Linda's Stories

Your image

le avventure improbabili di una blogger
rubrica a cura di Linda Foglieni

 

𝐈𝐍𝐂𝐋𝐔𝐒𝐈𝐕𝐄 𝐒𝐓𝐎𝐑𝐘

𝘐𝘮𝘮𝘢𝘨𝘪𝘯𝘪𝘢𝘮𝘰 𝘶𝘯𝘢 𝘴𝘰𝘤𝘪𝘦𝘵𝘢̀ 𝘱𝘢𝘳𝘢𝘭𝘭𝘦𝘭𝘢, 𝘪𝘯 𝘶𝘯 𝘶𝘯𝘪𝘷𝘦𝘳𝘴𝘰 𝘱𝘢𝘳𝘢𝘭𝘭𝘦𝘭𝘰, 𝘥𝘰𝘷𝘦 𝘱𝘦𝘳 𝘲𝘶𝘢𝘭𝘤𝘩𝘦 𝘢𝘴𝘴𝘶𝘳𝘥𝘰 𝘮𝘰𝘵𝘪𝘷𝘰 𝘢𝘷𝘦𝘳𝘦 𝘭𝘦 𝘭𝘦𝘯𝘵𝘪𝘨𝘨𝘪𝘯𝘪 𝘦̀ 𝘤𝘰𝘯𝘴𝘪𝘥𝘦𝘳𝘢𝘵𝘰 𝘶𝘯 𝘥𝘪𝘧𝘦𝘵𝘵𝘰. 𝘐𝘯 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘰 𝘮𝘰𝘯𝘥𝘰 𝘩𝘢𝘯𝘯𝘰 𝘰𝘳𝘨𝘢𝘯𝘪𝘻𝘻𝘢𝘵𝘰 𝘶𝘯 𝘧𝘦𝘴𝘵𝘪𝘷𝘢𝘭 𝘤𝘪𝘯𝘦𝘮𝘢𝘵𝘰𝘨𝘳𝘢𝘧𝘪𝘤𝘰 𝘴𝘶𝘭𝘭𝘢 𝘭𝘪𝘦𝘷𝘪𝘵𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘥𝘦𝘭 𝘱𝘢𝘯𝘦. 𝘗𝘪𝘯𝘤𝘰 𝘱𝘢𝘭𝘭𝘪𝘯𝘰, 𝘧𝘪𝘦𝘳𝘰 𝘰𝘳𝘨𝘢𝘯𝘪𝘻𝘻𝘢𝘵𝘰𝘳𝘦 𝘥𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘮𝘢𝘯𝘪𝘧𝘦𝘴𝘵𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦, 𝘪𝘯𝘤𝘰𝘯𝘵𝘳𝘢 𝘶𝘯 𝘷𝘦𝘤𝘤𝘩𝘪𝘰 𝘢𝘮𝘪𝘤𝘰 𝘤𝘰𝘯 𝘭𝘦 𝘭𝘦𝘯𝘵𝘪𝘨𝘨𝘪𝘯𝘪. 
𝘋𝘪 𝘴𝘦𝘨𝘶𝘪𝘵𝘰 𝘨𝘭𝘪 𝘴𝘤𝘦𝘯𝘢𝘳𝘪 𝘱𝘰𝘴𝘴𝘪𝘣𝘪𝘭𝘪.

Inclusione: "Ciao carissimo! Vieni ti ho tenuto il posto accanto a me!" 

Integrazione: "Ciao carissimo! Vieni. Ti dico dove si possono sedere quelli che, come te, hanno le lentiggini!" 

Segregazione: "Ciao carissimo! Se aspetti un attimo ti accompagno nella sala accanto, dove stanno proiettando un film per tutti quelli che hanno le lentiggini. Come te!" 

Esclusione: "Ciao carissimo! Cosa ci fai qui? Non ti hanno detto che per quelli con le lentiggini, come te, non sono state organizzate proiezioni?"

Siamo tutti ovviamente d'accordo sul fatto che l'unica via sensata sia la prima, ci metteremmo una firma se ce lo chiedessero. Eppure se il pianeta fosse il nostro, se alla parola lentiggini sostituissimo la parola disabilità e se il festival cinematografico diventasse una manifestazione qualsiasi, firmando per una situazione che siamo certi di desiderare, avremmo però dei tentennamenti sulla possibilità di mantenere la parola. 

Ricordo ancora il giorno di qualche anno fa: organizzando un'uscita al cinema a cui partecipava anche un ragazzo sulla carrozzina, mi sono sentita dire dal responsabile del multisala di turno: "Il ragazzo con la carrozzina però deve stare in prima fila perché non sono previsti posti adatti nelle file più alte". 
In prima fila. 
In un multisala con uno schermo da millemila pollici. 
Ve lo immaginate? 
Io ricordo ancora il giorno in cui, per disgrazia, sono finita in quarta fila a vedere i Pirati dei Caraibi e sono uscita dalla sala con la sensazione di essere stata svariate volte sul Blue Tornado di Gardaland. 

Ci pensiamo poco, pochissimo, spesso lo fanno solo gli addetti ai lavori. 
Scendiamo in piazza per i nostri diritti, per salvare il pianeta, per celebrare la Costituzione. Ma la parola inclusione ci resta ancora in pochino indigesta. 
Eppure per qualcuno la vita è spesso una serie infinita di situazioni di questo genere. 

La verità è che inclusione è il termine che dovremmo cucire nella tasca di ogni vestito come una reliquia. Perché purtroppo è facile da dimenticare, è un termine che scivola come un pesce tra le pieghe della quotidianità. Ma per fare la differenza, se vogliamo davvero vivere in un mondo di cui siamo fieri, quello dell'inclusione dovrebbe diventare il nostro campo di battaglia preferito. .  

articolo di © Linda Foglieni - 8 aprile 2021

linda
 

LA SPESA

Speciale LINDA’ STORIES in the quarantinedays

Leggo continuamente di gente che fa la spesa più di una volta a settimana, la domanda che mi sorge spontanea non è tanto perché lo fanno, ma COME FANNO? Perché io, che ci vado una volta ogni 15 giorni, ho un approccio alla spesa simile a quello delle uscite per approvvigionamento nel mondo post-apocalittico di The Walking dead.
Ieri è stata per l'appunto la mia giornata di approvvigionamento.
Di seguito una sintesi poco sintetica della mia rocambolesca avventura.

