈 𝐑𝐈𝐀𝐂𝐂𝐄𝐍𝐃𝐎𝐍𝐎

Omaggio a Ennio Morricone
Non avrei potuto esimermi dallo scrivere un omaggio a 𝐄𝐧𝐧𝐢𝐨 𝐌𝐨𝐫𝐫𝐢𝐜𝐨𝐧𝐞,: perché Morricone non era solo un compositore di “musiche da film” ma era un “Compositore” senza attributi né aggettivi che ne potrebbero limitare la portata; perché ciò che ha composto non si esaurisce con la parola fine al termine della proiezione ma prosegue dopo che le luci in sala si sono riaccese; perché ci siamo accorti già da tempo che senza le musiche di Morricone, senza il loro potere di presentarsi in modo così incisivo al film delle nostre vite mancherebbe quella colonna sonora che si colloca a metà strada tra la trama ed il suono stesso: l’indicibile.
Scrivere di Morricone malgrado il genere di musica che tratto in questa rubrica? Ma questa rubrica ha l’ambizione di trascendere i generi anche se ha un genere a cui fa riferimento, il Rock appunto, ma se si getta uno sguardo oltre si vedrà che questo genere, più di ogni altro, va' oltre i generi, li travalica, si contamina e contamina, e quindi sotto questo aspetto Morricone è dei nostri!
Si penserà che chi scrive questa rubrica abbia nelle orecchie tra i suoi primi ascolti, forse i 𝐁𝐞𝐚𝐭𝐥𝐞𝐬, o 𝐂𝐡𝐮𝐜𝐤 𝐁𝐞𝐫𝐫𝐲, i 𝐑𝐨𝐥𝐥𝐢𝐧𝐠 𝐒𝐭𝐨𝐧𝐞𝐬: ebbene no, uno dei primi (forse proprio il primo) cerchio di vinile che ha girato sul mio vecchio giradischi mono è stato proprio lui, 𝐌𝐨𝐫𝐫𝐢𝐜𝐨𝐧𝐞, con il tema di 𝑷𝒆𝒓 𝒒𝒖𝒂𝒍𝒄𝒉𝒆 𝒅𝒐𝒍𝒍𝒂𝒓𝒐 𝒊𝒏 𝒑𝒊𝒖̀, la musica è venuta prima del film. Quel carillon che accompagna il duello, la scatola musicale che carica di tensione le sequenze, si è impressa nella mente del bambino che allora ero e non se ne è più andata.
La carriera di Morricone conta la composizione di centinaia di musiche, in tutte il suo stile è inconfondibile, il suo tocco magico riconoscibile negli stilemi che sono solo suoi, ovviamente non conosco tutti i suoi lavori quindi vorrei soffermarmi sulla collaborazione con 𝐒𝐞𝐫𝐠𝐢𝐨 𝐋𝐞𝐨𝐧𝐞: una accoppiata artistica consustanziale, termine mutuato dalla teologia ma che rende bene l’idea: con-sostanza, non un vestito che può essere sostituito ma una presenza irrinunciabile, come 𝐅𝐞𝐥𝐥𝐢𝐧𝐢-𝐑𝐨𝐭𝐚, come 𝐋𝐢𝐧𝐜𝐡-𝐁𝐚𝐝𝐚𝐥𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐢; in musica come 𝐋𝐞𝐧𝐧𝐨𝐧-𝐌𝐜𝐂𝐚𝐫𝐭𝐧𝐞𝐲, 𝐉𝐚𝐠𝐠𝐞𝐫-𝐑𝐢𝐜𝐡𝐚𝐫𝐝𝐬, 𝐁𝐚𝐭𝐭𝐢𝐬𝐭𝐢-𝐌𝐨𝐠𝐨𝐥... e via di questo passo.
Nei sei film che Morricone ha musicato per Sergio Leone a mio avviso si realizza la commistione che vede la musica da film non del tutto subordinata alla pellicola, ma vede quest’ultima ispirarsi alla musica stessa e adeguarsi in parte ad essa.
Morricone ha creato un sound: quale pezzo musicale si era mai sentito che iniziasse con uno scacciapensieri? I temi brillano con il timbro squillante della tromba, hanno sapori diversi, colori diversi, sono intensi come le inquadrature di Leone e si muovono allo stesso ritmo del montaggio. Penso all' "𝑒𝑠𝑡𝑎𝑠𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙’𝑜𝑟𝑜" (𝑰𝒍 𝑩𝒖𝒐𝒏𝒐, 𝑰𝒍 𝑩𝒓𝒖𝒕𝒕𝒐, 𝑰𝒍 𝑪𝒂𝒕𝒕𝒊𝒗𝒐) con il Brutto che corre tra le tombe del cimitero; al “Triello” finale nello stesso film....ma estrapolare degli esempi è riduttivo perché è come se Morricone imponesse anche il proprio sguardo ai registi che lo coinvolgono a musicare le loro pellicole.
Morricone non era un tragico, la sua sensibilità lievitava piuttosto in un’atmosfera di ironia malinconica, se l’accostamento tra questi due stati d’animo non apparisse azzardato; l’uso delle voci nei suoi brani passa da un registro ironico, all’elegia, ad evocazioni che rivelano il non detto. I suoi temi non sono mai “neri”. Anche in pellicole come 𝑰𝒏𝒅𝒂𝒈𝒊𝒏𝒆 𝒔𝒖 𝒖𝒏 𝒄𝒊𝒕𝒕𝒂𝒅𝒊𝒏𝒐 𝒂𝒍 𝒅𝒊 𝒔𝒐𝒑𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝒐𝒈𝒏𝒊 𝒔𝒐𝒔𝒑𝒆𝒕𝒕𝒐 che pure potrebbe giustificare un tono noir, la musica assume un andamento da marcetta, con interventi beffeggianti di ottoni. La reminiscenza di carattere proustiano di 𝑪’𝒆𝒓𝒂 𝒖𝒏𝒂 𝒗𝒐𝒍𝒕𝒂 𝒊𝒏 𝑨𝒎𝒆𝒓𝒊𝒄𝒂 - la sequenza dove “Noodle” (𝐑𝐨𝐛𝐞𝐫𝐭 𝐃𝐞𝐍𝐢𝐫𝐨) che ritorna anni dopo nel bar gestito dal fratello di una sua antica fiamma (Deborah), alla domanda del barista:
𝐶𝑜𝑠𝑎 ℎ𝑎𝑖 𝑓𝑎𝑡𝑡𝑜 𝑖𝑛 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑖 𝑎𝑛𝑛𝑖?
Risponde
𝑆𝑜𝑛𝑜 𝑎𝑛𝑑𝑎𝑡𝑜 𝑎 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑙𝑎 𝑠𝑒𝑟𝑎
citazione dall’incipit della 𝑹𝒊𝒄𝒆𝒓𝒄𝒂 𝒅𝒆𝒍 𝒕𝒆𝒎𝒑𝒐 𝒑𝒆𝒓𝒅𝒖𝒕𝒐 - la reminiscenza dicevo è forse la cifra maggiore delle sue composizioni a carattere “largo” con melodie e arrangiamenti che lasciano spazio a drammatiche venature malinconiche.
Penso a 𝑪’𝒆𝒓𝒂 𝒖𝒏𝒂 𝒗𝒐𝒍𝒕𝒂 𝒊𝒍 𝑾𝒆𝒔𝒕 (il più bel western della storia del cinema? Sì, per me è questo), dove la dimensione fiabesca che il titolo sembra richiamare è dissolta nel malinconico dramma di “Jill” (𝐂𝐥𝐚𝐮𝐝𝐢𝐚 𝐂𝐚𝐫𝐝𝐢𝐧𝐚𝐥𝐞) a cui è accostato, a mio avviso, il tema più commovente e forse tra i più conosciuti e suonati di Morricone; 𝑳’𝒖𝒐𝒎𝒐 𝒅𝒆𝒍𝒍’𝒂𝒓𝒎𝒐𝒏𝒊𝒄𝒂 (𝐂𝐡𝐚𝐫𝐥𝐞𝐬 𝐁𝐫𝐨𝐧𝐬𝐨𝐧) altro titolo musicale del film, con quel tema che sembra provenire da un pianto lontano, e l’orchestra in crescendo che contrappunta fino all’irrompere della chitarra (ma non è quasi un riff rock?); e che dire del tema che accompagna “𝐶ℎ𝑒𝑦𝑒𝑛𝑛𝑒” (𝐉𝐚𝐬𝐨𝐧 𝐑𝐨𝐛𝐚𝐫𝐝𝐬) un banjo e un fischio, come l’andatura lenta di un cavallo, passi verso una fine serena.