LA VESTIZIONE
Avventurarsi fuori casa ogni 15 giorni comporta che ogni uscita diventi un avvenimento della portata di un debutto in società. La scelta dell'outfit diventa un dramma, perché i vestiti nell'armadio sembrano improvvisamente essere diventati troppi. Si saranno riprodotti per scissione durante la quarantena? Come facevo ad abbinare vestiti OGNI SANTO GIORNO?
Nel dubbio decido di NON ABBINARE NULLA. Pesco dal mucchio dei vestiti NERI e mi travesto DA OMBRA. Chissà che il virus non decida di spaventarsi e passi oltre. Le stringhe degli anfibi si rompono nel tentativo di allacciarli, i primi segni della sfiga incalzante che caratterizzerà il resto del pomeriggio.
Per ultima infilo la mascherina, mi sento soffocare prima ancora di arrivare alla porta e riflettere sul fatto che prima o poi dovrò comprare una mascherina nera per mimetizzarmi completamente nel nero dell'umore che mi contraddistingue nell'attimo in cui varco la soglia di casa.

LA PARTENZA...FORSE.
Decido di intraprendere la spedizione. Le chiavi della macchina non le trovo nemmeno quando la uso tutti i giorni, figuratevi dopo due settimane. Le localizzo sotto una pila di libri di storia abbandonati sul tavolo del salotto. Esco. Chiudo la porta. Percorro il giardino per arrivare all'auto e... ho dimenticato le borse della spesa.
Rientro.
Apro la porta.
Recupero le borse.
Esco.
Chiudo la porta.
Percorro il giardino che mi separa dall'auto, giro le chiavi nel cruscotto e ovviamente la macchina decide di non partire. Dalla regia mi dicono che non bisognerebbe lasciarla spenta così a lungo, perché la batteria si scarica. Io credo solo che la mia auto ce l'abbia con me.

SI IMPONE UNA SCELTA DI CARATTERE: ANDRÒ A FAR LA SPESA A PIEDI.
IL SUPERMERCATO SI TROVA A CIRCA 600 METRI. CE LA POSSO FARE.
Rientro a casa e recupero uno zaino. Mi servirà per le bottiglie di vino.

LA PARTENZA... STAVOLTA DAVVERO. 
A parte la mascherina e l'inquietante timore del segno dell'abbronzatura che potrebbe incidere indelebilmente sul mio volto, il viaggio è quasi piacevole. Mi sembra quasi di percepire di nuovo muscoli delle gambe che credevo persi per sempre. Il fatto che là fuori ci sia ancora un mondo quasi mi commuove.

LA CODA AL SUPERMERCATO
Arrivata al supermercato faccio pace con l'idea di trascorrere i prossimo 30 minuti in coda. Nonostante le cuffie riesco sentire il commento razzista che il responsabile del supermercato fa al ragazzo nero dietro di me "Ho capito che hai la mascherina in tasca, ma la devi indossare. QUI IN ITALIA SI FA COSÌ". Lui obbedisce, io penso che no, qui in Italia si fa così da settimana scorsa, quando una legge lo ha prescritto. Sto zitta e mi mangio il fegato meditando di togliere la mascherina e azzannargli il polso quando passerà a provarmi la febbre con l'aggeggetto a infrarossi con cui prova la febbre a tutti, ma quando arriva con l'aggeggetto a infrarossi sono troppo affascinata da questa nuova tecnologia e dal pensiero che NE VOGLIO UNO TUTTO MIO per provarmi la febbre ogni 35 secondi.

LA SPESA
Mentre mi chiedo "chissà se l'aggeggetto per misurare la febbre comunica con lo smartphone  e poi ti crea un grafico  con le tue febbri settimanali" arriva il mio turno per fare la spesa.
Le mani iniziano a sudarmi nei guantini di plastica obbligatori, penso alla fila che c'è fuori e alle madonne che mi lanceranno se impiego troppo tempo. Rifletto sul fatto che non devo prendere troppe cose perché sono a piedi, ma allo stesso tempo ne devo prendere moltissime perché IO QUI NON CI VOGLIO TORNARE MAI PIÙ. Ovviamente ho dimenticato la lista pazientemente stilata da Beps di cui ricordo solo il primo elemento "SCARPINOCC". Mi dirigo prontamente verso il banco frigo e scopro che gli Scarpinocc sono finiti. Di lì cado nella più profonda disperazione iniziando a riempire il carrello senza criterio alcuno. L'ultimo acquisto sono 6 bottiglie di vino, 6 PERCHÈ IO QUI NON CI VOGLIO TORNARE MAI PIÙ.

ALLA CASSA
Alla cassa rinsavisco e faccio i conti con la scelta sconsiderata di buttare tutto a casaccio nel carrello.
All'improvviso mi rendo conto che non ce la farò mai a tornare a casa con tutta quella roba nelle borse, anche se ho portato lo zaino per il vino. Inizio a scrutare le persone vicine meditando di individuare qualche bonatese a cui infilare la spesa nel bagagliaio, poi immagino il post immediato che seguirebbe su SEI DI BONATE SOPRA SE tipo "Segnalo che c'è gente che approfitta del bagagliaio altrui per trasportare la spesa. Chiedo al SINDACO di intervenire immediatamente".
Santo cielo no, pensa a The Walking dead, Michonne non si farebbe aiutare da nessuno, troverebbe un cavallo  e trasportebbe tutto con agilità. Non faccio tempo a immaginarmi mentre sello il mio destriero che è arrivato il momento di pagare. Facile no? Ebbene, al momento di digitare il bancomat realizzo di AVER DIMENTICATO IL CODICE.
Ricomincio a sudare nei guantini. "Signora cassiera ho dimenticato il codice". La signora cassiera mi guarda arcigna e mi dice che IO NON TI POSSO AIUTARE, prova almeno.
PROVO ALMENO. DIGITO NUMERI A CASACCIO, penso che la devo smettere altimenti blocco il bancomat.
Dico alla cassiera che ho 120 euro a fronte dei 138 spesi, che restituisco alcune cose per fare in modo di avere contanti a sufficienza. Mi vergogno come quando mia madre da bambina mi mandava a far la spesa con i soldi contati per paura che li perdessi e puntualmente dovevo lasciare qualcosa alla cassa CHE VENGO A PRENDERLO DOPO.
Riconsegno affranta 3 bottiglie di vino che significa che prima o poi dovrò tornare qui.
Finalmente ho pagato. Infilo nello zaino un kilo di patate e 3 bottiglie di vino, lo carico sulle spalle e raccolgo le due borse cariche con la certezza che mi accascerò come un cavallo  stremato dopo 100 metri di cammino.

IL RITORNO DELL'EROE
Del ritorno posso dire solo che questa mattina mi sono svegliata e sentivo ancora male alle spalle e che TUTTI i bonatesi vivono la loro vita in giardino, il che rende impossibile accasciarsi al suolo ogni 100 metri come avrei fatto volentieri. Varcato il cancello di casa ho creduto di intravedere un pubblico applaudente e incitante che accoglieva il mio ritorno a casa.

Poco fa ha suonato al campanello la vineria che consegna a domicilio.
Sei bottiglie nuove di pacca.
PERCHÈ IO LÀ FUORI NON CI TORNO PIÙ.

Foto e articolo di © Linda Foglieni - 11 aprile 2020

linda
 

ANDIAMO A MANGIARE
UNA PIZZA STASERA?

"Andiamo a mangiare una pizza stasera?"
"Mah, a me piacerebbe, ma non sono sicuro che tu lo voglia realmente."
"Certo che lo voglio realmente. Una pizza. Quella bella leggera che fanno in quel posto là."
"Te lo ricordi che l'ultima volta hai passato la notte a chiamarmi per accertarti di non essere in punto di morte per via del mal di stomaco che non se ne andava in nessun modo?"

Sì, me lo ricordo. Mi ricordo anche di quella e di tutte le volte precedenti. Quelle in cui ho pensato di essere allergica al lievito o ai latticini o al glutine. In uno dei miei deliri ho sicuramente pensato di esserlo a tutte e tre le cose.
Eppure rieccomi qui, per l'ennesima volta, a bramare ancora un'altra fetta di pizza.
Pizza. Pizza.

Dev'essere un legame ancestrale il mio con la pizza. Qualcosa che va al di là del suo essere un capolavoro culinario in cui sapore, consistenze e colori si sposano alla perfezione.
Dev'essere legato ai sabati pomeriggio in cui mia madre andava a comprare la pasta della pizza dal Ferruccio, il panettiere del paese, e nel tardo pomeriggio la stendeva e la farciva per la serata.
Eravamo in un cucinino piccolo e ricordo la luce fioca che la illuminava mentre pazientemente passava il mattarello sulla pasta disposta su una manciata di farina; ero molto piccola, ma mi infilava ogni volta un grembiulino rosso e mi porgeva un pezzetto di pasta per realizzare la mia piccola produzione: una pizzetta sbilenca che mangiavo con orgoglio insieme alla fetta che mi toccava.
Allora pensavo fosse la pizza a rendere quella del sabato la mia serata preferito, ora so che era la famiglia riunita attorno al tavolo senza le preoccupazioni della quotidianità, semplicemente insieme in attesa della domenica,.

Un legame ancestrale che nasce da qui, quello con la pizza, ma anche da tutte le volte che in una giornata assolutamente normale mio padre tornava a casa e: "An và a maià la pizza"{andiamo a mangiare la pizza}?
Era l'interruzione della normalità. Un elemento magico in una giornata tranquilla. Un'avventura.

E potrei andare avanti per ore e aggiungere le domeniche pomeriggio in cui, da ragazzina, non seguivo più i miei nelle scampagnate e rimanevo con mio fratello più grande, che mi spediva a prendere la pizza alla prima pizzeria d'asporto del paese, quella sotto i portici, che è ancora la mia preferita:
"UnaMargheritaEUnaRicottaESpinaci".

Tornavo a casa a piedi passando per il parco del Broletto, le pizze calde in equilibrio una sopra l'altra, la mia casa in cortile; insieme mangiavamo la pizza sul grande tavolo di legno rotondo della sala. Eravamo io e lui: mi sentivo grandissima e indipendente.

Potrei aggiungere tutte le volte in cui seduta in un parco ho mangiato con gli amici una pizza dal cartone senza posate, una birretta mentre parlavamo di una cosa qualunque.
Potrei davvero andare avanti per ore, ma starei ripetendo ogni volta lo stesso concetto: la pizza, per noialtri che l'amiamo, non è solo qualcosa da mangiare: è ricordi, è legami, è famiglia, è condivisione. Sono immagini che una dopo l’altra scorrono nel cinematografo della tua mente e spingono la tua bocca a pronunciare le stesse fatidiche parole:

"ANDIAMO A MANGIARE UNA PIZZA STASERA?"

Foto e articolo  di © Linda Foglieni - 6 marzo 2020

linda
 

LA MIA PRIMA PAURA

Me lo ricordo come se fosse ieri.
Era il 1987, avrei compiuto cinque anni solo qualche mese dopo, eppure lo ricordo chiaramente. Era mattina e io avrei dovuto andare all'asilo, non si chiamava ancora scuola materna, scuola dell'infanzia o quant'altro; per noi era semplicemente l'asilo. Ma io quella mattina non ci sarei andata: avevo passato la notte in bianco, rigirandomi nel letto per la febbre. Quando mia madre è entrata nella stanza io lo sapevo già: "È andata in cielo?" ho chiesto. Prendendo in contropiede mia madre che cercava le parole giuste per comunicarmi che non avrei più visto la mia adorata zia, la mia zia Edy. È iniziato tutto in quel momento.

Qualche giorno dopo è successo per la prima volta. Mia madre stava stirando il fazzoletto di stoffa da mettermi in tasca. Se penso al modo in cui io mi trascino dal letto alla macchina ogni mattina alle 7.00 con un OroCiock intero infilato in bocca, trovo la possibilità di accendere il ferro da stiro per stirare il fazzoletto di stoffa a una nana di 5 anni praticamente inconcepibile; ma mia madre lo faceva sembrare incredibilmente naturale.
Insomma ero lì, l'asse da stiro, il vapore, mia madre che mi parla con gentilezza e mi viene una domanda.
"Ma, perché la zia è morta? Solo ad alcuni capita, perché?".
"Purtroppo è una cosa che prima o poi capita a tutti, di solito quando si è molto anziani. La zia è stata sfortunata perché era molto giovane".