L’ironia sottesa ai film di Leone, un certo carattere scanzonato, si traduce nell’urlo nel tema de 𝑰𝒍 𝑩𝒖𝒐𝒏𝒐, 𝑰𝒍 𝑩𝒓𝒖𝒕𝒕𝒐, 𝑰𝒍 𝑪𝒂𝒕𝒕𝒊𝒗𝒐 , nel tema di 𝑮𝒊𝒖̀ 𝒍𝒂 𝒕𝒆𝒔𝒕𝒂.
Probabilmente, restando nel gioco di fattiva integrazione tra immagini e suono, le opere che Morricone manipola e plasma con le sue arie, lo ispirano al pari dei versi di canzoni.
Non mi piacciono i necrologi sovente ricolmi di retorica; rimane inevitabilmente una sensazione di insufficienza, di tralasciato nel parlare di certe eminenti figure. Morricone stesso, da quanto ho potuto constatare da interviste, rifuggiva dalla mondanità, forse era il primo a stupirsi del proprio successo, era facile a quell’emozione e commozione che tanto bene sapeva trasmettere dimostrando la genuinità della propria musica.
Quindi non addio ma lunga vita a un’internazionale eccellenza italiana.
Il fotogramma del film Hateful Hate con impresso il nome di Morricone, nel suo ultimo premio oscar
foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 17 luglio 2020
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𝐈𝐍 𝐓𝐇𝐄 𝐂𝐎𝐔𝐑𝐓 𝐎𝐅 𝐓𝐇𝐄 𝐂𝐑𝐈𝐌𝐒𝐎𝐍 𝐊𝐈𝐍𝐆
(𝐀𝐧 𝐨𝐛𝐬𝐞𝐫𝐯𝐚𝐭𝐢𝐨𝐧 𝐛𝐲 𝐑𝐨𝐛𝐞𝐫𝐭𝐨)
𝐊𝐢𝐧𝐠 𝐂𝐫𝐢𝐦𝐬𝐨𝐧 (𝟏𝟗𝟔𝟗)
𝑇ℎ𝑟𝑒𝑒 𝑙𝑢𝑙𝑙𝑎𝑏𝑖𝑒𝑠 𝑖𝑛 𝑎𝑛 𝑎𝑛𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡 𝑡𝑜𝑛𝑔𝑢𝑒
𝑓𝑜𝑟 𝑡ℎ𝑒 𝑐𝑜𝑢𝑟𝑡 𝑜𝑓 𝑡ℎ𝑒 𝐶𝑟𝑖𝑚𝑠𝑜𝑛 𝐾𝑖𝑛𝑔”
Se mai album è stato consustanziale con l’involucro che lo racchiude questo è 𝐈𝐧 𝐓𝐡𝐞 𝐂𝐨𝐮𝐫𝐭 𝐨𝐟 𝐭𝐡𝐞 𝐂𝐫𝐢𝐦𝐬𝐨𝐧 𝐊𝐢𝐧𝐠. Rosso e blu a dipingere un volto terrorizzato: tinte calde e tinte fredde, sfumature cremisi e cerulei tocchi per sorprenderci e suggerirci che tra quei solchi di musica inaudita ci sarebbero state esplosioni al limite delle temperature colore. Il metallo che fonde dapprima è rosso poi sfuma nel blu man mano la temperatura sale.
Siamo nel 1969, i 𝐊𝐢𝐧𝐠 𝐂𝐫𝐢𝐦𝐬𝐨𝐧 danno concerti a non finire in vari club londinesi e il loro repertorio confluisce nel primo album che sembra quasi sigillare un decennio testimoniando che il Rock è ormai maturo per proporre questo genere di cose e dove il chitarrista non è un eroe sul palco.
Il primo brano è già, dopo qualche secondo di cacofonia in sordina con un accordarsi di strumenti, un’esplosione, un unisono che schianta ogni nostra certezza. 21𝒔𝒕 𝑪𝒆𝒏𝒕𝒖𝒓𝒚 𝑺𝒄𝒉𝒊𝒛𝒐𝒊𝒅 𝑴𝒂𝒏 ci porta al calor bianco in territori alienati, la voce distorta da un megafono di 𝐆𝐫𝐞𝐠 𝐋𝐚𝐤𝐞, scuote le coscienze, siamo ricoverati in ospedali dove i “𝒄𝒉𝒊𝒓𝒖𝒓𝒈𝒊 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒆 𝒏𝒆𝒗𝒓𝒐𝒔𝒊 𝒑𝒆𝒓 𝒅𝒊 𝒑𝒊𝒖̀ 𝒖𝒓𝒍𝒂𝒏𝒐 𝒂𝒍𝒍𝒆 𝒑𝒐𝒓𝒕𝒆 𝒂𝒗𝒗𝒆𝒍𝒆𝒏𝒂𝒕𝒆 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒑𝒂𝒛𝒛𝒊𝒂”. Il tema sale, scende, respira per dare fiato agli innocenti uccisi dal napalm, ai bambini sanguinanti. Chiara allusione alla guerra americana in Vietnam all’epoca emblema di violenza gratuita e di imperialismo. Poi la parte centrale del brano dove l’assolo di 𝐑𝐨𝐛𝐞𝐫𝐭 𝐅𝐫𝐢𝐩𝐩 si fa dolente, è un gemito continuo alle nefandezze su una ritmica incalzante che non scandisce un tempo ma riempie il pezzo di convulsioni, e ascoltate il basso di Lake che segue una linea sua, chiacchiera sullo sfondo, fraseggia petulante e continua sulle note disarmoniche del sax di 𝐌𝐚𝐜𝐃𝐨𝐧𝐚𝐥𝐝. Finché su un rincorrersi come a rimpiattino intervallato da silenzi, ritorna il tema che richiama colpi di mitraglia e il rosso sangue dell’𝑼𝒐𝒎𝒐 𝑺𝒄𝒉𝒊𝒛𝒐𝒊𝒅𝒆.
Non ti aspetti che il brano successivo si distenda in campiture pastello, e perciò sei spiazzato ulteriormente: ora siamo in tinte di rosso pallido e le nostre voci “𝒑𝒂𝒓𝒍𝒂𝒏𝒐 𝒂𝒍 𝒗𝒆𝒏𝒕𝒐/𝒊𝒍 𝒗𝒆𝒏𝒕𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒏𝒐𝒏 𝒑𝒖𝒐̀ 𝒔𝒆𝒏𝒕𝒊𝒓𝒆”, il flauto che dà il via al pezzo già ci richiama alla memoria passeggiate campestri dove “𝒍’𝒖𝒐𝒎𝒐 𝒔𝒊𝒏𝒄𝒆𝒓𝒐 𝒄𝒉𝒊𝒆𝒅𝒆 𝒂𝒍𝒍’𝒖𝒐𝒎𝒐 𝒊𝒏 𝒓𝒊𝒕𝒂𝒓𝒅𝒐:𝒅𝒐𝒗𝒆 𝒔𝒆𝒊 𝒔𝒕𝒂𝒕𝒐? 𝑺𝒐𝒏𝒐 𝒔𝒕𝒂𝒕𝒐 𝒒𝒖𝒊 𝒆 𝒍𝒂̀ 𝒆 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒔𝒕𝒂𝒕𝒐 𝒊𝒏 𝒎𝒆𝒛𝒛𝒐” non c’è una presa di posizione, tutto è possibile in un mondo schizoide.
La musica in 𝑰 𝑻𝒂𝒍𝒌 𝑻𝒐 𝑻𝒉𝒆 𝑾𝒊𝒏𝒅 si distende dopo la convulsione del primo brano, il pezzo parte quasi senza soluzione di continuità, un cambio di atmosfera brutale come quando a un gran vociare succede un silenzio improvviso. La chitarra di 𝐅𝐫𝐢𝐩𝐩 lascia cadere gocce di note dalle nuvole che il flauto addensa su pochi accordi “io parlo al vento”. Quando il brano sembra concludersi, il flauto riprende con le sue tonalità rosa azzurrine e ci conduce fino in fondo per sfumare e lasciare posto alla rullata in crescendo che annuncia 𝑬𝒑𝒊𝒕𝒂𝒑𝒉.
La sei corde ricama una frase morbida: ed è una carezza da brivido!
𝑬𝒑𝒊𝒕𝒂𝒑𝒉 sorprende le nostre vite come una dichiarazione d’amore: non ti aspetti che “𝒊𝒍 𝒎𝒖𝒓𝒐 𝒔𝒖 𝒄𝒖𝒊 𝒔𝒄𝒓𝒊𝒔𝒔𝒆𝒓𝒐 𝒊 𝒑𝒓𝒐𝒇𝒆𝒕𝒊 𝒔𝒊 𝒔𝒕𝒊𝒂 𝒔𝒈𝒓𝒆𝒕𝒐𝒍𝒂𝒏𝒅𝒐”, e che la suadente voce di 𝐋𝐚𝐤𝐞 possa scavare così a fondo e quel suono che ha sapore di orchestra e che si rivela essere un 𝑀𝑒𝑙𝑙𝑜𝑡𝑟𝑜𝑛 possa trapanarti i timpani con soavità quasi erotica. “𝑨𝒏𝒄𝒉𝒆 𝒔𝒆 𝒇𝒐𝒓𝒔𝒆 𝒅𝒐𝒎𝒂𝒏𝒊 𝒑𝒊𝒂𝒏𝒈𝒆𝒓𝒆𝒎𝒐”, ora sappiamo che un suono vitale ci sta scuotendo, qualcosa che rimarrà: ora, dopo 50 anni, lo possiamo affermare con certezza: è rimasto e vive di linfa sempre nuova, nuovamente si rinnova negli ascolti, come ogni classico che si rispetti. C’è del tragico cucito tra le note che se 21𝒔𝒕 𝑪𝒆𝒏𝒕𝒖𝒓𝒚 ce lo urla in faccia con brutalità, i due successivi episodi cercano di addolcire. Se 𝑰 𝑻𝒂𝒍𝒌 𝑻𝒐 𝑻𝒉𝒆 𝑾𝒊𝒏𝒅 è l’idillio 𝑬𝒑𝒊𝒕𝒂𝒑𝒉 è il dramma e qui il colore vira al blu, al ciano che il tema sussurrato dalla chitarra chiazza di un rosso pallido. Il brano non si discosta molto nel suo dipanarsi dalla struttura fondamentale, nel breve interludio la chitarra arpeggia un merletto, ma il tema è sempre lì a ricordare che “𝒑𝒐𝒕𝒓𝒆𝒎𝒎𝒐 𝒔𝒆𝒅𝒆𝒓𝒄𝒊 𝒆 𝒓𝒊𝒅𝒆𝒓𝒆 𝒎𝒂 𝒉𝒐 𝒑𝒂𝒖𝒓𝒂 𝒄𝒉𝒆 𝒑𝒊𝒂𝒏𝒈𝒆𝒓𝒆𝒎𝒐”, sfuma la canzone su questi ultimi versi di 𝐏𝐞𝐭𝐞 𝐒𝐢𝐧𝐟𝐢𝐞𝐥𝐝, poeta autore dei testi, che forse solo la voce di 𝐋𝐚𝐤𝐞 sa come declamare.
Poi volti la facciata (riferimento al vinile) e 𝑴𝒐𝒐𝒏𝒄𝒉𝒊𝒍𝒅 si presenta con le sue tinte rosa chiazzate di azzurro. Apprendiamo dal pronome che si tratta di una femmina, il neutro moonchild non si rivela in se stesso, l’inglese consente una incertezza nel titolo. Il tema è delicato come un lieve tocco di fanciulla, si incide nella coscienza per sfumare, cessare e polverizzarsi come se una esplosione ne disperdesse i frammenti nell’infinito, si atomizza in materia interstellare, fino al silenzio. Poco importa se a detta dello stesso 𝐅𝐫𝐢𝐩𝐩 il brano è stato allungato per riempire il disco, demolendo nell’improvvisazione ogni melodia. La bambina della luna che raccoglie fiori in un giardino ha il sapore di una piccola Eva in un eden lunare.
Dopo il disperdersi di note il 𝑀𝑒𝑙𝑙𝑜𝑡𝑟𝑜𝑛 esplode in un tema solido: 𝐈𝐧 𝐓𝐡𝐞 𝐂𝐨𝐮𝐫𝐭 𝐨𝐟 𝐭𝐡𝐞 𝐂𝐫𝐢𝐦𝐬𝐨𝐧 𝐊𝐢𝐧𝐠 prende forma da una melodia quasi epica.
Il rosso sangue è il colore che domina già dal titolo, una corte medievale con buffoni e streghe che gentilmente pizzicano le corde. Ci si spinge indietro nel tempo. Il re cremisi è il diavolo, a detta della stessa band, ma a me piace immaginarlo come il sangue che scorre, linfa vitale che sparsa fuori dai propri canali diventa simbolo di morte.
“𝑨𝒍𝒍𝒂 𝒄𝒐𝒓𝒕𝒆 𝒅𝒆𝒍 𝒓𝒆 𝒄𝒓𝒆𝒎𝒊𝒔𝒊” le “𝒍𝒖𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒄𝒂𝒕𝒆𝒏𝒆 𝒂𝒓𝒓𝒖𝒈𝒈𝒊𝒏𝒊𝒕𝒆 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒔𝒄𝒊𝒐𝒍𝒕𝒆 𝒂𝒍 𝒔𝒐𝒍𝒆” ancora la luna che incatena, imprigiona, e un ““𝐩𝐢𝐟𝐟𝐞𝐫𝐚𝐢𝐨 𝐜𝐨𝐥𝐨𝐫 𝐩𝐨𝐫𝐩𝐨𝐫𝐚” che intona una melodia, “𝐭𝐫𝐞 𝐧𝐢𝐧𝐧𝐚𝐧𝐚𝐧𝐧𝐞 𝐢𝐧 𝐮𝐧𝐚 𝐥𝐢𝐧𝐠𝐮𝐚 𝐚𝐧𝐭𝐢𝐜𝐚”.
E’ interessante il collegamento ad un Medio Evo prossimo venturo, che sorge dalla pazzia umana del 21° secolo, una Età di mezzo che si prefigura già in un utilizzo di strumenti dal sapore bucolico, melodie leggere, sussurrate, e allora viene da chiedersi: la fine di un decennio tumultuoso, ricco di promesse e di delusioni, fa voltare la testa verso un passato lontano ed epico, dove cavalieri percorrevano strade in cerca di avventure. Non tanto il Medio Evo storico qui è evocato ma un modo di sentirlo che appartiene all’epoca moderna: un Età affollata di streghe, maghi, pifferai, fanciulle lunari. È più mito che realtà, un recupero della fantasia.
Azzardo un paragone, l’anno prima (1968) usciva nelle sale 𝟐𝟎𝟎𝟏 𝐎𝐝𝐢𝐬𝐬𝐞𝐚 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐬𝐩𝐚𝐳𝐢𝐨 il capolavoro di 𝐊𝐮𝐛𝐫𝐢𝐜𝐤 mostrava nelle sequenze finali l’astronauta sopravvissuto invecchiare e morire in spazi arredati con gusto settecentesco, come se venisse suggerito un ritorno all’epoca dei lumi: l’umanità che ha sostituito la propria ragione con un super computer e ha rischiato di esserne travolta, volge lo sguardo a quell’epoca che della ragione ha visto il primato per recuperarne lo spirito che le è proprio.
Anche il volto terrorizzato sulla copertina volge gli occhi indietro, fugge, recuperando matrici musicali blues, folk, classiche, sperimentando suoni nuovi. I 𝐊𝐢𝐧𝐠 𝐂𝐫𝐢𝐦𝐬𝐨𝐧 imprimono nella 𝑯𝒂𝒍𝒍 𝒐𝒇 𝑭𝒂𝒎𝒆 𝒅𝒆𝒍 𝑹𝒐𝒄𝒌 la loro impronta, un poeta, 𝐏𝐞𝐭𝐞𝐫 𝐒𝐢𝐧𝐟𝐢𝐞𝐥𝐝, è il loro 𝑎𝑒𝑑𝑜, un genio della chitarra, 𝐑𝐨𝐛𝐞𝐫𝐭 𝐅𝐫𝐢𝐩𝐩, il loro capo indiscusso alla cui corte sono stati invitati e lo sono tuttora musicisti di primo piano, qui troviamo: 𝐈𝐚𝐧 𝐌𝐜𝐃𝐨𝐧𝐚𝐥𝐝 ai fiati e alle tastiere, 𝐆𝐫𝐞𝐠 𝐋𝐚𝐤𝐞 voce e basso e 𝐌𝐢𝐜𝐡𝐚𝐞𝐥 𝐆𝐢𝐥𝐞𝐬 alla batteria.