Tutti. Quindi anche a me.
Ed eccola lì, per la prima volta, in tutta la sua affascinante magnificenza.
La mia prima paura.
La madre di tutte le paure.
La paura di tutti.

È una paura che cambia, che prende la forma dell'età che ti appartiene. Diventa paura del buio, perché nel buio scompaio e non mi trovo più. Assume le forme più bizzarre: io ad esempio impazzivo quando sentivo la sigla di Chi l'ha visto, non potevo sopportare un programma TV in cui accadesse la realtà. Intorno ai 10 anni, temevo che casa mia potesse esplodere.
"Conto fino al tre, se al tre non esplode, non esplode più. Uno, due, tre" e Bum. Paura che svanisce nella superstizione.

Da grande ci pensi meno, impari a non ascoltarla, la cerchi però in tutti i libri che leggi, la esorcizzi al cinema, la trasformi in pensiero. È lì che ti rendi conto che sì, non se ne andrà mai. Ma forse è proprio grazie a lei che ti muovi, forse la fretta che hai di fare tutto e subito, di arraffare qualsiasi cosa ci sia sullo scaffale, viene proprio da lì. Ha gli occhi fieri della prima donna a cui l'hai vista sfidare. È un motore che ti muove, che ti sprona a non sprecare nemmeno un secondo. A volte ricapita, sì, quando rischi di strozzarti con un boccone troppo grande o quando siedi sul sedile dell'aereo e guardi giù dal finestrino. Ma hai imparato ad ascoltarla, fai un respiro profondo e uno, due, tre.
Bum.
Scompare nel passo in avanti verso una nuova avventura.

foto e articolo di ©Linda Foglieni
editing della foto Chiara Resenterra

linda
 

IL MIRAGGIO DELL’INDIPENDENZA
E LE RELAZIONI

La grande pseudo-conquista dei trent'anni suonati da un po', è stato il miraggio dell'indipendenza.
È successo, succede a tutti a un certo punto, che la rete pazientemente intessuta negli anni ha iniziato ad avere le maglie un pochino larghe.
La sensazione era che le cose iniziassero a scappare giù: finché mi sono sentita come un equilibrista che piroetta su un filo decisamente sottile.
È stato un po' complicato all'inizio. Muovendomi tra un passato a cui non volevo guardare e un futuro che non riuscivo a immaginare mi sentivo precaria. Poi magicamente ho iniziato a stare in equilibrio, ed è stato bellissimo.
Del resto ho sempre sognato da bambina di lavorare al circo e gli acrobati dell'aria erano nettamente i miei preferiti. Certo, dovendo scegliere avrei sicuramente optato per le trapeziste che volteggiavano nell'aria con i loro costumi scintillanti. Ma eccomi lì: equilibrista.
Quando impari a stare in equilibrio dimentichi improvvisamente che esiste tutto il resto. Ci sei tu nel mezzo di uno show di cui sei il primo artista in cartellone e il filo di presente su cui stai camminando, potenzialmente infinito.
Che si potrebbe stare per sempre in equilibrio lassù, il problema è che tu sei in altissimo e tutto invece succede laggiù. Intorno a quella rete di cui, se guardi bene, i nodi essenziali sono rimasti.
Intorno a quella rete a cui il tuo filo è aggrappato: le tue relazioni.
Perché è una balla quella dell'indipendenza.
Gigantesca.
Perché il filo su cui cammini è parte di un tessuto pazzesco di cui tu sei trama.
E colore.

Foto e articolo di ©Linda Foglieni
editing della foto Chiara Resenterra

marco
 

CHE COSA È IN FONDO L’APPARTENENZA?

L'altro giorno mi è capitato di inciampare in un pezzo di Gaber che non ricordavo per niente.
Devo averla ascoltata da qualche parte in passato, perché mi è subito suonata familiare, ma la musica deve avermi distolto dal significato del testo. Si intitola "Canzone della non appartenenza" e a un certo punto dice (vado a memoria) che l'appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme, né il conforto di un normale voler bene, ma che appartenenza significa avere gli altri dentro di sé.

Mi sarebbe piaciuto ascoltarla da adolescente, quando mi dannavo per appartenere a qualcosa senza riuscirci mai e mi sentivo sempre non abbastanza.
Non mi sentivo abbastanza punk per ballare Anarchy in the UK in mezzo alla pista, ma neanche sufficientemente Hippie per lasciarmi crescere i capelli e abbandonarmi al caldo abbraccio di Joni Mitchell che sventola la sua chioma bionda parlando di una Woodstock a cui non è mai stata.
Non mi sentivo abbastanza studente universitaria, perché passavo la maggior parte della mia giornata a fare un lavoro che adoravo. Appena mi capitava di iniziare a sentire di appartenere a qualcosa, scivolavo come un'anguilla nel mio nuovo percorso.
Non sono mai stata nulla di quello che sono stata al cento per cento e credo che non proverò mai questa sensazione. Le anime inquiete hanno sempre un piede nella prossima avventura: perché un piede salva l'altro, te lo spiegano ancora prima che inizi la partita.

Eppure sbagliavo quando sentivo di non appartenere a nulla, sbagliavo di brutto; perché ogni giorno mi guardo allo specchio e ci ritrovo tutto quanto: un mosaico coloratissimo di tutte le persone che sono stata e di tutto ciò a cui sono appartenuta e che ora mi appartiene.
Quell'appartenenza reale, che ti fa spuntare le radici sotto la suola delle scarpe; quella di Gaber, che significa davvero avere gli altri dentro sé.

articolo di © Linda Foglieni - 23 gennaio 2020
editing della foto Chiara Resenterra