Il Rock non aspira ad essere una musica d’accademia: nasce ribelle e popolare, avrebbe potuto inaridirsi in pochi anni nella stanchezza della ripetitività invece in questo mondo sono atterrate, e tuttora sbarcano, menti aliene e stravaganti che accendono la luce in stanze inesplorate e dipingono le pareti di tinte nuove.
Come l’astronauta del film torna sulla terra in forma di feto suggerendo una rinascita, i 𝐊𝐢𝐧𝐠 𝐂𝐫𝐢𝐦𝐬𝐨𝐧 atterrano colorando il mondo di rosso e blu.
Foto di © Roberto Gaudenzi - 10 luglio 2020
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WITH THE BEATLES AND OTHER STORIES
THE BEATLES (1963)
Nella miscela di considerazioni a ruota libera che è questa recensione, dirò subito che ciò che mi ha sopratutto colpito del secondo album dei quattro di Liverpool, 𝐖𝐢𝐭𝐡 𝐭𝐡𝐞 𝐁𝐞𝐚𝐭𝐥𝐞𝐬 del 1963, è stata la foto di copertina.
Si dirà: certo, le copertine degli album, come quelle dei libri, come i manifesti dei film servono a quello: sono anche dei richiami pubblicitari...Ecco, appunto, dei richiami, ma alcuni richiami sono sussurrati, altri urlati, questo è inquietante.
Premetto che sono un eretico: non sono un grande fan dei Beatles. Ogni volta che viene messo sul podio un album come 𝐒𝐞𝐫𝐠𝐞𝐧𝐭 𝐏𝐞𝐩𝐩𝐞𝐫 consacrandolo come la bibbia del rock, come l’antesignano dei concept album, accetto l’assunto come un dogma che non mi entra nel cuore ma che resta emarginato in superficie. Sarà anche perché i Beatles per me sono stati troppo 𝑶𝒃𝒍𝒂𝒅𝒊̀ 𝑶𝒃𝒍𝒂𝒅𝒂̀ o 𝒀𝒆𝒍𝒍𝒐𝒘 𝑺𝒖𝒃𝒎𝒂𝒓𝒊𝒏𝒆, in equilibrio costante tra canzonetta da classifica e innovazione, certo, ma quanto 𝑮𝒆𝒐𝒓𝒈𝒆 𝑴𝒂𝒓𝒕𝒊𝒏 vi era alle spalle? (Ascoltate il suo intervento con il breve bellissimo assolo di piano in 𝑵𝒐𝒕 𝒂 𝑺𝒆𝒄𝒐𝒏𝒅 𝑻𝒊𝒎𝒆.)
I quattro emergono dal nero e i loro volti restano per metà confusi nel nero, c’è una transazione sfumata tra ombra e luce ma l’altra metà dei volti è di un bianco quasi piatto, siamo ai confini del tratto grafico che ne fa risaltare l’occhio, la linea del naso, la sfumatura dei capelli, quei capelli tagliati a caschetto, e le espressioni: 𝑱𝒐𝒉𝒏 sembra voler accennare un sorriso con lo sguardo acuto e penetrante; 𝑮𝒆𝒐𝒓𝒈𝒆 appare il più neutro, non esprime sentimenti; 𝑷𝒂𝒖𝒍 fissa lo sguardo stupito su qualcosa; 𝑹𝒊𝒏𝒈𝒐 nell’angolo ha l’espressione più triste. Una gamma di sentimenti appena accennati. L’immagine è opera del fotografo storico dei Beatles, 𝑹𝒐𝒃𝒆𝒓𝒕 𝑭𝒓𝒆𝒆𝒎𝒂𝒏, che, leggo nelle cronache, ha sfruttato la luce di una finestra.
Poi leggo, sempre dalle cronache, che i Beatles, prima di consacrarsi con questo nome, hanno frequentato Amburgo e in Germania hanno conosciuto 𝑨𝒔𝒕𝒓𝒊𝒅 𝑲𝒊𝒓𝒄𝒉𝒉𝒆𝒓𝒓, fotografa introdotta alla filosofia esistenzialista e che esistenzialista era il modo di vestire e di tagliarsi i capelli a caschetto: moda molto sobria, e austera.
Ecco il punto: l’𝐞𝐬𝐢𝐬𝐭𝐞𝐧𝐳𝐢𝐚𝐥𝐢𝐬𝐦𝐨.
E’ una filosofia variegata e che ha come fondamento l’uomo: uomo che non è frutto di un disegno preordinato ma che è ciò che fa. Ecco allora i volti dei quattro che emergono dall’ombra, che si disegnano, che assumono una fisionomia.
Siamo agli inizi degli anni ’60, precisamente nel 1963 e l’album viene pubblicato il 22 novembre...lo stesso giorno in cui a Dallas 𝑱.𝑭. 𝑲𝒆𝒏𝒏𝒆𝒅𝒚 veniva assassinato! I Beatles non potevano certo sapere questo, e neppure la Parlophone, etichetta discografica per la quale incidevano, comunque bella coincidenza, eh?
Oltre Atlantico mr. 𝒁𝒊𝒎𝒎𝒆𝒓𝒎𝒂𝒏 (𝑩𝒐𝒃 𝑫𝒚𝒍𝒂𝒏) esce con il suo secondo album 𝐓𝐡𝐞 𝐅𝐫𝐞𝐞𝐰𝐡𝐞𝐞𝐥𝐢𝐧’, e mentre lui canta di
"𝒖𝒏𝒂 𝒅𝒖𝒓𝒂 𝒑𝒊𝒐𝒈𝒈𝒊𝒂 𝒊𝒏 𝒑𝒓𝒐𝒄𝒊𝒏𝒕𝒐 𝒅𝒊 𝒄𝒂𝒅𝒆𝒓𝒆",
e si domanda
“𝑸𝒖𝒂𝒏𝒕𝒆 𝒔𝒕𝒓𝒂𝒅𝒆 𝒅𝒆𝒗𝒆 𝒑𝒆𝒓𝒄𝒐𝒓𝒓𝒆𝒓𝒆 𝒖𝒏 𝒖𝒐𝒎𝒐 𝒑𝒓𝒊𝒎𝒂 𝒅𝒊 𝒔𝒆𝒏𝒕𝒊𝒓𝒔𝒊 𝒄𝒉𝒊𝒂𝒎𝒂𝒓𝒆 𝒖𝒐𝒎𝒐” ,
quindi si interroga sull’essenza dell’uomo, pone una serie di domande sapendo che la risposta soffia nel vento e che quindi deve essere ascoltata, cercata, i Beatles si infiocchettano con canzoncine d’amore adolescenziali.
𝑴.𝑳. 𝑲𝒊𝒏𝒈 declama di avere avuto un sogno, la guerra fredda è al suo culmine, e i quattro di Liverpool sdilinquiscono per ragazzine capricciose.
L’esistenzialismo contempla in definitiva l’assurdo della vita e la nullità dell’essere e in 𝐖𝐢𝐭𝐡 𝐭𝐡𝐞 𝐁𝐞𝐚𝐭𝐥𝐞𝐬 questi temi sembrano convergere e prendere forma tingendosi di colori brillanti, la musica non è dolente, forse si respira un senso del dramma più nel disco di Dylan che attinge dal folk che da questo album dei Beatles dove il rock and roll prende a braccetto certe sonorità leggere e languide degli anni ’50, si sporca di rhythm and blues aleggiando in cieli con qualche nuvola passeggera.
Ancora, qui l’esistenzialismo da cui i quattro sembrano emergere assume l’idea di una rinuncia, di un votarsi al materialismo (𝑴𝒐𝒏𝒆𝒚, 𝒕𝒉𝒂𝒕’𝒔 𝒘𝒉𝒂𝒕 𝒊 𝒘𝒂𝒏𝒕) tutto pulito e ben confezionato, impeccabile: se l’esistenza è vuoto, diamole almeno un aspetto gradevole e piacevole e “𝒏𝒐𝒏 𝒔𝒄𝒐𝒄𝒄𝒊𝒂𝒕𝒆𝒄𝒊”.
“𝑰’𝒎 𝒔𝒐 𝒔𝒂𝒅 𝒂𝒏𝒅 𝒍𝒐𝒏𝒆𝒍𝒚” e certamente c’è del fastidio dietro queste parole ma consapevoli che la musica “𝒓𝒐𝒕𝒐𝒍𝒂 𝒐𝒍𝒕𝒓𝒆 𝑩𝒆𝒆𝒕𝒉𝒐𝒗𝒆𝒏” e quindi può in una forma nuova, diversa, dare un senso, una direzione al vuoto esistenziale.
The Freewheelin vede in copertina un giovane Dylan a braccetto con una ragazza in una strada del Village, un ragazzo sorridente che si incammina verso qualcosa, 𝐖𝐢𝐭𝐡 𝐭𝐡𝐞 𝐁𝐞𝐚𝐭𝐥𝐞𝐬 mostra i quattro in divenire, i loro volti stanno prendendo forma dal nero. In Dylan tutto sembra già dato, la presa di posizione è già assunta, qui tutto potrebbe anche tornare nell’ombra.
Su 14 canzoni la metà esatta è opera originale di 𝑳𝒆𝒏𝒏𝒐𝒏-𝑴𝒄𝑪𝒂𝒓𝒕𝒏𝒆𝒚, una a firma 𝑯𝒂𝒓𝒓𝒊𝒔𝒐𝒏 il resto cover. Forse i quattro che emergono dall’ombra non significano altro che questo: metà album li mette in luce come compositori, l’altra metà resta nell’ombra delle cover che se pure reinterpretate non svelano appieno la vera personalità dei Beatles.
Compio un salto in avanti di 15 anni, e mi sposto nel 1978, quando esce il 45 giri di esordio di “𝒕𝒓𝒆 𝒓𝒂𝒈𝒂𝒛𝒛𝒊 𝒊𝒎𝒎𝒂𝒈𝒊𝒏𝒂𝒓𝒊”, parlo dei 𝐂𝐮𝐫𝐞, che ci colpiscono con “𝑲𝒊𝒍𝒍𝒊𝒏𝒈 𝒂𝒏 𝒂𝒓𝒂𝒃” dove l’esistenzialismo non è suggerito, ipotizzato, ma concretizzato in musica. Ispirata al romanzo “𝑳𝒐 𝑺𝒕𝒓𝒂𝒏𝒊𝒆𝒓𝒐”, di 𝑪𝒂𝒎𝒖𝒔, esponente con 𝑺𝒂𝒓𝒕𝒓𝒆 dell’esistenzialismo post bellico, la canzone emerge dalla scena post-punk con quel suo sound orientale, scarno, in una progressione di note che scalano già le vette della New Wave. I tre ragazzi si stanno costruendo, portano la loro libertà di creare sulla strada pericolosa che conduce al delitto.
“𝑰’𝒎 𝒂𝒍𝒊𝒗𝒆
𝑰’𝒎 𝒅𝒆𝒂𝒅
𝑰’𝒎 𝒕𝒉𝒆 𝒔𝒕𝒓𝒂𝒏𝒈𝒆𝒓
𝒌𝒊𝒍𝒍𝒊𝒏𝒈 𝒂𝒏 𝒂𝒓𝒂𝒃”.
L’uomo assurdo di Camus si fa canzone, uccide una persona con la gratuità dell’atto (uccisione del Punk?)
I Beatles massaggiano il Rock and Roll e ne rassodano la muscolatura, la loro spinta sarà un progredire continuo; Dylan elettrificherà il folk e rimasticherà alla sua inconfondibile maniera il Blues; i Cure interiorizzano il Punk, ne distillano la linfa e lo restituiscono ricco di umori diversi.
Sono solo tre esempi che ho legato per vicinanza cronologica e per apparente comunanza di filosofia (Beatles e Cure), accostamenti forse un poco arditi come ardita è questa musica che noi definiamo rock ricca di sfaccettature, lontana da ogni espressione esclusivamente modaiola e dunque libera di costruirsi e reinventarsi, di contaminarsi.
foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 3 luglio 2020
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UMMAGUMMA
PINK FLOYD  (1969)
“𝐽𝑢𝑝𝑖𝑡𝑒𝑟 𝑎𝑛𝑑 𝑆𝑎𝑡𝑢𝑟𝑛, 𝑂𝑏𝑒𝑟𝑜𝑛, 𝑀𝑖𝑟𝑎𝑛𝑑𝑎 𝐴𝑛𝑑 𝑇𝑖𝑡𝑎𝑛𝑖𝑎, 𝑁𝑒𝑝𝑡𝑢𝑛𝑒, 𝑇𝑖𝑡𝑎𝑛, 𝑆𝑡𝑎𝑟𝑠 𝑐𝑎𝑛 𝑓𝑟𝑖𝑔ℎ𝑡𝑒𝑛.” 𝐴𝑠𝑡𝑟𝑜𝑛𝑜𝑚𝑦 𝐷𝑜𝑚𝑖𝑛𝑒 (𝑆𝑦𝑑 𝐵𝑎𝑟𝑟𝑒𝑡𝑡)
Consideravo 𝑼𝒎𝒎𝒂𝒈𝒖𝒎𝒎𝒂 l’album definitivo dei 𝑷𝒊𝒏𝒌 𝑭𝒍𝒐𝒚𝒅, il punto più alto raggiunto dalla loro musica: certo, verranno 𝑨𝒕𝒐𝒎 𝑯𝒆𝒂𝒓𝒕 𝑴𝒐𝒕𝒉𝒆𝒓 e 𝑴𝒆𝒅𝒅𝒍𝒆, ma tra i solchi del “lato oscuro della luna” i Pink sembravano avere nascosto il meglio di sé. Alludo ovviamente a 𝑻𝒉𝒆 𝑫𝒂𝒓𝒌 𝑺𝒊𝒅𝒆 𝒐𝒇 𝒕𝒉𝒆 𝑴𝒐𝒐𝒏 (disco che tanto ha venduto e che assai ha contribuito a farli conoscere) dove colpevolmente fermavo il gruppo.
Col tempo mi sono accorto che i Floyd sono stati anche altro a partire proprio da quell’album che con i colori dell’iride su sfondo nero mostrava già le differenti tinte della band.
Ma Ummagumma conserva per me il suo fascino sperimentale e immaginifico.
Nato nell’arco di un anno che mostra il primo sbarco dell’uomo sulla luna, che conosce un raduno epocale come Woodstock, che si apre con una violenta protesta contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia e che si chiude, in casa nostra, con la strage di Piazza Fontana, Ummagumma, concepito inizialmente come album singolo, dove ogni musicista compone e suona in autonomia, vede la costruzione dei brani che costituiscono il secondo disco precedere i concerti che andranno a compilare il primo disco dal vivo, e tutto questo perché la casa discografica, non convinta delle capacità dei quattro, propose di affiancare un disco live dando alle presse un doppio album.
Se un filo cuce insieme i brani di Ummagumma, ritengo che vada cercato nell’album in studio. La cucitura sembra essere, come già detto, l’autonomia compositiva ed esecutiva di ogni singolo componente ma forse c’è di più.
Apre le danze 𝐑𝐢𝐜𝐤 𝐖𝐫𝐢𝐠𝐡𝐭 con 𝑺𝒚𝒔𝒚𝒑𝒉𝒖𝒔, una suite in quattro parti, strumentale. l mito narra che Sisifo, figlio di Eolo, per avere sfidato Zeus venne condannato a spingere un macigno alla sommità di un monte per farlo ruzzolare nell’altro versante, giunto presso la sommità e vinto dalla fatica, le forze abbandonano Sisifo e il masso torna al punto di partenza costringendolo a ricominciare da capo. Il simbolo di una fatica inutile e senza fine viene musicato da Wright in quella che è forse la composizione più strutturata di questo secondo disco.
Il tema di apertura, cupo, tutto giocato sulle tastiere, fa subito pensare all’arrancare faticoso su un pendio. La seconda parte, eseguita al pianoforte, se lascia intravedere una sorta di alleggerimento dalla fatica, con modalità quasi classiche e vagamente jazzate, dà spazio ad inciampi con dissonanze come se la forza venisse mano a mano a mancare e il passo diventasse incerto, frequenti le pause, fino ad un ruzzolare scandito da un fiume di note, dall’irrompere di suoni e cupi rumori. La terza parte evoca immagini simili, la tastiera suonata in modo percussivo, suoni, fischi e rumori ancora e un precipitare, che tace nella quarta parte che si apre con le ariose note del mellotron: la fatica si fa estrema, tuttavia è necessario riprendere la salita; poi il tema sembra terminare, si dissolve nel silenzio rotto dall’irrompere violento di una nota di organo e una modulazione di accordi in crescendo, elettronica che ci porta in cima dove viene ripreso il tema iniziale fino alla chiusura.