Linda's Stories
 

GLI INVERNI CON LA NEVE

È semplice disegnare un fiocco di neve: basta tracciare un asterisco su un foglio e aggiungere ad ogni braccio due accenti laterali.
Grave e acuto.
Grave e acuto.
Puoi farlo su un foglio bianco, con una penna Bic, frettolosamente; puoi comprare un cartoncino nero e riempirlo di asterischi colorati, puoi costruirlo con carta e forbici, piegando con pazienza in tanti triangoli bianchi un foglio quadrato e tagliando con perizia gli intarsi; puoi anche tracciarlo su un vetro appannato, con le dita.
È un disegno molto semplice, ma anche incredibilmente elegante, elegante nella sua simmetria. Come la neve, quella vera, quando d'inverno si appoggia sulle cose e le trasforma.
Delle cose che cadono la neve è quella che preferisco, perché non fa rumore.
L'altra notte sono andata a camminare qualche chilometro su una montagna non troppo distante da casa, c'era un silenzio lunare, col naso rivolto all'insù ho guardato il numero spropositato di stelle che l'assenza di luce regala.
La cintura di Orione, Beltegeuse, Bellatrix, Saiph e Rigel.
Avevo freddo al naso e i vestiti imbottiti come quando da bambina ti bardavano per andare a giocare per venti minuti in cortile.
Gli inverni con la neve: mio padre che mi trascina usando una pala come slittino, io che rido, le palle di neve ghiacciate, i geloni alle mani, guarda quella è una discesa!
E poi di corsa in casa perché "non vedi che hai le labbra blu e le dita raggrinzite?". La stessa frase: in estate per la piscina, in inverno per la neve.
Subito in casa.
Un bagno caldo.
Il camino.
Un film alla TV.
Che l'inverno è così: il caldo dentro, quando fuori è il gelo.

articolo di © Linda Foglieno - 7 gennaio 2020
editing della foto Chiara Resenterra

Linda's Stories
 

ANNO NUOVO VIENI AVANTI, TI FAN FESTA TUTTI QUANTI

Era un uomo bellissimo mio nonno Piero: alto, capelli bianchissimi e un portamento naturalmente elegante; era a suo modo un rivoluzionario: da ragazzo era stato il primo a liberarsi della mezzadria, a cui era legata la sua famiglia da generazioni, andando a lavorare alla Dalmine.
Conosceva tantissime storie, barzellette e filastrocche.
C'era quella di Pierino senza la carta igienica in mezzo agli ufficiali dell'esercito tedesco, c'era quella del bambino così brutto che i genitori l'avevamo buttato in pattumiera, c'era quella di Giovannino senza paura e della strada che solo lui conosceva e poi c'era la filastrocca che tutti gli anni ripeteva il giorno dell'ultimo dell'anno.
"L'anno vecchio se ne va e mai più ritornerà. Anno nuovo vieni avanti, ti fan festa tutti quanti".
Mi piaceva tantissimo eppure, ci pensavo poco fa, non ha nulla di particolarmente entusiasmante al suo interno.
C'è l'anno vecchio che se ne va e la garanzia che mai più ritornerà e non c'è nemmeno un augurio per l'anno nuovo, che ha solo la caratteristica di essere festeggiato da tutti coloro che speranzosi lo attendono. Ma da nessuna parte è scritto che tutto andrà bene.
Mi ha ricordato il dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere di Leopardi, che ogni anno faccio leggere ai ragazzi accompagnato dalla versione cinematografica di Olmi; nel quale il passeggere giunge alla conclusione che la felicità consiste nell’attesa di qualcosa che non si conosce, nella speranza di un futuro diverso e migliore del passato e del presente. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura.
La fine dell'anno è un momento speciale perché è la nostra occasione di ricominciare, non festeggiamo altro che la nostra speranza e la rinnovata occasione di riempirla di momenti felici.
E allora eccoci lì a mettere in fila ogni anno i nostri sogni e quei noi stessi futuri che siamo certi che prima o poi incontreremo. L'anno prossimo sarò sempre puntuale, risolverò quel problema che da mesi non mi fa dormire la notte, leggerò tantissimo, userò meno i social, andrò in palestra regolarmente, farò meno aperitivi e smetterò di fumare.
L'anno prossimo saremo i noi stessi che non abbiamo ancora avuto il coraggio di diventare.
E sta tutta lì la magia.
In quel possibile che continuiamo a credere fermamente che prima o poi sarà.
Felice anno nuovo, felice speranza a tutti.
Diventeremo tutto quello che vorremo diventare.

Articol di © Linda Foglieni - 28 dicembre 2019
Editing della foto: Chiara Resenterra

Linda's Stories
 

STORIA DI
TRADIZIONI CASALINGHE

Negli anni '80 l'inizio del Natale era sancito ufficialmente dalla proiezione della storia del Piccolo Lord Fauntleroy. Erano giorni di impegnative maratone televisive quelli delle vacanze natalizie, la TV generalista dava il meglio di sé e tu bambino non potevi che piazzarti davanti alla TV e usufruire di tutto quel bendidio dribblando i "Guarda che c'era un bambino a cui a forza di guardare i cartoni è venuta la testa a forma di televisione" di tua madre.
Willy Wonka, Mary Poppins, Santa Claus, Beetlejuice, Topolino, il Cowboy dal velo da sposa, ET, John e Solfami, i Gremlins, Tutti insieme appassionatamente, Pomi d'ottone e manici di scopa, Pollyanna... La tv ti regalava TUTTI i tuoi classici preferiti e tu te li sorbivi tutti d'un fiato.