Sisifo dunque, e la fatica che sempre ritorna, inutile.
Quasi senza stacco, entra con un suono di uccellini 𝐑𝐨𝐠𝐞𝐫 𝐖𝐚𝐭𝐞𝐫𝐬 che con la chitarra arpeggiata ci porta nei 𝑮𝒓𝒂𝒏𝒕𝒄𝒉𝒆𝒔𝒕𝒆𝒓 𝑴𝒆𝒂𝒅𝒐𝒘𝒔, in un’atmosfera bucolica che contrasta con la fatica inane che ci ha proposto Wright. Qui gli accordi fluiscono lievi come lo scorrere di un ruscello, il respiro del vento.
"𝐺𝑒𝑙𝑖𝑑𝑜 𝑣𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑛𝑜𝑡𝑡𝑒 𝑣𝑎𝑡𝑡𝑒𝑛𝑒 𝑞𝑢𝑖 𝑛𝑜𝑛 ℎ𝑎𝑖 𝑝𝑜𝑡𝑒𝑟𝑒",
canta quasi in un sussurro Waters che si stende su prati verdi con il ricordo di altri giorni in una ballata che dà un differente tono al disco e mette in risalto la vena intimista più tipica di Waters.
Gli arpeggi sfumano, la canzone è finita ma una coda rumoristica e naïf ci fa sentire una mosca volare, poi passi che scendono una scala e colpi con un ammazza-mosche fino a spegnere il ronzio con l’insetto spiaccicato sul muro. Un atto di violenza che sembra voler negare l’atmosfera creata dalla canzone per ricondurci in un campionario di suoni acuti e stridenti dove “diverse specie di piccoli animali pelosi scavano solchi in una caverna ”.
Una paurosa discesa agli inferi ci accompagna in un brano pazzo e a- musicale.
Il titolo completo è: "𝑺𝒆𝒗𝒆𝒓𝒂𝒍 𝒔𝒑𝒆𝒄𝒊𝒆𝒔 𝒐𝒇 𝒔𝒎𝒂𝒍𝒍 𝒇𝒖𝒓𝒓𝒚 𝒂𝒏𝒊𝒎𝒂𝒍𝒔 𝒈𝒂𝒕𝒉𝒆𝒓𝒆𝒅 𝒕𝒐𝒈𝒆𝒕𝒉𝒆𝒓 𝒊𝒏 𝒂 𝒄𝒂𝒗𝒆 𝒂𝒏𝒅 𝒈𝒓𝒐𝒐𝒗𝒊𝒏𝒈 𝒘𝒊𝒕𝒉 𝒂 𝒑𝒊𝒄𝒕”, tradotto un po’ avventurosamente come sopra ma precisando che “pict” è traducibile con Pitti un'antica popolazione di origine pre-celtica che popolò parte della Scozia fra il III e il X secolo. Da qui il declamare versi con accento scozzese alla fine del brano.
La “Strada Stretta" di 𝐃𝐚𝐯𝐢𝐝 𝐆𝐢𝐥𝐦𝐨𝐮𝐫 offre intrecci di chitarre: sopra tutte un’acustica arpeggiata e sovrincisa la slide, la strada stretta si intreccia in questo sovrapporsi di corde, per scivolare in una serie di suoni isolati e introdurre senza soluzione di continuità la seconda parte dove predomina un riff cupo e ripetitivo come un girare a vuoto, un loop che richiama il tema di Sysyphus e che sfuma per lasciare il posto a un amalgama sonoro che ricorda i suoni di 𝐄𝐜𝐡𝐨𝐞𝐬 da 𝐌𝐞𝐝𝐝𝐥𝐞. Poi nella terza parte sopraggiunge una riflessione declamata dalla suadente voce di Gilmour:
"𝑆𝑒𝑔𝑢𝑒𝑛𝑑𝑜 𝑖𝑙 𝑠𝑒𝑛𝑡𝑖𝑒𝑟𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑑𝑢𝑐𝑒 𝑣𝑒𝑟𝑠𝑜 𝑙'𝑜𝑠𝑐𝑢𝑟𝑖𝑡𝑎̀ 𝑎 𝑛𝑜𝑟𝑑".
𝑻𝒉𝒆 𝑵𝒂𝒓𝒓𝒐𝒘 𝑾𝒂𝒚 è forse una strada poco rassicurante, anche perché l’autore ha dichiarato di essere stato nel panico per non avere mai scritto un testo prima di questo:
“𝑃𝑟𝑖𝑚𝑎 𝑑𝑖 𝑡𝑒 𝑙𝑎 𝑛𝑜𝑡𝑡𝑒 𝑠𝑡𝑎 𝑐ℎ𝑖𝑎𝑚𝑎𝑛𝑑𝑜 𝐸 𝑠𝑎𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑝𝑢𝑜𝑖 𝑟𝑖𝑡𝑎𝑟𝑑𝑎𝑟𝑒”
frase enigmatica che sembra ricondurre la stretta via a un’immagine di morte.
La composizione di 𝐍𝐢𝐜𝐤 𝐌𝐚𝐬𝐨𝐧 sembra riportarci verso cieli più sereni rievocando favole antiche, una melodia sussurrata al flauto (che le cronache ci informano essere suonato dalla moglie) su un tappeto di percussioni come se ci si orientasse in una boscaglia nebbiosa, brevi rullate in un gioco a nascondino spuntano qui e là prive di melodia, poi un ritmo scandito, più maturo introduce la ripresa del tema iniziale: 𝑻𝒉𝒆 𝑮𝒓𝒂𝒏𝒅 𝑽𝒊𝒛𝒊𝒆𝒓’𝒔 𝑮𝒂𝒓𝒅𝒆𝒏 𝑷𝒂𝒓𝒕𝒚.
𝑨𝒔𝒕𝒓𝒐𝒏𝒐𝒎𝒚 𝑫𝒐𝒎𝒊𝒏𝒆 apre l’album dal vivo come apriva l’album di esordio dei Pink Floyd, 𝐒𝐲𝐝 𝐁𝐚𝐫𝐫𝐞𝐭 ne è l’autore.
Il testo sembra scritto sotto l’effetto di allucinogeni ma mi soffermo dove il testo recita:
“𝑠𝑡𝑎𝑟𝑠 𝑐𝑎𝑛 𝑓𝑟𝑖𝑔ℎ𝑡𝑒𝑛”
(le stelle possono spaventare), anticipata da un elenco di pianeti, satelliti e corpi celesti e una musica che pulsa al ritmo di esplosioni intergalattiche.
I Floyd ricreano un amalgama di paura interstellare, lampi di luce, uno sgomento degli spazi infiniti. Ma sembra esserci una volontà di liberarsi dallo ”horror vacui”, che i suoni distorti e i rumori non rassicuranti evocano, recuperando con ricami melodici alle tastiere un ordine che sembra perduto.
Sembra esserci una costante tensione, infatti, tra ordine e caos dove il primo sembra in fondo prevalere sul secondo: il titolo del brano sembra suggerire, con quel suo termine latino, l’evocazione ad un Signore ordinatore del tutto che può risolversi nella “fonte piena di segreti” 𝑨 𝑺𝒂𝒖𝒄𝒆𝒓𝒇𝒖𝒍 𝒐𝒇 𝑺𝒆𝒄𝒓𝒆𝒕𝒔 a chiusura del disco dal vivo. Non si allude ovviamente a religiosità e tanto meno a una qualche forma di ortodossia ma ad un’ interna necessità di ordine.
Su due note del basso di Waters arriva il pericolo: 𝑪𝒂𝒓𝒆𝒇𝒖𝒍 𝒘𝒊𝒕𝒉 𝒕𝒉𝒂𝒕 𝑨𝒙𝒆, 𝑬𝒖𝒈𝒆𝒏𝒆, “Attento a quell’ascia, Eugenio”. Brano che preannuncia l’avvicinarsi di una catastrofe, un crescendo che crea ansia nell’attesa di qualche irrimediabile male, un battito cardiaco che accelera fino al terrificante urlo di Waters che più che di dolore sembra richiamare un’angoscia esistenziale. Se al celebre quadro di Munch si dovesse associare del suono assocerei questo. 
Di pochi mesi successiva è l’uscita nelle sale cinematografiche di 𝐙𝐚𝐛𝐫𝐢𝐬𝐤𝐢𝐞 𝐏𝐨𝐢𝐧𝐭 di 𝐌𝐢𝐜𝐡𝐞𝐥𝐚𝐧𝐠𝐞𝐥𝐨 𝐀𝐧𝐭𝐨𝐧𝐢𝐨𝐧𝐢i (1970), dove si associa, alla magnifica sequenza finale che vede gli effetti di un’esplosione al rallentatore, questo brano, riarrangiato per l’occasione.
𝑺𝒆𝒕 𝒕𝒉𝒆 𝑪𝒐𝒏𝒕𝒓𝒐𝒍𝒔 𝒇𝒐𝒓 𝒕𝒉𝒆 𝑯𝒆𝒂𝒓𝒕 𝒐𝒇 𝒕𝒉𝒆 𝑺𝒖𝒏, la necessità di mantenere il controllo per il cuore del sole, (interpreterei con il centro del sole) sembra anelare a un ordine con un ritmo tribale e la modulazione di una melodia dal sapore orientale, come alludesse a un’alba. Si dice che Waters abbia composto il testo basandosi su poesie cinesi dell’era T’Ang che corrisponde in quanto a valore artistico al nostro Rinascimento.
𝑨 𝑺𝒂𝒖𝒄𝒆𝒓𝒇𝒖𝒍 𝒐𝒇 𝑺𝒆𝒄𝒓𝒆𝒕𝒔 riconduce tutto ai primordi: questo brano è la preparazione al Big Bang, l’universo ancora non esiste ma la formazione è imminente, i suoni, i feedback della chitarra, lo stridere delle corde ci fanno entrare nel brodo primordiale dove il suono non è organizzato. In un rullare in cerchio si racchiude l’amalgama da cui poco a poco prende forma la melodia e da questa la voce che ci rivela la fonte piena di segreti che forse non saranno mai svelati. Rick Wright, il tastierista, domina in queste quattro tracce e il suono emerge, evoca, si fa ricordare tra rumorismo e distorsioni, come il basso di Waters che cupo si pone come un interrogativo.
L’ordine emerge dal caos.
Uno sguardo alla foto di copertina: un gioco di rimandi come se ci fossero due specchi a fronteggiarsi, i Pink Floyd, senza cambiare la composizione dell’inquadratura, cambiano posizione al suo interno, specchi che ingannano, che mostrano una serie di immagini apparentemente uguali, in realtà diverse. In questo album hanno voluto mettersi alla prova come singoli compositori ma in definitiva restando una band unica e compatta. La serie termina sul fondo, come a svelare l’inganno, mostrando la riproduzione della copertina dell’album precedente A Saucerful of Secrets (ricordo che tra questo disco e Ummagumma c’è stata la parentesi di 𝐌𝐨𝐫𝐞 colonna sonora dell’omonimo film).
Una tensione tra ordine e caos quindi sembra essere il filo che lega il doppio album: Sisifo che secondo il mito è anche un ladro, quindi portatore di disordine, destinato a una fatica inutile, “La strada stretta” e gli orribili “Animali pelosi” ci conducono ai pericoli dell’”Axe”; le “stelle possono fare paura” e il destino dell’Universo sembra in mano ad un signore capriccioso, solo un ritorno alla calma bucolica e ad una festa dal vago sapore orientale in compagnia di un “Gran Visir” ci possono aiutare.
foto e articolo di © Roberto Gaudenzi - 26 giugno 2020
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𝐈𝐅 𝐈 𝐂𝐎𝐔𝐋𝐃 𝐎𝐍𝐋𝐘 𝐑𝐄𝐌𝐄𝐌𝐁𝐄𝐑 𝐌𝐘 𝐍𝐀𝐌𝐄
DAVID CROSBY (1971)
La Summer of Love sta svanendo e i figli dei fiori si sono incamminati verso Woodstock, verso la fine del sogno.
Nel febbraio 1971 𝗗𝗮𝘃𝗶𝗱 𝗖𝗿𝗼𝘀𝗯𝘆 pubblica il suo primo album solista e la West-Coast, in particolare San Francisco, sembra raggrupparsi, fondersi, donando musicalmente un album nel quale vengono distillati gli umori migliori: il country con il blues e un’invenzione nuova che è il rock scaturito da quei confini, esprimendo gioie e malinconie, furori e risate. Ospiti un manipolo di musicisti che quell’area hanno contribuito ad animare: parte dei Jefferson Airplane, dei Grateful Dead, dei Santana poi Neil Young, Joni Mitchell, Graham Nash.
Con un senso dell’immaginifico questo album si presenta alle orecchie di chi ascolta come un cristallino gocciolare di essenze suonate ora in punta di dita ora più urlate, smorzate in sussurri e accese di stupefatte agnizioni*.

Curioso che il “sogno” abbia avuto il suo apice in occidente e il suo epilogo in oriente.
La California è terra di confine, meta finale degli antichi pionieri che hanno riempito dei propri sogni non solo il continente nord americano ma anche buona parte dell’”Occidente” che di quel sogno si nutriva. In prossimità della costa orientale si consuma il “sogno” in quella che diventerà una grande festa.
Il lato dove il sole sorge è l’epilogo di qualcosa nato in occidente in un curioso scambio di metafore che sembra voler chiudere un cerchio.

𝐈𝐟 𝐈 𝐂𝐨𝐮𝐥𝐝 𝐎𝐧𝐥𝐲 𝐑𝐞𝐦𝐞𝐦𝐛𝐞𝐫 𝐌𝐲 𝐍𝐚𝐦𝐞
Se potessi ricordare come mi chiamo...
lascia dei puntini di sospensione che annunciano una volontà che non sa arrendersi. Una perdita di identità, una smemoratezza e quel condizionale che sembra richiamare uno sforzo, un rammarico per qualcosa che si è abbandonato.
La copertina dell’album mostra il volto di Crosby sovrapposto a un tramonto sul mare: la linea dell’orizzonte taglia il viso sotto agli occhi e il sole è la goccia di una lacrima.
Il mare dunque, e un orizzonte vuoto.

Dal canale sinistro una chitarra emerge come un suono che dura da tempo, cresce e occupa lo spazio, poche pennate e un accompagnamento di tablas colorato dal basso per dire che
“𝐿𝑎 𝑚𝑢𝑠𝑖𝑐𝑎 𝑒̀ 𝑎𝑚𝑜𝑟𝑒, 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑑𝑖𝑐𝑜𝑛𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑙𝑎 𝑚𝑢𝑠𝑖𝑐𝑎 𝑒̀ 𝑎𝑚𝑜𝑟𝑒”,
𝐌𝐮𝐬𝐢𝐜 𝐢𝐬 𝐥𝐨𝐯𝐞. Il canto è corale, universale, e crederci fino in fondo significa affermare una certezza, che forse rimarrà unica.
“𝐼𝑛𝑑𝑜𝑠𝑠𝑎 𝑖 𝑡𝑢𝑜𝑖 𝑐𝑜𝑙𝑜𝑟𝑖 𝑒 𝑐𝑜𝑟𝑟𝑖, 𝑣𝑖𝑒𝑛𝑖 𝑎 𝑣𝑒𝑑𝑒𝑟𝑒
𝑇𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑑𝑖𝑐𝑜𝑛𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑙𝑎 𝑚𝑢𝑠𝑖𝑐𝑎 𝑒̀ 𝑔𝑟𝑎𝑡𝑖𝑠
𝑇𝑜𝑔𝑙𝑖𝑡𝑖 𝑖 𝑣𝑒𝑠𝑡𝑖𝑡𝑖 𝑒 𝑠𝑑𝑟𝑎𝑖𝑎𝑡𝑖 𝑎𝑙 𝑠𝑜𝑙𝑒
𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑑𝑖𝑐𝑜𝑛𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑙𝑎 𝑚𝑢𝑠𝑖𝑐𝑎 𝑒̀ 𝑑𝑖𝑣𝑒𝑟𝑡𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜.”
La musica salva perché ti mette a nudo e fa risplendere la tua vera natura: se hai dimenticato il tuo nome, il modo per ritrovare la strada verso la tua identità passa dalla musica che è libera ed è divertente. Una componente ludica che è una ricerca di senso e in definitiva di sé.
La dichiarazione di intenti è quindi chiara: oltre i puntini di sospensione c’è la musica che si annuncia con poche battute e con frasi ripetute, in uno stile quasi tribale, uno stile che fa della spontaneità la sua cifra distintiva. Quindi con questo incipit si può affermare che la musica è la base di partenza per una ricerca, per una identificazione tra il sé e l’oltre: il volto della copertina e il mare, due cose in una, un’assimilazione ancora in divenire che fa leggere il sole sopra l’orizzonte non solo come un tramonto ma anche come un’alba.