Tra una maratona e l'altra arrivava anche il momento degli addobbi natalizi. A casa Foglieni avevamo un albero rosa shocking addobbato con gli addobbi di cioccolato portati da Santa Lucia. La tentazione di sfilarne qualcuno era costante, il trucco era sfilare il cioccolato dalla stagnola colorata in modo da simulare la presenza del cioccolato al suo interno.
Essendo noi 4 fratelli succedeva che intorno al 25 l'albero finiva per essere custode di una serie di cadaverini di stagnola variopinta a testimonianza della nostra assoluta incapacità di resistere alle tentazioni. L'altro pezzo forte degli addobbi di casa Foglieni era il presepe. Un capolavoro di ingegneria la cui realizzazione prevedeva diversi step:
1. "Facciamo il presepe?"
"Domani, oggi non ho tempo". "
Dai facciamo il presepe!"
X 20 ripetizioni:
"Iniziate a tirar fuori le statuine".
Tripudio di gioia. C'erano le statuine di gesso ereditate dalla nonna, qualcuna più recente in plastica, una capanna spolverata di neve finta. Poi c'erano le pecore, tantissime, le mie preferite erano quelle col collare rosa, sebbene non abbia mai ben capito perché le pecore dovessero indossare un collare. Infine la star. Gesù bambino. Custodito in un bicchierino di vetro nella credenza in attesa di fare la sua entrata trionfale a mezzanotte del 24 dicembre.
2.Fase 2: Carta, scotch, muschio e lucine.
Ovvero: la storia infinita. La carta per coprire la base era sempre troppo corta, lo scotch era sempre all'ultimo giro, il muschio era sottoposto a razionamento poiché, nonostante l'acquisto a scadenza annuale, FINIVA.
Ancora oggi mi spiego come possa il muschio finire e immagino elfi notturni che ne sottraggono un pezzetto alla volta. E poi le lucine. Ce n'era sempre una fila che si rifiutava di brillare.
La fase logistica poteva durare anche un paio di giorni, ma inevitabilmente portava alla...
3. FASE TRE: LA REALIZZAZIONE.
Come dicevo il nostro presepe era un capolavoro di ingegneria: per simulare la presenza dell'acqua la statuina col pozzo doveva coincidere con le lucine blu e ogni specchio d'acqua era segnalato dalla presenza di un pezzo di stagnola, il fuoco corrispondeva con le luci rosse. Per montagne veniva approntata un'apposita carta modellabile e i re magi facevano UN PASSO AL GIORNO per arrivare in tempo alla capanna per l'Epifania.
Una volta pronto, il presepe diventava parte della vita della casa e teatro dei miei giochi preferiti. Il vecchio con le fascine identico al nonno di Heidi diventava il fratello segreto del fabbro innamorato della lavandaia che dimenticando il secchio al pozzo aveva incontrato un angelo che gli aveva detto che sarebbe nato Gesù. "
Non spostare tutto"
"Poi metto a posto!".
L'altro giorno guardavo mio nipote immobile davanti a quello stesso presepe con due dita su una pecora in attesa di spostarla chissà dove. Pensavo alle tradizioni, a come ognuno di noi si porti dentro le proprie e alla terra sotto i piedi che viene a mancare quando si interrompono. Ti sembra che nulla potrà più essere lo stesso.
Poi ti alzi una mattina e realizzi di aver iniziato una nuova tradizione, diversa sì, ma altrettanto bella. Perché le tradizioni in fondo sono quello che ricorderemo della nostra storia e quando cambiano significano che ci stiamo muovendo. Che siamo vivi.
Buon natale a tutti. Vi auguro.

Articolo di ©Linda Foglieni - 18 dicembre 2019
Editing della foto: Chiara Resenterra

Linda's Stories
 

“NATALE NON È NATALE SENZA REGALI- BORBOTTÒ JO, STESA SUL TAPPETO."
“Piccole Donne” L.M.Alcott

Avevo sette anni quando ho letto per la prima volta le Piccole donne ed ero perfettamente d'accordo con Jo.
Tutti gli anni dopo il pranzo di Natale dai nonni, tutti gli zii sfoderavano pacchettini coloratissimi con il nome di ciascuno di noi scritto sopra. Spesso ci trovavi un paio di calzini, mutande natalizie, guanti, piccole cose che acquistavano valore solo per il fatto di averle ricevute in dono. A caval Donato non si guarda in bocca. La regola di mia madre che non capivo proprio ancora alla perfezione: perché mai un cavallo dovrebbe chiamarsi Donato?

La smania dei regali di Natale non mi è passata, crescendo si è però adattata alla forma che ha preso la mia vita: un saliscendi indefinito di corse che non si sa dove andranno a finire. L'unica forma di progettualità legata al natale, per quanto mi riguarda, sono le lucine appese al balcone fino all'anno successivo. Che ogni anno la sorpresa natalizia più grande è scoprire che funzionano ancora. Tutto quello che non corrisponde a lucine, abbandonate a temprarsi l'animo nelle intemperie, lo lascio al caso, che non di rado genera meravigliosi MOSTRI: alberi smontati a ridosso della Pasqua, pacchetti confezionati la mattina di Natale litigando con lo scotch che si appiccica alle calze da ventordici euro comprate per l'occasione.

Ma la vera follia la raggiungo con l'acquisto dei regali vero e proprio, che si dipana su un filo cronologico che copre tutti i mesi dell'anno. Proverò a sintetizzarlo attraverso i momenti più salienti.

Gennaio:
Saldo bancario.
Lo osservo, mi chiedo cosa sia andato storto nell'acquisto.
"Sai Beppe? L'anno prossimo dovrò proprio organizzarmi meglio".
"Mi sembra un'ottima idea Linda"

Luglio e Agosto.
Bancarelle al festival.
"Ma che cose bellissime, non sarebbe meraviglioso farle come regali di Natale? Quasi quasi le compro.No Beppe?"
"Sì Linda".
"Ma no dai, troppo presto, al massimo chiedo un biglietto da visita"
"Mi sembra un'ottima idea Linda".
Biglietto che va a creare uno strato sul fondo della borsa, insieme a tutto il resto del ciarpame.

Novembre:
Black friday.
"Sai Beppe, penso che quest'anno prenderò i regali online, così risparmio qualcosina e posso dedicare i giorni prima del natale a fare i pacchetti!"
"Sì Linda".
Amazon, carrello, 238,84 euro.
"Sai Beppe, non è che mi convinca molto questa cosa dell'online. E poi Amazon sfrutta i dipendenti, non mi sembra etico"
"Hai ragione Linda".
Svuota carrello.

... 24 Dicembre:
"Beppe, sai una cosa? non ho ancora preso i regali di Natale. Mi sa che oggi dobbiamo andare all' Orio Center".

Articolo e foto di ©Linda Foglieni - 5 dicembre 2019

Linda's Stories


editing della foto di Chiara Resenterra

 

CHE COSA E’ LA SOLITUDINE?

La benzina finisce sempre quando sei di fretta e hai un appuntamento a cui è importante arrivare in orario .
È scientificamente provato.
Mi è successo un paio di mattine fa. È tardissimo, esco di casa con il cappotto sul braccio e senza mascara che "lo metto dopo in macchina", chiudo la porta con la chiave blu a forma di chitarra elettrica, entro in macchina correndo; come accade due volte su tre, gratto il fondo della portiera sul gradino accanto allo scivolo, maledizione... accendo e... la benzina! L'icona del serbatoio lampeggia e domani c'è pure sciopero dei benzinai. Devo fermarmi assolutamente.
Arrivo davanti al benzinaio, apro l'antellino, prendo la pompa e mi ricordo persino di digitare il pulsante 20 euro sul display. Sono velocissima! Richiudo tutto e mi avvio in cassa a pagare, noto un po' di trambusto e uno sguardo spiritato da parte del ragazzo davanti a me che sventola una banconota da 10 euro alla cassiera senza essere preso in considerazione. Succede che la cassiera e la ragazza che si occupa di fare i caffè stanno litigando. Urlano.