Come un film western, dove ogni personaggio è solo di fronte a una natura selvaggia, dove ognuno è senza filtri e la legge non può intervenire, dove in definitiva si manifesta la vera natura di ognuno, e ognuno è di fronte al proprio io. 𝐂𝐨𝐰𝐛𝐨𝐲 𝐌𝐨𝐯𝐢𝐞, elettrica e nervosa, singhiozzante, dove le chitarre lacerano come colpi di pistola, schioppettate in faccia ad un equivoco: un’indiana che tutti vorrebbero dalla propria parte, si rivela essere la legge. Il cantato di Crosby è un crescendo che declama l’impossibilità di imbrigliare la legge, il suo essere desiderabile ma irriducibile. Il nome dimenticato qui sembra ritrovare un’onomastica, ogni personaggio ha un nome, il film della vita ci fa soggiacere a leggi che stanno sopra di noi. L’andatura del brano, con una ritmica ossessiva e la chitarra solista di Garcia che interviene di taglio, acida, ora urlante ora poco più suadente, incide nella canzone in modo bruciante.

𝐓𝐚𝐦𝐚𝐥𝐩𝐚𝐢𝐬 𝐇𝐢𝐠𝐡 (𝐀𝐭 𝐀𝐛𝐨𝐮𝐭 𝟑) gioca forse sull’ambiguità: sarà la vetta, muta, dalla quale contemplare il mare, il confine ultimo, in un isolamento senza parole? Oppure sarà la High School con lo stesso nome? E perché At About 3? Circa le tre del pomeriggio o circa le 3 del mattino? Il brano è senza parole come la 𝐒𝐨𝐧𝐠 𝐰𝐢𝐭𝐡 𝐧𝐨 𝐖𝐨𝐫𝐝𝐬 (𝐓𝐫𝐞𝐞 𝐰𝐢𝐭𝐡 𝐧𝐨 𝐋𝐢𝐯𝐞𝐬), entrambi con una parentetica nel titolo che suggerisce una contemporaneità, nel primo caso, e uno spostamento di senso nel secondo, e come senza parole è il breve brano cantato a cappella che chiude l’album: 𝐈’𝐝 𝐬𝐰𝐞𝐚𝐫 𝐭𝐡𝐞𝐫𝐞 𝐰𝐚𝐬 𝐬𝐨𝐦𝐞𝐛𝐨𝐝𝐲 𝐡𝐞𝐫𝐞, (Giuro che c’era qualcuno qui), con la voce che si perde in un richiamo, un urlo a cui risponde il silenzio.
La canzone senza parole, un ossimoro: una canzone è fatta di parole, la canzone nasce soprattutto come componimento poetico successivamente musicato, ma se un “albero senza foglie” mantiene comunque il proprio statuto di albero, una canzone muta non è più tale, perde il proprio stato: diventa silenzio, stante il significato originario, o si tramuta in un vocalizzo, in uno scat dove la voce torna ad essere suono puro, modulazione di note, quindi musica.
La musica dunque che precede il linguaggio, che lo trascende e lo anticipa. La canzone ha perso le parole come l’albero perde le foglie, non rimane niente altro da dire anche se “giurerei che qui c’era qualcuno,” che l’urlo di una generazione non finisca nella solitudine del vuoto, nello smarrimento dell’ultimo canto che risuona in una serie di echi.
Talmapais Hight è dunque la montagna intesa come luogo di sfida con se stessi, come vetta da raggiungere nella ricerca muta del proprio essere o nell’altra accezione come scuola, come luogo di apprendimento per eccellenza e nel suo essere senza parole rivela una ricerca di significato; Song with no words al pari di un albero si spoglia delle foglie nel tentativo di rigenerarsi, si scarica di un fardello rinsecchito nell’attesa della rinascita di nuovi germogli.

𝐋𝐚𝐮𝐠𝐡𝐢𝐧𝐠 è l’equivoco, la parola sbagliata, il fraintendimento.
Qui la canzone recupera le parole, certo, ma per negarne quasi la loro utilità.
𝑰 𝒘𝒂𝒔 𝒎𝒊𝒔𝒕𝒂𝒌𝒆𝒏,
canta Crosby come ritornello sospendendo ogni suono, seguono due note che sottolineano il rammarico: mi sono sbagliato, nessuno sa cosa sta succedendo, colui con cui parlo è solo un altro sconosciuto. C’è un’illusione che percorre il brano, che lo alimenta e lo infarcisce di speranza: Pensavo, dice, nel significato di credevo, mi ero illuso, non era la luce che poteva guidare attraverso tutta questa oscurità erano solo i riflessi di un’ombra. Anche qui si manifesta un bellissimo ossimoro dove un’ombra, quindi un’oscurità per definizione, manda dei riflessi: impossibilità fisica come poter vedere attraverso l’oscurità. La musica si articola come in buona parte dell’album per suggerimenti, note isolate nel contesto ritmico, a prevalere è la chitarra solista che sembra lamentarsi lanciandosi in note sovente lancinanti, lamentevoli, colorando l’atmosfera con la slide. Pensavo di avere trovato qualcuno che mi portasse fuori da questa oscurità, qualcuno che conosceva la verità....mi sono sbagliato era solo la risata di un bambino.
Il riso liberatorio non esce dalla gola di un adulto, che avrebbe potuto conferire al testo un tono amaro o sarcastico, ma è un bambino a ridere con l’ingenuità che un riso infantile può richiamare. Di fronte a interrogativi esistenziali risponde l’allegria di un bambino che lascia spazio alla lunga chiusa della chitarra con la ritmica che accentua la parte cupa del testo, come un richiamo costante all’errore mentre la sei corde lamenta la mancanza di risposte in un intervento struggente, un tema, un riff in minore che cala, discende fino a spegnersi nella dissolvenza.

𝐖𝐡𝐚𝐭 𝐚𝐫𝐞 𝐭𝐡𝐞𝐢𝐫 𝐧𝐚𝐦𝐞𝐬 nasce dallo sconcerto, due note di chitarra come un punto interrogativo, la ricerca del tema, un sovrapporsi di arpeggi, note isolate, temi, ricami, mentre il bordone iniziale fa da sottofondo il brano cresce poco alla volta, cresce in dissolvenza, con note isolate che sembrano cercare una strada, forse un pezzo che andrebbe posto ad inizio album: chi sono le persone che ci guidano? Chi ha in mano le sorti della nazione? La melodia si costruisce come una domanda che si formula mano a mano, la batteria che entra con un leggero rullare, il tempo definito come una vampa di luce dal fondo di una oscurità, sorregge il tema.

𝐓𝐫𝐚𝐜𝐭𝐢𝐨𝐧 𝐢𝐧 𝐭𝐡𝐞 𝐫𝐚𝐢𝐧 racchiude un mistero, forse un enigma da risolvere, magari un testo non-sense.
E’ abbastanza difficile trovare la forza di tornare dove tutto è cominciato tornare bambini forse o ricominciare da capo. Si accenna a un nuovo diluvio universale (trascinarsi nella pioggia): vi sono una tortora e una colomba con un ramo d’ulivo, certo è che questi rimandi biblici, religiosi, vengono ripresi in 𝐎𝐫𝐥𝐞𝐚𝐧𝐬 brano tradizionale francese dove vengono citati nomi di cattedrali, come si volesse recuperare una forma di religiosità che conduce a una confusione, a frasi prive di senso immediato così come lo è privo di utilità e di senso un ritorno alla religione dei padri. Il già citato 𝐈’𝐝 𝐬𝐰𝐞𝐚𝐫 𝐭𝐡𝐞𝐫𝐞 𝐰𝐚𝐬 𝐬𝐨𝐦𝐞𝐛𝐨𝐝𝐲 𝐡𝐞𝐫𝐞, here, infatti lascia senza fiato nella sua brevissima misura: improvvisato a cappella, il brano lancia voci e echi che riverberano tra pareti vuote, vibrano su corde vocali anche qui senza parole.

Per ascoltare un nuovo album solista di Crosby si dovrà attendere il 1989, 28 anni, ma 𝐈𝐟 𝐈 𝐂𝐨𝐮𝐥𝐝 𝐎𝐧𝐥𝐲,... credo rimarrà un capolavoro insuperato.
L'articolo e La Foto sono di © Roberto Gaudenzi - 19 giugno 2020
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