"TI HO DETTO CHE IO ALLA TUA ETÀ LA PENSAVO COME TE MA POI HO CAMBIATO IDEA."
"IO NON POTREI MAI RINUNCIARE A ME STESSA E ALLA MIA DIGNITÀ PER UN UOMO."
"ALLA TUA ETÀ LA PENSAVO COME TE. MA POI LE COSE CAMBIANO"

Urlano sempre più forte, si avvicinano, la tensione è davvero alle stelle.
La cassiera inizia a urlare che dalla morte di sua madre non può tollerare chi se la prende per futilità come l'amore, piange, la barista non molla. È ferita.
Gli avventori sono increduli, il tizio davanti a me continua a sventolare la banconota da 10 euro. Io medito di fuggire senza pagare: sono in un ritardo stratosferico. Finalmente il signor benzinaio con la tuta d'ordinanza mette fine al delirio e posso andarmene dopo che la cassiera con lo sguardo torvo e ancora singhiozzante mi ha concesso di saldare il mio debito.
Esco.
Ma non riesco a smettere di ripensare alla scena.
Quello che mi ha colpito non sono state le parole: ormai i litigi hanno tutti la stessa patina dei talk show che ci hanno insegnato ad urlarci addosso. Mi hanno colpito le voci, le facce vicinissime tra loro, la sofferenza. Ho pensato che queste due ragazze si stessero urlando addosso tutta la propria solitudine. Loro inanellavano parole su parole e tutto quello che riuscivo a sentire era SONO SOLA.
CAZZO SONO SOLA ANCHE IO.

È la grande paura, il cancro insidioso del nostro tempo. La solitudine. Siamo bombardati da modelli perfetti a cui dovremmo aspirare e che prevedono la solitudine solo nel caso in cui tu sia un single in carriera con un lavoro da 80 zilioni di dollari. La famiglia felice, la coppia innamorata. Perfino la pubblicità non vende più prodotti ma status sociali inarrivabili.
Concetti.
Siamo così bombardati da questo modo in cui dovremmo essere che quando la nostra vita non somiglia a uno spot pubblicitario ci sentiamo soli.
L'altra sera mi sono fatta un minestrone surgelato a casa da sola e devo dire che ero piuttosto soddisfatta, finché non ho avuto la sensazione di essere in uno di quei film che vedi nei festival cinematografici in cui un tizio polacco si mangia una minestrina e l'inquadratura si stringe su di lui: gli guardi le rughe accanto agli occhi, il cucchiaio che si avvicina alla bocca e fa un rumore fastidiosissimo, pensi a quanto cazzo è solo e ti sembra anche un po' patetico.
Eppure non è giusto. Non è quella la solitudine reale.
La solitudine, quella vera, credo di averla capita. È l'incapacità di stare bene con sé stessi, la ricerca spasmodica di compagnia anche quando non ne hai davvero bisogno, solo per zittire quella voce che ti dice che no, c'è qualcosa che ti manca.
E invece quella voce la dobbiamo ascoltare, dobbiamo smettere di soffocarla con tutto quello che ci capita a tiro: realtà virtuale, surrogati di amore che di amore non hanno nulla, false amicizie, lavoro senza sosta. Perché ascoltare quella voce che cerchiamo continuamente di zittire significa imparare a soddisfare i nostri bisogni. Cosa ti manca? Un amico, chiamalo! Cosa ti manca? La felicità, lavora per ottenerla.
Ascoltarci significa darci la possibilità di curarci, di amarci, di perfezionarci. Di regalare a noi stessi la migliore compagnia di cui abbiamo bisogno: la nostra.

Articolo di ©Linda Foglieni - 13 novembre 2019
Editing della foto di Chiara Resenterra

Linda's Stories
 

COME COMBATTEVI LA NOIA MENTRE I PROF SPIEGAVANO A SCUOLA?

Sono trentun anni che ogni giorno della mia vita, fatta eccezione per le vacanze e le feste comandate, la mattina mi sveglio, preparo tutte le mie cosine e vado a scuola.
sono stata da studente: tutto il pacchetto completo, elementari, medie, superiori e università.
Ci sono stata da educatrice a supporto delle autonomie di ragazzi con disabilità e ho seguito le lezioni dei docenti delle loro classi, più o meno su tutto lo scibile umano: italiano, storia, latino, matematica, scienze, inglese, francese, spagnolo, tecnologie meccaniche, economia aziendale, disegno tecnico... perché l’assistente educatore tutto sa, e quello che non sa...tocca studiarlo.

Da tre anni, poi, sono passata dall’altra parte della barricata, quella a cui tocca il privilegio della prospettiva migliore sulle ugole scoperte degli sbadigli sgraziati, quando tu, la prof. ,ti dilunghi su quel particolare di cui ti sei innamorata e la tua banda di “desperados” sta bramando semplicemente il suono della campana per accaparrarsi un pezzo di pizza. Che se tu decidessi di mangiare a quell’ora del mattino, come minimo ti ritroveresti con il peso di un tir a schiacciarti l’esofago per le due settimane successive.
Della noia di quando l’ugola sgraziata era la mia, custodisco però dei ricordi meravigliosi, perché è lì che il vero genio emerge, nel tentativo di sganciarti dal controllo dell’adulto che cerca di insinuare la cultura nel tuo cervellino refrattario.
Che poi, ricordo anche lezioni di docenti meravigliosi, sono certa di essermi persa dissertazioni più che affascinanti, ma la noia è a prescindere, si acquatta nei luoghi più inaspettati e l’impazienza di sfuggirle ti conduce in universi paralleli inimmaginati.
Ho stretto le mie amicizie migliori durante i momenti di noia a scuola e collezionato i rimproveri più esilaranti.
Uno su tutti durante un’infinita lezione di Francese sui paradigmi dei verbi.

Prima fila della classe di un istituto scolastico della bergamasca- interno giorno.
“FOGLIENI METTI VIA QUEL DIARIO” - per inciso, ho prodotto delle Smemoranda che meriterebbero il fregio di una personale in un museo di arte contemporanea -.
“OK PROF.“
“FOGLIENI SMETTILA DI FARE RUMORE E METTI VIA QUELL’ASTUCCIO.”
“OK PROF.”
Serie di rimproveri similari. Banco ormai vuoto. Sgranchisco le gambe e mi accorgo che con la lunghezza mediocre dei miei arti inferiori posso, senza troppa fatica, stenderli sulla parte anteriore della cattedra. Ci provo. Urto inavvertitamente gli arti inferiori del docente che assume un’aria paonazza.
“FOGLIENI, NON È POSSIBILE, PORTAMI QUEL DIARIO!
LO PRENDO PROF. È CHE L’AVEVO APPENA MESSO VIA, MA ARRIVO.”

E poi le produzioni meravigliose di quegli anni, con la mia amica Marta costruimmo una casa delle bambole fatta interamente di fogli di bloc-notes assemblati con la colla PRIT, era una meraviglia di architettura dettagliatissima che comprendeva persino sanitari e mini-rotoli di carta igienica.
Giuro.
E le conversazioni tramite “pizzini” mica le ha inventate Provenzano, io e la mia amica Ramona eravamo maestre di comunicazione, all’epoca li conservavo tutti, sai mai che un giorno divento famosa e li pubblicano in un volume unico di scambi epistolari, come le lettere della Sibilla Aleramo con Dino Campana.
E la musica ascoltata di nascosto, i testi ricopiati con la precisione certosina degli amanuensi, i libri letti di nascosto, le lettere d’amore, gli scarabocchi a margine del manuale di Italiano...

Che Dio la benedica la noia a scuola, che in quello spazio da cui pensavo di fuggire è finita che sono inciampata dentro di me.

Articolo di ©Linda Foglieni - 8 novembre 2019
Editing della foto di Chiara Resenterra

un frame del film "ombra e il Poeta"
 

ANCHE TU HAI AVUTO (E HAI) UNA MADRE CON
L’”ANSIA DA CONTROLLO”?

Da prof. di madri ne vedo praticamente ogni giorno. Ho una collezione Panini delle tipologie più assurde, che per anni hanno rifornito costantemente il repertorio di aneddoti da sfoderare nel momento in cui la conversazione langue e hai bisogno del racconto brillante da buttar lì sul tavolo come il tre di briscola. 10 punti secchi e un paio d'ore di conversazione garantita. Perché, quando si tratta di genitori, ognuno ha il proprio personale ricordo esilarante da sfoderare prontamente dalla tasca del cappotto.
Le riserve migliori però le prendo dalla pregiata cantina delle mie personali memorie adolescenziali.
A giustificare le trovate ingegnose della mia genitrice c'è il fatto che la sottoscritta non è che fosse proprio una figlia modello. Diciamo che nell'arazzo degli episodi più divertenti, il filo l'ho generalmente fornito io. Ero il tipo di giovane donna che durante la tardoadolescenza si nutriva di cassette punk e sfoderava un abbigliamento degno del genere.
Mia madre, con grande scaltrezza e abilità sartoriali, cercava di controllare la faccenda intervenendo sui miei abiti durante la notte. Capitava di ritirare i miei jeans preferiti dallo stendibiancheria e di ritrovarli irrimediabilmente mutati: da lunghissimi, sfilacciati e calpestati come piacevano me, al momento di indossarli me li ritrovavo di dieci centimetri più corti, di gran moda oggi, passibili di denuncia da parte di tutte le tue compagne di classe all'epoca: CAZZO C'HAI, L'ACQUA IN CASA?
L'apice è stato raggiunto il giorno in cui ritirando la mia maglietta preferita fresca di bucato, quella con le maniche lunghe lunghe e un buco in cui infilavo i pollici, mi sono ritrovata con un inserto in jeans (giuro) che trasformava la mia meravigliosa maglia un po' grunge in un'esemplare hippie con le estremità A ZAMPA.
Pazienza.
Ero anche quel tipo di adolescente che piuttosto che andare a scuola si intratteneva in lunghe conversazioni culturali, politiche e pseudofilosofiche nei bar del centro, che ospitavano esemplari suoi simili. Per stanarmi mia madre era solita rovistare nelle tasche dei jeans come una novella Perry Mason e additare l'orario incriminato. DOV'ERI? MERCOLEDÌ ALLE 9.45?
A scuola?
E ALLORA PERCHÉ HAI UNO SCONTRINO CHE DICE CHE ERI IN UN BAR IN CENTRO?
Seguono scontri poco divertenti.
L'episodio più eclatante risale però all' occupazione della scuola. Al Secco Suardo le aspiranti maestre non è che fossero proprio delle impegnate attiviste. Ma quel 1998 avevano deciso di occupare finalmente l'istituto per lamentare qualcosa che non ricordo più, facendosi aiutare dai più impegnati vicini del Lussana. Pur non essendo tra gli organizzatori, ero ancora quindicenne e con scarsissima attitudine al comando, mi era arrivata voce dell'azione e mi trovavo in prima linea la mattina dell'occupazione.
Il bidello aveva ceduto le chiavi. L'azione aveva lasciato fuori tutti i docenti, mentre svelte ci apprestavamo a ricoprire le vetrate dell'entrata con la carta dei giornali. Un ragazzo alla porta vietava l'accesso agli adulti e lasciava passare gli studenti.
Ce l'avevamo fatta. Il mondo era fuori e noi avevamo il controllo.
Una mano mi bussa alla spalla sinistra e mi chiama per nome.
Mi volto.
ERA MIA MADRE.
Mamma. Cosa ci fai qua dentro? NIENTE, SONO QUI PER IL COLLOQUIO CON I PROFESSORI.
Ancora non so come fosse riuscita ad entrare. Quello che ricordo è mia madre che nell'atrio della scuola parla con la mia prof di matematica dei due 4 presi nelle verifiche precedenti.
Quel momento lì, in cui ho sentito le sue dita bussare alla mia spalla destra è esattamente quello in cui ho capito che non c'è niente da fare. Puoi diventare anche l'amministratore delegato di una multinazionale dell'Indocina, ma di una madre non ti liberi.
MAI.

Articolo e foto  di ©Linda Foglieni - 29 ottobre 2019
Editing della foto di Chiara Resenterra

un frame del film "ombra e il Poeta"

In questo sito usiamo soltanto cookies tecnici e NON facciamo profilazione. Per informazioni aggiuntive sui cookie e come eliminarli visita la nostra pagina cookie e privacy.

  Continua la navigazione del sito.
EU Cookie Directive plugin by www.channeldigital.co.uk